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Raccontino della notte. Il carcere perduto.

Autore : Fausto Anderlini*

Improvvisamente le carceri guadagnano le prime pagine. Non per le rivolte, ma per un annunciato progetto di delocalizzazione. La storia delle carceri è singolare. La riconversione dei conventi a carceri in seguito alla soppressione degli ordini religiosi in epoca napoleonica (Roma, Bologna, Firenze…) fu un episodio cruciale della laicizzazione dello spazio e della razionalizzazione amministrativa. Così come le nuove costruzioni ottocentesche o del primo novecento (Milano, Torino, Napoli, Palermo, Venezia….) svilupparono gli stilemi panoptici e burocratici della sorveglianza centralizzata, in una più vasta visione igienistica e segregata della città. Questi processi avvennero all’insegna di una rivoluzionaria concezione dello spazio e razionalizzarono la promiscuità delle galere ereditate dall’ancien regime, ma non posero mai in discussione (come avvenne ad esempio con i cimiteri) la fusione dei luoghi di pena con il milieu storico delle città. Una situazione che si è incredibilmente protratta sino agli ’80 del secolo scorso, già in una fase dispiegata della transizione post-moderna, e che ancora perdura nei casi clamorosi di Roma e Milano. La spiegazione può essere cercata nella stretta relazione fra luoghi di detenzione e funzioni legali a forte vocazione urbana (avvocatura, tribunali, stazioni di polizia, questure, caserme, prefetture ecc.). Ma più a fondo vale forse l’intrinseca relazione che sin dall’origine si stabilisce fra la centralità del potere e il braccio secolare. La prima modernità accentua il legame spaziale e funzionale, anche se il boia viene sfrattato dalla piazza.

Si deve a ciò se nella parlata e nel vissuto delle città il carcere è sempre stato un luogo figurale autoctono di fortissima esemplarità simbolica. Un luogo di transito, di storia e vita quotidiana, vero e proprio maggese esistenziale, costitutivo della stessa identità urbana come ‘durata’. E’ a questo repertorio che fanno romanticamente capo le osservazioni critiche al progetto di alienazione delle ultime sopravvivenze carcerarie urbane. Come che esse potessero essere tenute in vita a dispetto di una evoluzione ormai largamente compiuta. C’è semmai da stupirsi della capacità di resistenza del luogo di pena come ultimo testimone di un antico milieu ormai spolpato e sradicato in ogni altra componente. Ultimo stanco baluardo a resistere alla bronzea avanzata delle truppe della commercializzazione turistico culturale dei plessi centrali, con tutte le salmerie enogastronomiche e i mangimifici museali al seguito. Nè può fare gran differenza (anzi nessuna) se le vecchie aree carcerarie sotto il Gianicolo e presso via dei Filangeri saranno cedute alla speculazione residenziale e alberghiera o alla museificazione, magari della stessa storia carceraria. Tenere in vita, cristallizzato come memoria museale, il ‘maggese esistenziale’ delle pene di popolazioni defunte, è pia illusione, se non una edulcorata mistificazione. La città non esiste più, come la campagna del resto, ed è perciò logico che le carceri, ultimo residuo di un mondo che non è più. trovino altra sede. Già sarebbe buona cosa se nel mondo di ‘urbistan’ si evitasse di privatizzarle, come è avvenuto negli Usa e in altri stati travolti dal neo-liberismo. Tutto questo al netto di ogni discorso sul ‘benessere’, fisico e perciò morale, dei detenuti da conseguire con le nuove strutture. Sin dall’origine l’urbanistica ha sempre pensato che la felicità dell’uomo (e nel caso la sua ‘rieducazione’) è un derivato della forma architettonica. Per semplificare: lo Zen di Palermo non può che produrre delinquenti, mentre un’amena serie di villette produce buone famiglie o eleganti condomini consapevoli cittadini. Una idiozia, seppure il retto comportamento non autorizza a edificare brutture scomode e disfunzionali. Il dolore, la pena, l’espiazione, la redenzione, la felicità, e il carcere, sono recluse nel cuore dell’uomo. Non nelle pietre. Nam urbs ipsa moenia sunt, civitas autem non saxa, sed habitatores vocantur. Così diceva Isidoro di Siviglia. 

