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Forze politiche lavorano per demolire l’UE e non per rafforzarla

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Incontro sulla politica internazionale

di Mauro Biagiotti, docente e storico

Il Centro Malpensa e chi vi parla propongono questo incontro per colmare una lacuna. E la lacuna è il semi vuoto della politica internazionale nei media italiani. Pagine e pagine, ore di trasmissione sugli eroi ed eroine nostrani/e (Meloni, Salvini, Schlein, Conte e compagnia cantante); nulla o quasi su quello che succede, per esempio, in India, un miliardo e mezzo di persone; nulla o quasi sulla Cina, un altro miliardo e mezzo, e via ignorando. Esiste solo l’Italia o meglio, esiste solo quello che succede dentro al raccordo anulare di Roma.

Varchiamo quindi le frontiere nazionali ed inoltriamoci nel vasto mondo. Cominciamo dall’argomento del giorno: le elezioni del presidente degli Stati Uniti. Qui è successo l’incredibile. Dopo il fallito attentato e i trionfi della convention repubblicana, Trump sembrava avere la vittoria in tasca. Il ritiro di Biden, invocato da più parti in campo democratico, ha sparigliato le carte. La rapida ascesa di Kamala Harris ha riaperto ancor di più i giochi, al punto di generare un entusiasmo travolgente tra i democratici. L’elezione, la horse race, come dicono colà, cioè la corsa dei cavalli, è di nuovo contendibile.

Diamo un rapido sguardo al meccanismo elettorale che da due secoli e mezzo regola l’elezione del presidente degli Stati Uniti – la stessa legge elettorale immutata da due secoli e mezzo: pensate che in Italia in trent’anni abbiamo cambiato cinque volte la legge elettorale e si pensa a una ulteriore modifica; ma torniamo di là dall’Atlantico.

Si dice, sbagliando, a volte di proposito, che in America c’è l’elezione diretta del presidente. Non è così, ma i fanatici del premierato fanno finta di non saperlo per sostenere la loro idea di un presidente eletto a furor di popolo. Negli Stati Uniti, in ciascuno dei cinquanta stati più il Distretto di Columbia (la città di Washington) si eleggono un certo numero di delegati (voti elettorali) senza vincolo di mandato. Il numero dei voti elettorali è stabilito in rapporto alla popolazione di ciascuno stato: per esempio, la California ha 54 voti elettorali, lo stato d New York 28, il Nevada 6, il Delaware 3. Il totale dei voti elettorali è di 538, per cui il numero magico che dà la vittoria è 270 voti elettorali (la metà di 538 più uno).

In quasi tutti gli stati ad eccezione di due, il sistema elettorale è maggioritario a turno unico: basta un voto in più che un candidato si aggiudica tutti i voti elettorali. Può capitare che un candidato ottenga più voti popolari (il totale dei voti) ma perda lo stesso le elezioni, come è successo nel 2016. Hillary Clinton ottenne 65.800.000, Donald Trump 62.900.000, ma i voti della Clinton erano più dispersi negli stati e quindi ottenne meno voti elettorali. Il maggioritario a turno unico funziona così. Può sembrare meno democratico, ma privilegia la governabilità ed è caratteristico delle società anglosassoni. Infatti in Gran Bretagna seguono da quasi due secoli la stessa procedura elettorale – sulla longevità di questi sistemi elettorali in rapporto alla precarietà dei nostri, vedi sopra.

I delegati si riuniscono nella sede del Congresso di ciascuno stato, dichiarano il loro voto e il verbale viene inviato a Washington dove il presidente del Senato legge i cinquantuno verbali e proclama eletto il nuovo presidente. Questa cerimonia avviene in un giorno fisso: il 6 gennaio successivo alle elezioni. Un giorno che abbiamo imparato a conoscere nel 1921, quando ci fu la rivolta delle squadracce trumpiane per impedire l’elezione di Biden. Un incredibile e imprevedibile tentativo di colpo di Stato.

Giocandosi a livello statale, cioè locale, la partita della presidenza americana si vince spesso per un pugno di voti, come è successo nel 2021.

Pur avendo un vantaggio di circa 7 milioni di voti popolari, Biden vinse per non più di 50-60.000 voti, in totale. In Arizona, per esempio, Trump ha perso per 10.000 voti, in Georgia per 12.000 voti.

Per la vittoria elettorale sono fondamentali gli swing states, cioè gli stati in bilico, contendibili. Più di 40 stati votano sempre allo stesso modo, o democratico (es. California, stato di New York ecc.) o repubblicano (es. Missouri, Indiana ecc.). Per i sondaggi correnti, ci sono invece 7 swing states: Arizona, Georgia, Nevada, North Carolina, Michigan, Pennsylvania, Wisconsin. La vittoria dipenderà dall’esito in questi stati ed è qui che si concentra la propaganda dei due candidati.

