immagine Commons Licence . Sanificatore edifici
Autore: Manfredi Lanza
L’Italia non è il Brasile e non è l’India, fortunatamente. Non si può, però, dire che abbia gestito al meglio la pandemia del covid dilagata nel mondo nel 2020 e 2021.
Anzitutto, si nota che ha avuto un numero di morti elevatissimo, ad oggi oltre 120.000: superiore a quello di ogni altro Stato europeo, compresi gli altri più colpiti come la Spagna e il Regno Unito o, anche, la Francia. E questo fatto dell’alta mortalità non è banale, né riducibile ad un dettaglio ininfluente. Non è sufficiente scusarlo con la pregressa elevata speranza di vita e la presenza nel Bel Paese di tanti ottuagenari e novantenni, ovviamente più cagionevoli dei giovani.
La prima notazione critica che viene spontanea è la seguente: l’Italia non era preparata a far fronte a un fenomeno pandemico qual è stato quello recente del covid. Anzitutto non disponeva più di un’adeguata medicina territoriale, e ciò in quanto la politica tanto costosa, litigiosa e inconcludente della nostra democrazia l’aveva smantellata per decenni in funzione di una mentalità liberista tesa a privilegiare i grossi snodi sanitari, gli ospedali d’eccellenza, magari privati e orientati allo sviluppo di reddito, a danno dei piccoli ospedali e dei presidi multifunzionali locali. Anche la semplice medicina di base aveva sofferto di siffatto orientamento, divenendo una medicina prevalentemente burocratica. Il paziente ormai non si rapportava più gran che con il proprio medico presunto curante e di fatto noncurante, rivolgendosi invece senza mediazioni ai pronto soccorso sempre gremiti e, in caso di specifico bisogno, allo specialista.
La medicina era generalmente regolata da protocolli, più che affidata alla competenza e all’intuito del medico. Si basava su una molteplicità di esami tecnici, più che sull’ascolto e sulla visita del malato. Era divenuta più tecnica, meccanica e chimica che umana, di un’efficienza più statistica che reale.
In secondo luogo, va sottolineato che i centri d’eccellenza, in particolare della Lombardia, non sono stati capaci di individuare la presenza del covid sul territorio se non dopo almeno tre mesi, forse cinque, da quando circolava. La prima individuazione, a Collegno, è stata dovuta, nel mese di febbraio del 2020, ad una consapevole disubbidienza ai protocolli da parte di una dottoressa più intelligente e diligente rispetto ai tanti luminari di cui si vantano i complessi ospedalieri milanesi. Ma in Francia e, con ogni probabilità in Italia, il covid già serpeggiava dall’agosto 2019. Dal momento e quasi dall’istante della prima scoperta, il fenomeno è deflagrato, rendendosi pressoché incontrollabile in quanto massivo, sconosciuto e dirompente.
Subentra appunto il fatto che la malattia era del tutto nuova, non la si conosceva, non si sapeva da che parte prenderla. Si è creduto si configurasse come una polmonite galoppante anomala e presto si è dovuto constatare che comportava anche altre gravi offese all’organismo, in particolare di natura trombotica. Subentrano però, a questo punto, anche le gravi carenze politiche ed organizzative. L’Italia non disponeva di un piano pandemico aggiornato e ancor meno disponeva dei banali presidi tecnici collegati a un tale eventuale piano pandemico. Mancava in Italia un numero sufficiente di respiratori e dispensatori d’ossigeno. Ma, colmo dell’irresponsabilità e del ridicolo politico-sanitario, l’Italia non produceva mascherine e non aveva riserve di mascherine. Le poche che aveva casualmente in dotazione erano state prontamente inviate dal ministro degli Esteri (Di Maio, Cinque Stelle) in Cina, il paese dal quale l’infezione proveniva e nel quale si era originariamente dichiarata. E, come non disponeva di mascherine, così non disponeva a sufficienza di guanti in lattice, né di tute adeguate. Insomma il paese che si era vantato, al tempo di Craxi, di essere il quinto o sesto più sviluppato del mondo si rivelava negli anni Venti del ventunesimo secolo in braghe di tela per quanto si riferisce alle più elementari attrezzature, nonché guidato per decenni da un branco di incompetenti nonché irresponsabili “onorevoli”, extra lautamente remunerati in base a decisioni da essi stessi adottate, per produrre infinite, improvvide, chiacchiere.
Il problema politico, oltre quello della colpevole impreparazione a livello di governo nazionale, comporta un altro asse più strutturale: la competenza in materia di sanità, più che al potere centrale, spetta alle singole regioni, ciascuna delle quali gelosa della propria suprema autonomia, quindi riottose rispetto al potere centrale, e in competizione tra loro. In diversi frangenti, non si capisce chi debba decidere cosa, chi risponda della gestione delle questioni concrete. La confusione determina situazioni critiche, come quella che si è verificata nel Bergamasco, senza che alcuno, né potere pubblico, né personalità pubblica, si assuma la piena responsabilità di evidenti, colpevoli, mancanze di decisione che hanno causato decine di migliaia di decessi.