Però io a San Giovanni in Monte ci sono stato. Acquisendo in giovane età il mio quarto di nobiltà come cittadino di un’epoca ormai entrata nel mito. Cioè prima che come ogni altro manufatto il centro storico fosse fagocitato dall’invadenza dell’ateneo (nel suo pomposo piano regolatore il vecchio carcere-monastero era previsto come l”acropoli’, e così è stato). Sicchè c’è l’occasione per un altro breve raccontino della notte.

Fummo catturati una mattina di autunno del ’71 in una scuola media dove eravamo andati a onorare la vigilanza ‘antifascista’. Eravamo in dieci, ma uno di noi era andato al bar a smaltire la fifa. Lo stesso, preso da un soprassalto di colpa sublimato seduta stante in un indomito coraggio vedendoci passare davanti al bar fra due fila di celerini cercò in ogni modo di farsi prendere a sua volta. Si butto contro il cordone di poliziotti con alte grida chiedendo di essere arrestato, ma venne respinto come uno squilibrato. Da quel momento in poi cercò ripetutamente di farsi tradurre in carcere sfruttando sconsideratamente ogni situazione critica. Senza però mai riuscirci (riuscì poi ad entrare nelle coop di cui divenne un autorevole quadro dirigente).

Fu così che in nove venimmo trasferiti in questura. L’accusa era interruzione di pubblico ufficio e occupazione di luogo pubblico. Cose che al massimo comportavano un fermo di qualche ora e una denuncia a piede libero. Ma l’imputazione si aggravò perchè mentre eravamo in quell’aula nella scuola certi tizi di Lotta Continua, all’esterno, avevano pedinato un fascistello prelevandolo dall’autobus sul quale si era rifugiato. Cosicché la situazione accusatoria si era elevata di livello: violenza e sequestro di persona. Fummo messi in fila e sottoposti al confronto all’americana con la vittima, che peraltro aveva rimediato solo qualche sberla e qualche spintone. Costui, come ovvio, non identificò nessuno di noi visto che i colpevoli erano altri. Ma a quel punto avvenne il colpo di scena. I funzionari presero il ragazzo e lo portarono in altra stanza, dove evidentemente gli fu consigliato di incastrare qualcuno. Infatti rientrando il ragazzo guardò di nuovo in viso i presenti scuotendo il capo, poi si fermò davanti a me e mi indicò come il reo. Ci rimasi di stucco e al momento d’esser prelevato da due questurini fui preso da una certa agitazione. Il caso Pinelli era ancora fresco, e mentre li seguivo pensai che sarei anch’io volato dalla finestra finendo sfracellato sull’asfalto di Piazza Galileo. Invece fui fatto scendere per le scale e caricato su un pulmino per essere trasferito al carcere. Qui fui molto sorpreso e risollevato nel vedere che su quel pulmino erano già accomodati gli altri otto compagni. Nel mio, nel nostro, immaginario mitico-eroico il carcere era previsto e desiderato come una prova suprema. Ma non da soli. Meglio in compagnia.

Al carcere si entrava per una grande porta in ferro munita di spioncino. Appena dentro l’astanteria fummo ispezionati corporalmente e privati di lacci, cinture e ogni altra cosa potesse fungere da cappio. La guardia aveva una certa età e ci disse con tono severo ma paterno che ‘dovevamo prenderci le nostre responabilità’. Mentre ci portavano alle celle passammo per il piazzale interno e fummo salutati dalle urla dei carcerati che stavano appesi alle grate seminudi. Il mondo carcerario ci si palesò come una sorta di bolgia dantesca di scimmie e depravati. Ma era solo un’impressione.