È interessante notare che gli americani non eleggono un solo presidente ma due persone: un ticket di presidente e vicepresidente. Ciò dipende dal fatto che, accada quel che accada, l’amministrazione americana dura in carica quattro anni. In caso di impedimento o decesso del presidente, subentra il vice. Ci sono casi notevoli, al proposito. Theodore Roosevelt, vicepresidente, all’inizio del ‘900 subentrò dopo pochi mesi a McKinley, ucciso da un anarchico, governando in pratica per tutti e quattro gli anni e poi fu rieletto per il secondo mandato. Idem Harry Truman, che subentrò a Franklin D. Roosevelt, deceduto nel 1945 pochi mesi dopo l’elezione e poi fu rieletto nel 1948, per un totale di otto anni di presidenza. Famosa, infine, la vicenda di John F. Kennedy, ucciso a Dallas nel 1963. Lyndon Johnson gli subentrò per l’ultimo anno di presidenza e poi fu rieletto per altri quattro anni.

Questa staffetta è possibile dal punto di vista istituzionale perché il vicepresidente, essendo eletto, gode della investitura popolare.

Chiudo questa parte con un aspetto della campagna elettorale americana che suscita da noi una certa meraviglia: i candidati spendono cifre enormi, che superano tranquillamente il miliardo di dollari. Si ha, insomma, l’impressione che la presidenza venga “comprata”, e in parte in fondo è così.

Per esempio, nella campagna elettorale del 2020 Biden spese un miliardo e mezzo di dollari, Trump un miliardo. Ma non si può dire che Biden vinse solo perché aveva speso di più, per due motivi: a) Trump aveva investito di meno perché, essendo un noto personaggio della finanza americana e della TV, godeva di un ritorno d’immagine difficilmente quantificabile; b) la proposta politica di Biden risultò più convincente, seppure, come abbiamo visto, per una strettissima fascia dell’elettorato.

Su questi finanziamenti, sono necessarie due spiegazioni. La prima è che le somme superiori a 5.000 dollari devono essere dichiarate a bilancio e quindi sono verificabili nella loro entità e provenienza. La seconda è che una parte marginale di questi finanziamenti è costituita da piccole donazioni: 10-20 dollari. Pur non essendo decisiva in termini finanziari, è importantissima dal punto di vista politico, perché sono voti sicuri e misurano con sufficiente attendibilità il gradimento popolare di un/a candidato/a.

Passiamo ora all’Europa dove, sorpresa delle sorprese, non c’è stata la tanto temuta o auspicata, secondo i punti di vista, spallata della destra populista, sovranista, antieuropea. Con un margine non proprio rassicurante, ma comunque in vantaggio, la maggioranza di centro-sinistra della UE ha retto. Diciamo che la democrazia, data per morta, è ancora in vita ma con prognosi riservata.

Questo lusinghiero risultato è stato corroborato, nel mese successivo, da due vittorie elettorali. La prima, largamente imprevista, è la vittoria della coalizione anti-Le Pen in Francia nel secondo turno delle elezioni politiche. La seconda, largamente prevista, è la schiacciante vittoria dei laburisti inglesi, dopo tre lustri di governi conservatori. La Gran Bretagna non fa parte della UE, ma è pur sempre Europa ed è confortante che il buon senso prevalga sui fanatismi autoritari e fascisti.

Concludo osservando che molti sono i problemi sotto il cielo dell’Europa occidentale (di quella orientale, non parliamone nemmeno). Manca, per cominciare, una Costituzione europea, per responsabilità di tanti, a cominciare dalla Francia che all’inizio di questo secolo bocciò l’ipotesi con un referendum. Senza Costituzione non c’è Stato, tant’è che quella Europea è una Unione, non una Federazione. Vuol dire che ognuno fa un po’ come gli pare (vedi l’ungherese Orban).

Un buon numero di forze politiche lavorano per demolire l’Unione e non per rafforzarla. È loro diritto, ma non certo un atteggiamento da cittadini europei di buona volontà.

Infine la burocrazia, la malattia cronica degli stati moderni. L’UE non ne è esente, anzi. C’è da rimanere perplessi quando la Gazzetta ufficiale dell’Unione europea appare, tanto per fare un esempio, il Regolamento sulla taglia minima della vongola di mare. Ci si aspetterebbe che le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo volassero più alto, ma tant’è.

Criticato il criticabile, corre l’obbligo di affermare che una brutta Unione Europea è sempre meglio di nessuna Unione Europea, perché il contrario è la guerra. Si dimentica, infatti, che per duemila anni le nazioni europee si sono massacrate a vicenda, in particolare Francia e Germania tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900.

Fu nell’ora più buia del 1941 che Spinelli, Rossi, Colorni dal confino di Ventotene lanciarono il “Manifesto per un’Europa libera e unita”, prefigurando il futuro di pace che l’Unione Europea avrebbe assicurato alla parte occidentale del continente, come in effetti è avvenuto negli ultimi 80 anni.

Non dimentichiamo che a oggi è il periodo più lungo di pace in Europa. E pace vuol dire prosperità.

Si dice che l’Europa è un gigante economico, un nano politico e una nullità militare.

Per ora, accontentiamoci del benessere economico.

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