Pierino assiste in tivù a ridde e risse tra esponenti politici di Destra e di Sinistra, altresì tra cani sciolti e liberi opinionisti, persino a divergenti e contrastanti raccomandazioni da parte di sputasentenze del corpo medico, nonché dell’epidemiologia, batteriologia e altre specialità scientifiche, plurilaureati e pluridecorati. Frattanto rischia di buscarsi da un giorno all’altro, tra un ascolto e l’altro, un covid mortale, mentre nei pronto soccorso e reparti covid muoiono quotidianamente centinaia di disgraziati e i salvifici programmi di vaccinazione tardano a decollare e raggiungere l’opportuno ritmo di crociera.
Un problema che non è specifico dell’Italia, ma decisamente diffuso nel nostro paese, è quello dell’indisciplina legata a ignoranza e stupidità delle masse. In un primo tempo, a dire il vero, nei mesi di febbraio e marzo del 2020, la popolazione italiana ha dato un ottimo esempio, attenendosi alle regole di distanziamento e lock-down decretate dal governo Conte. Successivamente, però, si è riappropriata di comportamenti in linea con lo stereotipo della sregolatezza che è alla base della diffidenza e del disprezzo di cui patisce il nostro paese all’estero: alla minima apertura concessa, si sono riversate folle fitte di giovani imbecilli nelle sale da ballo, negli stadi, sui navigli e sui lungomare, nelle piazze. Di questo non hanno colpa né i sanitari, né i politici. Chi vuol esser fesso, sia; ed è pressoché impossibile evitare inconvenienti del genere fintanto che ci saranno di fatto fessi al mondo. Una questione di educazione? O di temperamento incorreggibile?
Quanto a me, comincerò coll’osservare che ho la relativa fortuna di trovarmi in una delle regioni che ha saputo gestire il caos pandemico meno peggio di altre: l’Emilia Romagna.
Sono un ottantacinquenne e, come tale, apparterrei al raggruppamento etnico dei più direttamente minacciati di scomparsa per covid, assieme ai portatori di gravi patologie o discrasie sanitarie concomitanti. Mia moglie è una settantasettenne, meno a rischio di me in quanto donna e più giovane, ma neppure lei in una situazione delle più rassicuranti.
Riesco, facendo una lunga coda al freddo in strada davanti ad una farmacia, a prenotarmi per la prima somministrazione dello Pfizer a fine febbraio. Senonché, al centro vaccinazioni vengo respinto: nel modulo da compilare ho precisato di aver assunto ismigen a gennaio e febbraio per premunirmi dalle bronchiti. Ismigen è un vaccino o simil vaccino. Pertanto, gli operatori mi respingono, rinviando l’appuntamento. Perché, però, non ero stato preventivamente informato dell’incompatibilità del vaccino con ismigen, né dal mio medico noncurante, né dal farmacista che mi ha venduto il farmaco? Avrei saltato la cura preventiva all’ismigen di cui fruisco ogni anno, onde potermi vaccinare contro il covid il più rapidamente possibile. Invece, da quel mancato appuntamento, rinvii su rinvii. Nonostante cresca la contagiosità del virus a causa della comparsa di varianti, ce la faccio ad affacciarmi sano alla prima somministrazione, a fine marzo. Ma due giorni prima della seconda, anch’essa ulteriormente posticipata, ho la tosse e un’incipiente bronchite. Insistendo, riesco a contattare il medico di casa il cui telefono suona perennemente occupato e vengo da lui avviato al pronto soccorso dell’ospedale più vicino, quello di Vignola (MO). Risulto positivo all’esame del tampone, per cui non serve più la seconda somministrazione del vaccino.
La mia settantasettenne moglie, frattanto, ha anch’essa fruito di una prima somministrazione del vaccino (astra-zeneca) ad oltre quattro mesi da quando i vaccini sono teoricamente disponibili. Il programma vaccinazioni, tanto essenziale, è proceduto a grande rilento nei quattro primi mesi. Il che è di nuovo da addebitare alle carenti capacità organizzative della politica nel suo insieme, governo centrale e governi regionali. Comunque, ovviamente, anche mia moglie risulta positiva al tampone un paio di giorni dopo di me e ci chiudiamo in casa in una quarantena di due, poi tre settimane, che ci vede principalmente affaticatissimi e morti di sonno.
Punto in favore della sanità emiliano-romagnola: i servizi di sostegno improvvisati localmente. Il nostro medico di base non si sogna di prenderci in cura, ci affida ad un servizio sanitario che devo riconoscere davvero impegnato ed efficiente. Subito, ancor prima che fosse ufficializzata la positività di mia moglie, mi manda a casa due giovani ragazze, medichessa e infermiera, di cui la prima si barda e sale a controllarmi nel nostro salotto: temperatura, ossigenazione. Mi ausculta e decide di prescrivermi un antibiotico per debellare la bronchite. Quasi ogni giorno il servizio chiama per assicurarsi che la quarantena proceda nel segno di un lento, ma costante, miglioramento.
Un’ottima e benaugurante impressione destano i sanitari giovani che incontro o con cui comunico per telefono. Li sento vivaci e impegnati. Forse con loro sarà possibile, politica e burocrazie permettendo, riavviare in Italia un sistema sanitario di più affidabile qualità e tenuta.