Il primo giorno fummo rinchiusi tutti in un grande stanzone dove dimoravano almeno venti detenuti, se non più. Una camerata, tanto che sembrava d’essere alloggiati in una colonia per bambini poveri o in un gabbione per uccelli. Gli inquilini della cella furono molto contenti del nostro arrivo. Il detenuto politico (almeno allora) godeva di un’aura di rispetto. Socializzammo in breve tempo. Tutti erano ansiosi di raccontarci le loro storie e quasi tutti si proclamavano comunisti, magari, i più giovani, iscritti alla FGCI, ma soprattutto innocenti delle imputazioni per cui si trovavano lì, in attesa di giudizio o per scontare la pena. 

I detenuti non lavoravano nè leggevano libri, men che meno giocavano a qualcosa. Le carte – e la cosa era di inaudita crudeltà – erano vietate. Stavano lì sulle brande e parlavano delle loro pene. Ebbi allora un’idea geniale. Presi dei fogli, li divisi in quaranta rettangoli seguendo la piega e vi disegnai sopra i semi della briscola. La trovata fu per essi stupefacente e io fui molto soddisfatto della considerazione che me ne derivò. Presi come erano dai loro guai giudiziari non ci avevano mai pensato. Appena ebbero le ‘carte’ per le mani cominciarono a giocare con grande passione. L’uomo è un animale ludico, e lo si vede bene quando è disperato o in cattività.

All’ora dei pasti le guardie inoltravano nelle celle delle gavette con dentro una specie di brodaglioso spezzatino. I bisogni si facevano in un unico bugliolo alla turca, mentre nell’ora d’aria si accedeva a dei cortiletti chiusi da mura dove la gente girava avanti e indietro in peripatetica solitudine. In compenso la domenica potemmo vedere, tutti insieme, un film in bianco e nero in una saletta. La notte le guardie entravano nella cella e con un manganello testavano le inferriate per accertarsi che non fossero state segate in vista di qualche fuga.

Quell’inedito modo di vita era intrigante, e, bisogna dire, inclinava a una certa spensieratezza. Poteva rivelarsi un’occasione e noi eravamo molto sollevati d’essere in compagnia. Prevedendo di stare lì almeno qualche mese cominciammo subito a pensare a qualche attività politica e di studio che ci facesse rivivere l’epopea di Gramsci e dei confinati di Ventotene. Saremmo usciti colti e celebrati come eroi. Le ragazze ci avrebbero riservato le cure più lusinghiere, come di norma avveniva in questi casi. 

Il giorno successivo all’incarcerazione la macchina contro la ‘repressione’ si mise in moto. Per le strade sfilò un grande corteo di studenti che si fermò davanti alla prigione scandendo uno ad uno i nostri nomi. Sentire da dentro quel frastuono fu emozionante. Il partito fece un manifesto che fu appeso in tutta la città. Ma soprattutto cominciarono ad arrivare i cestini della Camst. Il partito non avrebbe mai fatto patire la fame ai suoi soldati nelle mani del nemico. A ognuno di noi fu affidato un avvocato (a me toccò Giampaolo) e tutti si misero all’opera con grande zelo.

I nostri progetti collettivi andarono subito in fumo, perchè sin dal secondo giorno fummo decentrati a coppie in celle più piccole. Io finii con Umberto Mazzone, che allora non aveva ancora scoperto la sua vocazione tridentina. In cella con noi c’era un meridionale sghembo e taciturno. Una notte Umberto sognò d’essere racchiuso in una bara. Si desto di soprassalto e sbattè contro il muro che confinava con la branda. Un raccapricciante presagio claustrofobico di tombatura. In effetti ci ha poi passato il resto della sua vita in San Giovanni in Monte. Come docente di storia tridentina.

E in ogni caso di lì a qualche giorno fummo rimessi in libertà. Il Partito aveva fatto valere la sua autorità, mettendo così fine alla scampagnata e facendo evaporare il nostro sogno di gloria, repressione e martirio. Con l’immediato svilimento di tutto il valore aggiunto, di rispetto, leadership, accumulazione di sapere, e sesso, che si pensava di capitalizzare. 

