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L’OCCIDENTE E LA STERILITÀ NEOLIBERISTA

In Italia la natalità è ai minimi storici e continua a scendere, ma anche gli altri paesi dell’area, nonché gli USA, sono agli ultimi posti nel mondo per numero di nascite. In tanti propongono soluzioni a priori, come se avessero già una conoscenza perfetta dei fattori che stanno dietro la denatalità, il che, ritengo, è bel lungi dall’essere vero. Credo che dovremmo piuttosto ammettere che l’Occidente ha smarrito da tempo il desiderio e la capacità di riprodursi, e non solo biologicamente. 

Lo status stesso dei figli ha subìto nel tempo una mutazione drammatica: un secolo fa, ascoltando le parole raccolte da membri di quella generazione, i figli erano visti come un evento che arrivava naturalmente in un matrimonio; non serviva “cercarli”, bastava fare l’amore e tutto accadeva da sé. Un processo che solo l’infertilità o una scelta deliberata potevano arrestare. Non sembra che generalmente ci fossero grandi e numerose aspettative di natura personale verso i figli. C’erano, semmai, aspettative sociali di ordine generale: che fossero beneducati, docili, puliti, che eventualmente proseguissero il lavoro dei genitori, che seguissero  certi studi, o comunque assumessero nella società ruoli destinati agli adulti, assicurando il ricambio generazionale. I figli non erano una scelta ma un fenomeno naturale, come il sorgere del sole o il germogliare della vegetazione. Non serviva nemmeno desiderarli, era sufficiente non impedire che arrivassero. “Venite, crescete, c’è bisogno di voi”, sembrava essere il messaggio implicito. Sui figli, in sintesi, c’erano le tranquille attese dei genitori e un insieme di aspettative sociali positive. Con la crescita si supponeva, per dirla con Riesman, che i giovani entrassero nella società con la stessa ovvia naturalezza con cui un tappo di sughero sale a galla.

Oggi, un secolo dopo, i figli sono visti come una scelta forte di autorealizzazione degli adulti, che riversano su di loro intense aspettative emotive, mentre la società li vede non più come una risorsa ma come un problema di cui purtroppo bisogna occuparsi. Eppure nello stesso tempo, paradossalmente, chiede loro di essere migliori degli adulti che li circondano, e di esserlo subito. A undici anni, in uscita dalla scuola primaria, la società (italiana, in questo caso) si aspetterebbe un bambino che:

Ha consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti, utilizza gli strumenti di conoscenza per comprendere se stesso e gli altri, […] Interpreta i sistemi simbolici e culturali della società, orienta le proprie scelte in modo consapevole […] Ha cura e rispetto di sé, come presupposto di un sano e corretto stile di vita. […] Dimostra originalità e spirito di iniziativa. […]

ho scelto solo alcune voci tra le tante, tratte da: MIUR, “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” (2012)

Quanti adulti di oggi rientrerebbero in questi standard?

I nostri poveri bambini sono schiacciati tra i forti e non sempre sani bisogni emotivi dei genitori, le aspettative irrealistiche e siderali dei programmi scolastici, e la diffusa sensazione che i piccoli siano un problema, anzi, un groviglio di problemi destinati a crescere nell’avvicinarsi dell’adolescenza, per poi continuare nella drammatica preoccupazione di trovare lavoro. Non per caso sottoponiamo schiere di studenti a screening di ogni genere: siamo in cerca di difetti e deficit. Come società non amiamo i bambini: li esaminiamo come auto usate. 

La società ha sempre meno voglia di spendere (o meglio, investire) per i bambini e i giovani: si tagliano i bilanci scolastici e universitari, non si trovano pediatri, si risparmia sui docenti di sostegno. Si fa un gran parlare dei Nidi, sembra che lì si voglia davvero investire (almeno a parole), ma diciamocelo: i Nidi non sono una risorsa per i bambini, ma per liberarsi dei bambini almeno alcune ore al giorno, in modo da soddisfare la voracità del lavoro che assorbe ogni energia psichica, fisica e sociale. 

La società neoliberista si salda su una rete di presupposti che non comprendono i bambini, se non, come afferma Bauman, in quanto oggetti di consumo emotivo. Per ogni altro aspetto la loro presenza è un problema. Forse per questo gli estensori delle “Indicazioni nazionali” non hanno potuto far altro che tentare la trasformazione del bambino in una caricatura di adulto iper-adattato, plus-dotato e stucchevolmente saggio.

Desiderare figli e dar corso a tale desiderio implica qualche sicurezza sulla possibilità economica di mantenerli sopportandone i costi, peraltro ingenti:

“i figli sono probabilmente gli acquisti più costosi che i consumatori medi compiono in tutta la loro vita.”.

(Z. Bauman, Amore liquido, Laterza Roma – Bari 2007)

Ma non basta: ci vuole anche una certa viscerale percezione della continuità della società, di un ordine stabilizzatore, di una decifrabilità del mondo e della vita. Implica una dose accettabile di precarietà di sé, del lavoro, del mondo, accettabile ma non inficiata dai prevedibili drammatici scossoni dovuti alle catastrofi climatiche, alle guerre, alle carestie. Continuità e sicurezze sono invece merce rara, oggi: gran parte degli adulti informati sembra ritenere possibile una estinzione del genere umano, preceduta da eventi catastrofici e conflitti per le risorse. Stupisce forse che il desiderio di avere figli sia ormai altrettanto umbratile? Cosa resta, di quel desiderio?

“I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno, il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire.” . 

(Z. Bauman. ibidem)

In sintesi: nella società tradizionale i figli arrivano naturalmente a meno che qualcosa non lo impedisca; nella società neoliberista i figli non si fanno a meno che non si maturi la solenne decisione di volerne avere, sottoscrivendo tutte le fatiche e le paure connesse, e accettando di esporsi allo stigma sociale che affligge ogni genitore post moderno: per definizione, e fino a prova contraria, un narcisista incapace che rovina e vizia i bambini rendendo la vita impossibile a educatori e insegnanti, talvolta perfino al genitore stesso. Se ciò nonostante si vogliono figli, li si fa accettando anche il timore di mettere al mondo individui che rischiano vite segnate da traumi, eventi estremi, drammi e guerre.

Mentre governanti e intellettuali di regime si dividono tra nostalgie fasciste e incentivi che potrebbero funzionare per aumentare le vendite di auto elettriche ma non certo il tasso di natalità, sembra sfuggire ai più l’elefante nella stanza: l’organizzazione sociale e culturale neoliberista non prevede i bambini se non in funzioni frammentate: giocattoli, robottini, problemi e portatori di disagio. E gran parte degli adulti ritiene che il mondo, come si prospetta ora, sia un luogo troppo inospitale per buttarci dentro i propri figli.

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