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L’INCANTAMENTO TECNOLOGICO IN CHIRURGIA

                

di Francesco Domenico Capizzi*

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio…  Il Vorrei e l’incantamento di Dante, più che l’amarcord felliniano, sorreggono la ricorrenza dei “30 anni +1 di laparoscopia” che un recente Congresso, presieduto mirabilmente da Francesco Corcione, ha convocato a Napoli chirurghi italiani e d’oltre alpi per una riflessione sull’esperienza tecnologico-mininvasiva che ha conferito all’azione chirurgica un dolce stil nuovo. Un cambiamento epocale tale da accostare la strumentazione dei precedenti chirurghi ai cerusici-barbieri, e ai fisiatri dell’epoca galenica, eda rendere gentile la  frazione estrema della Medicina, la Chirurgia moderna sorta dopo l’invenzione di acciaio, asepsi, anestesia: una sorta di artiglieria con teatri e campi operatori, carte topografiche, manovre e percorsi, ponti, accessi e ispezioni, esplorazioni e mobilizzazioni e strategie, tattiche, demolizioni e ricostruzioni, addestramenti, vittorie e sconfitte… Alla base l’idea tecnico-organicistico-positivista che il progresso scientifico-tecnologico, generato finalmente dalla raggiunta egemonia della ragione, garantisse un futuro luminoso e risolutivo per tutti e in ogni ambito delle attività umane.

La via d’accesso video-laparoscopica, mediata da una crescente tecnologia altamente sofisticata, conferisce agli atti operatori un vistoso minor grado di invasione e trauma verso organi e tessuti con conseguente forte impulso all’umanizzazione degli Ospedali, con la riduzione dei giorni di degenza per la sdrammatizzazione della sindrome post-operatoria, e alla razionalizzazione delle loro risorse economico-strutturali. 

Un profondo dilemma sorge nel momento in cui l’istintiva esaltazione della tecnologia ad uso chirurgico si estende all’ambito oncologico e si eleva a criterio di giudizio assoluto sulla sua capacità intrinseca di risoluzione delle patologie neoplastiche marginalizzando, involontariamente, le fondamenta fisio-pato-oncologiche che continuano, comunque, a radicarsi in ogni piega della società, nel suo modo di produrre e consumare, nei suoi squilibri ambientali e sociali. Su questa via la Chirurgia laparoscopica e la sua proposizione tecnocratica rischiano di catalogarsi come complesse proposizioni tecnicistiche e mere amministrazioni contabili e gestionali contribuendo, insieme, ad oscurare il baricentro patogenetico e a creare un involontario cono d’ombra sul paziente-utente-cittadino-cliente-malato fornendo un suggerimento: la salute del corpo – un insieme di organi ed apparati – si difende pur trascurando le condizioni socio-culturali, igienico-sanitarie e ambientali che costituiscono il terreno di cultura di larga parte delle malattie neoplastiche.

La chirurgia in generale, e ancor meglio la via laparoscopica, possiede un ruolo centrale strategico nel trattamento dei tumori solidi: del 50% di guarigioni che si ottengono, due terzi sono attribuibili al solo intervento chirurgico, un terzo alla combinazione chirurgia-terapie adiuvanti (radioterapia e chemioterapia), soltanto il 2-3% alle sole terapie adiuvanti. Per comprendere la sostanziale staticità dei risultati che la chirurgia oncologica, compresa la laparoscopica, ha ottenuto nel corso di decenni (v. grafico) è necessario appellarsi alla biologia dei tumori.

grafico

La chirurgia delude perché possiede una sua ineludibile primitiva inefficacia: si trovano già, occulte ma presenti, cellule neoplastiche in organi, sistema linfatico e cavità al momento della diagnosi del tumore primitivo. Non si deve, tuttavia, ritenere che tutte le cellule migrate costituiranno agglomerati metastatici: in realtà questo processo di annidamento si realizza in pochi casi per la solerte vigilanza dei meccanismi difensivi insiti nell’organismo. 

Questi presupposti scientifico-biologici costituiscono le premesse alle incertezze sul principio di radicalità chirurgica che accompagnano la completa efficacia dell’intervento chirurgico demolitivo ad intento radicale eseguito, anche se a regola d’arte, per via laparotomica oppure per via laparoscopica o laparoscopico-robotica. Si è di fronte, appunto, ad una significativa limitazione del principio di radicalità chirurgica: la completa asportazione della neoplasia, anche se estesa a tessuti viciniori e a stazioni linfatiche, non equivale sempre alla sua completa eradicazione specialmente nelle situazioni infiltrative, localmente e diffusamente avanzate, facendo registrare in questi casi un drammatico crollo del tasso di guarigioni in proporzione, sommariamente, al grado di estensione ed infiltrazione della massa neoplastica. L’auspicabile, ricercata e presunta radicalità chirurgica, ottenuta con tecniche e tecnologie altamente sofisticate, non coincide evidentemente con la radicalità oncologica. 

La biologia risulta prevalere sulle finalità tecniche demolitive, la radicalità chirurgica può non perseguire effettivamente la radicalità oncologica perché in mezzo ai due principi si colloca, in contrasto, la biologia delle cellule neoplastiche che sfugge a tecniche e tecnologie avanzate, comprese chirurgia laparoscopica e robotica, di cui ormai abbondano tutte le sale operatorie.

Purtroppo la battaglia contro il cancro è ben lungi dall’essere vinta: la strategia è solo incentrata su diagnosi, tecnologie sofisticate e terapie, non su ricerche etiologico-e preventive primarie e secondarie (Nature»: change on the cancer conversation 2016, 2017). Evidentemente non siamo messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio… Resta sempre imprescindibile e davanti ad ogni forma e tipo di terapia la prevenzione primaria e secondaria attuata per iniziativa personale e, auspicabilmente, delle Istituzioni politico-sanitarie. 

  • Già docente di Chirurgia generale nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgie generali degli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna
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