Fui riaccolto dalla Ginevra, la mia ragazza di allora, che durante la detenzione aveva molto pianto, ma la relazione riprese subito la vecchia piega. Certe complesse vicissitudini psicologiche non conobbero alcuna catarsi nè miglioramento. Nel contempo gli altri compagni della sezione universitaria furono rinfrancati dal rischio di dover patire il nostro godimento della rendita eroica adagiati in un Harem di avvenenti compagne. Troppo poco era durata l’escursione carceraria per sedimentare un minimum mitologico.

Solo dopo qualche giorno godetti il privilegio di portare il saluto degli ex-detenuti a una manifestazione nel salone della camera del lavoro in occasione di una visita di una delegazione vietnamita. Feci un discorso eccitato, fuori misura quanto confuso. Al termine baciai la ragazza vietnamita, proprio dolce delicata come quelle che si vedevano nell’agiografia esotico terzomondista, con tale impeto che lei si ritrasse. Penso che si sentì quasi molestata. E questo fu tutto l’incasso erotico amoroso del reduce dal penitenziario. Nulla a che spartire con chi si era fatto qualche mese o, più tardi, fu costretto all’esilio godendo di un affluente cosmopolitismo erotico. Fino a che non si entrò nel tunnel del terrorismo, le carcerazioni, le denunce, i fermi, i nascondimenti contumaci, le fughe, gli scontri, la ‘vita militante’ insomma, fu per tutti un gioco attraente come pochi. Una boheme giovanile. Una simulazione a buon mercato e basso rischio della guerra e del banditismo, il più bello ed estetico dei giochi virili, come poi hanno proseguito a praticare tute bianche et similia (almeno fino a che alla Diaz i repressori non hanno deciso che era giunto il momento di transitare dalla sfera teatrale virtuale a uno scampolo di guerra reale). 

Così terminò quel breve episodio di vita. Di quei tempi, al contrario di altri, non ho ricordi memorabili. Però vidi San Giovanni in Monte dall’interno, le sue grate, le celle, le mura scrostate e dolenti, prima che passasse sotto le grinfie del restauro conservativo e neo-funzionale. Fra quelle mura scalcinate e in quelle celle puzzolenti ci dormii. Ma troppo poco perchè l’esperienza potesse sedimentarsi in un ‘maggese’ esistenziale di qualche rilievo. Fatta salva una sensazione prossemica che solo adesso mi affiora alla coscienza, dopo che in occasione del corteo ne avevo avuto pallido barlume. E cioè che intorno si sentisse pulsare la città come da nessun altro luogo. Proprio perchè isolato in sè il vecchio carcere stava sopra e sotto la città. Separato da un portone di ferro e vecchie mura. Varcando i quali si usciva dalla città conosciuta per entrare in un altro mondo, ma alla distanza giusta per calarsi nella sua insondabile profondità. Il carcere era al centro della città tanto quanto ne era circondato. Respiravano assieme, come una unità duale. Come le branche di un pesce. Se la parola ha un senso ebbene il vecchio carcere era davvero il ventre della città. Lì dove si incontrava di tutto, in una sublime mescolanza di ceti e di spiriti: delinquenti e farabutti, sfortunati, ostinati, eroi e truffatori, colti e analfabeti, penitenti e gaudenti, perseguitati, assillati e spensierati. La città esisteva come tale, perchè era circoscritta attorno al luogo dei coscritti. Una struttura ad anelli concentrici. Confesso che ho sempre amato le istituzioni totali. Sia rotonde, a raggiera, che ippodamee e castramentate. Son così perverso che le sogno di notte. Luoghi di interiorità, ordine, spensieratezza e fiera solitudine, dove le donne sono contemplate come sogni puri e dove perciò si riesce ad assaporare il gusto maschio della libertà.

  • sociologo
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