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A Bologna laurea ad honorem a Liliana Segre: «i peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non hanno mai pensato»

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La mia preparazione filosofica è limitata. Quando tornai dalla prigionia i miei parenti erano scettici:
dicevano «è troppo tardi per la scuola, con tutti gli anni che hai perso…». Invece io non volli
accettare quel destino, tornai a scuola e trovai nello studio una ragione di vita. Con grande fatica
recuperai gli anni perduti e feci addirittura “cinque anni in uno”, cose da dopoguerra… E poi
completai gli studi facendo il Liceo Classico. Fu una tappa molto importante per il mio ritorno alla
normalità.
Molti anni dopo, quando decisi di diventare testimone della Shoah, mi sforzai sempre di
trasmettere, soprattutto a ragazze e ragazzi, il senso della necessaria unità di memoria e realtà, storia
e vita. E questo mi sembra qualcosa che abbia un qualche valore anche in termini di filosofia
morale. Del resto è quanto è scritto anche nella motivazione della laurea: «Mai la coscienza deve
restare silente, sempre scienza e conoscenza vanno messe al servizio dell’agire, della vita concreta
degli individui e della società nel suo complesso».

Nella stessa motivazione è richiamata anche Hannah Arendt, filosofa ebrea costretta a fuggire dalla
Germania nazista, in particolare dove dice che «i peggiori malfattori sono coloro che non ricordano,
semplicemente perché non hanno mai pensato»
. Un passo mirabile, che ci obbliga a riflettere sul
fatto che la Memoria diventa coscienza e sapere e di conseguenza spinge le persone ad agire
secondo «virtute e canoscenza» come dice il Sommo Poeta.
L’onore che l’Università di Bologna mi fa conferendomi la laurea Ad Honorem mi è particolarmente
gradito anche per gli importanti legami tra la mia famiglia ed il vostro antico e nobile Ateneo. Mio
nonno materno, l’avvocato Alfredo Foligno, conseguì la laurea in Giurisprudenza proprio a Bologna
il 21 ottobre del 1900 – ho qui addirittura la copia del suo diploma di laurea – e poi fece l’avvocato
civilista tutta la vita.
Mio marito, Alfredo Belli Paci, dopo avere interrotto gli studi durante la guerra, perché fu mandato
in guerra, si iscrisse all’Università di Bologna e qui si laureò anche lui in Giurisprudenza tra il 1946
e il 1947, purtroppo non conosco la data. Ma ricordo bene i suoi racconti su quel periodo:
descriveva l‘impazienza dei reduci – che avevano visto quel che avevano visto –, che benché ancora
molto giovani – 25-26 anni – erano passati attraverso prove durissime e si sentivano degli alieni dei
«vecchi» rispetto ai compagni di corso ventenni che non avevano fatto le stesse esperienze.
Questo disagio psicologico aveva indotto anche lui a buttarsi a capofitto negli studi per recuperare
gli anni perduti e laurearsi in fretta. Ed è proprio alla memoria di mio marito che voglio dedicare la
laurea Ad Honorem in Scienze Filosofiche di oggi, perché Alfredo fu uno dei 600 mila Imi
(Internati Militari Italiani) che vennero catturati dai tedeschi, deportati nei campi di prigionia e
scelsero di rimanere prigionieri in condizioni durissime perché non aderirono alla Repubblica
Sociale Italiana.
Mi sono spesso domandata come siano riusciti sia gli IMI, sia i Partigiani a compiere in quegli anni
bui «la scelta» che li portò in varie forme a resistere, ad esporsi volontariamente a grandi pericoli e
a terribili privazioni.
Si calcola che dei 600 mila Imi più di 40 mila morirono in prigionia. Si
trattava per la maggior parte dei casi di ragazzi molto giovani – mio marito quando arrivò l’8
settembre aveva 23 anni –, ragazzi che nella loro vita non avevano conosciuto altro che il fascismo.
In tutti gli ordini di scuola erano stati immersi nella propaganda pervasiva del regime, spesso senza
mai venire a contatto con opinioni politiche diverse.
Eppure nel momento della prova, messi di
fronte a scelte drammatiche, trovarono in se stessi qualcosa che li orientò, come una bussola
miracolosa. Ed ecco che, frugando nelle mie povere reminiscenze della filosofia studiata al liceo, mi
torna in mente Immanuel Kant, e ripenso alla celebre frase che Kant scrive nell’appendice alla
«Critica della Ragione Pratica» dove dice che ci sono due cose che lo riempiono di ammirazione e
rispetto: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me
». E immagino quei giovani soldatini
prigionieri nei lager, sotto quei cieli stellati della Polonia e della Germania che anch’io in quegli
stessi mesi guardavo aggrappandomi alla speranza, e quei giovani partigiani sotto il cielo stellato
delle nostre montagne dove si erano nascosti.
Quei giovani, senza saperlo, si liberarono dell’indottrinamento fascista perché scelsero di seguire
Kant: «La legge morale in me». Una grande lezione di filosofia che si traduce in esperienza di vita,
in pagina di storia.
Con queste poche parole, concludo rinnovandovi i più sentiti ringraziamenti e dicendomi molto
orgogliosa di essere da oggi la terza laureata alla Alma Mater di Bologna della mia famiglia.
Grazie.

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