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Gina, la ragazzina di Marzabotto

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di Roberto Neri  · 

Persona più attiva  · deSotsoprn76i6l700t0i45h t0faca91cl43cg0fh5c733hul94m1494lig  · 

“ A duecento metri dal gruppo dei morti trovai mia sorella Gina (nella foto, n.d.a.) dentro l’acqua di un fosso, fino al collo, morta; sul ciglio c’era il figlio di Grani, di undici anni, anch’egli ucciso; era sempre il compagno dei nostri giochi”

Aveva dodici anni compiuti da poco Gina, la ragazzina di Marzabotto della quale è rimasta questa foto, con lei sorridente alla soglia della vita. A narrare il rinvenimento del suo cadavere è la sorellina Maria Triviroli, molto più piccola, unica superstite di un gruppo di diciassette persone, composto da donne, bambini e ragazzi fucilati dalle SS tedesche.

Maria si salva perché rimane nascosta sotto la madre ed un’altra donna, e perché è talmente minuta da non essere vista dai militari che passano tra i fucilati ancora in vita a dare il colpo di grazia. Sua sorella Gina e “il figlio di Grani” cercano di correre via dal gruppo durante la fucilazione, che avviene lungo una strada di campagna, senza però farcela.

Si tratta dell’eccidio della Steccola di Prunara, una borgata in comune di Marzabotto; lì c’era un rifugio dove si erano ammassate la famiglia Triviroli ed altre per paura dei nazifascisti, che stavano compiendo massacri di civili nella zona allo scopo di fare terra bruciata intorno ai partigiani. Quando i rifugiati vengono scoperti, nessun uomo, combattente o civile, era con loro; tutti saliti verso i boschi per sfuggire a morte certa.

Però insieme alle vittime della Steccola, gente che vive di agricoltura, prima di arrivare al luogo di esecuzione c’è anche un vecchio di 82 anni; è sempre la piccola Maria che racconta la fine dell’anziano:

“il nonno era lento a muoversi, per colpa dell’età, e loro agivano come chi ha fretta. Visto che anche a minacciarlo e dargli delle spinte il nonno non poteva andare come volevano, si spazientirono: due gli si buttarono sopra, l’afferrarono per i piedi e le spalle, lo dondolarono un paio di volte come un sacco e lo scaraventarono, che urlava e si di dibatteva, in mezzo a un pagliaio in fiamme”

Morto bruciato dalla cintola in giù, nonno Alfonso Triviroli verrà ritrovato tempo da altri superstiti delle stragi di Marzabotto e monte Sole, commesse fra il 29 settembre e il 5 ottobre, di cui si commemora l’ottantesimo anniversario in questi giorni; nei vividi ricordi di Maria emerge anche la figura di un italiano tra i responsabili:

“notai con sorpresa che tra loro c’era un biondastro con un dente d’oro in mezzo alla bocca, in precedenza da me conosciuto in casa mia, dove veniva sempre con i partigiani. Lo chiamavano con un nome ridicolo, Cacao, e adesso mi meravigliavo di vederlo trattare con i nazisti da pari a pari. Anzi, questo Cacao ad un certo punto si diresse alla nostra fila e puntando il dito verso mia madre, disse: “Questa donna cucinava per i partigiani!”*

Chi fosse il traditore Cacao, notato anche da altri scampati dei paesini vicini alla Steccola, paesini tutti dati alle fiamme dai tedeschi, non è mai stato accertato; parlava la lingua degli invasori e il dialetto bolognese, aveva una fede al dito, uccise anch’egli in quei giorni alcuni civili inclusi neonati, ed era stato di sicuro abile ad infiltrarsi tra i partigiani locali, due dei quali erano i fratelli più grandi di Maria e Gina.

Vennero invece accertati come massimi responsabili delle sanguinarie operazioni contro gli abitanti di monte Sole e Marzabotto il generale Albert Kesserling, all’epoca comandante delle forze tedesche in Italia, e il suo sottoposto Walter Reder, incaricato proprio di risolvere il problema costituito dai partigiani tra Toscana ed Emilia.

Catturati in Germania alla fine della guerra, per i due iniziarono i processi che, al contrario di quello che si potrebbe pensare alla luce dei crimini commessi, non avevano esiti scontati. Kesserling fu giudicato da un tribunale militare britannico insediato a Mestre; a lui si contestò di aver adottato le rappresaglie sui civili come metodo di condurre la guerra. Condannato a morte, liberato però nel 1951, rimase sempre nazista; collaborò con la NATO al riarmo della Germania divenuta strategica in chiave anti sovietica.

Infine Reder, condannato al carcere a vita dal tribunale militare di Bologna, chiese anni dopo perdono ai superstiti di Marzabotto che glielo negarono, ma ottenne così di essere riconsegnato all’Austria, suo paese natale, dove ormai libero si rimangiò il finto pentimento. Altri dieci, tra ufficiali e soldati tedeschi identificati quali presenti a Marzabotto nelle truci giornate di ottant’anni, ma contumaci, ebbero condanne più leggere.

(Scritto di Roberto Neri ispirato da un articolo di D. De Paolis “Marzabotto, la ferita ancora aperta” pubblicato nel numero 2/2007 di “Patria Indipendente”, disponibile anche sul relativo sito web, che riporta diversi racconti di scampati alle esecuzioni e di testimoni oculari; la foto della ragazzina Gina Triviroli correda la sua scheda nel sito “Storia e memoria di Bologna”, sezione Archivio alla voce “persone”)

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