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La questione della cura: uno sguardo femminista

Intervista a Samanta Picciaiola

A cura di Elda Guerra

Con la pubblicazione dell’intervista a Samanta Picciaiola, Presidente di Orlando Aps (link), associazione femminista e di donne che gestisce il Centro di ricerca, documentazione e iniziativa delle donne di Bologna, si apre un breve ciclo dedicato ad uno sguardo di genere sulle tematiche proprie di SMIPS. 

La questione della cura nel contesto della crisi pandemica e dei suoi effetti sulle vite femminili è al centro di questo primo intervento. Occasione ne è stata il Seminario internazionale “Cura e incuria”, sul concetto e la pratica della cura, svoltosi  il 23 e 24 ottobre del 2021, in relazione al vertice del G20, e promosso da FemmSdc Group (gruppo femminista attivo nella Società della Cura, rete italiana di oltre 400 associazioni) con la collaborazione di Global Dialogue for Systemic Alternatives e Transform!Europe.

Seguiranno altre due interviste a esponenti di Orlando: l’una, che verrà pubblicata  nella ricorrenza dell’Otto di marzo, a Fernanda Minuz sull’Agenda politica delle donne per la città di Bologna; l’altra a Marilisa De Palma, volta ad aprire una riflessione intorno alla Medicina di genere. Quest’ultima l’abbiamo prevista per la prima settimana di aprile in vista della terza giornata del Convegno “Scienza e medicina parlino, politica e istituzioni ascoltino e agiscano”.

Come nasce l’iniziativa di un seminario internazionale dall’efficace titolo “Cura e incuria”? 

Il seminario  nasce da un gruppo informale costituitosi nel momento del primo lockdown per iniziativa delle femministe appartenenti alla Società della cura (link), perché a loro sembrava importante che a parlare di cura fossero, in primo luogo,  le donne per la loro esperienza millenaria e per l’altissima presenza femminile nei lavori e nelle professioni legate a questo ambito. 

Da questo desiderio di convergere e ritrovarsi è nato il gruppo che ha fatto una call aperta a aggregazioni informali, singole, associazioni di donne mettendo insieme un realtà molto diversificata con la presenza di spazi importanti come la Casa delle donne di Milano, quella di Lecce la Casa internazionale di Roma, in una bella rappresentanza anche dal punto di vista geografico; di appartenenti al mondo sindacale, come per citare soltanto un nome, Susanna Camusso prima donna segretaria generale della CGIL; di docenti, ricercatrici e intellettuali come, anche qui per fare soltanto un nome  Giorgia Serughetti di cui ricordo il recente testo pubblicato da Laterza, Il vento conservatore e il suo lavoro dal punto di vista giuridico e di filosofia morale sul tema della cura e dei beni comuni ed anche di gruppi più legati ai movimenti, ad esempio di quello romano Lucha y Siesta. Da questo insieme variegato formato da associazioni, gruppi informali e anche singole è nata l’idea del che fare. Vale a dire, come ritrovarsi oltre l’atto costitutivo rappresentato dalla condivisione di due documenti critici nei confronti del Piano nazionale di risorse e resilienza (PNRR): il primo con il titolo Una lettura critica  femminista (https://bit.ly/3roANAG) , il secondo dedicato a Proposte in una prospettiva di genere (https://bit.ly/3rqxady )

Il gruppo nasce, dunque, nel corso del primo lockdown, sullo sfondo dello scenario che si era venuto a delineare, con le crepe evidenziatesi nel sistema sanitario. Ci sono, ad esempio, molti soggetti della Lombardia che portavano con sé una grande onda emotiva per le dimensioni della pandemia in quella regione, per le mancanze di un sistema sanitario regionale che alla prova dei fatti aveva mostrato enormi carenze e nodi critici. E nasce  anche sullo sfondo del nuovo scenario rappresentato dal lancio del PNRR che nelle sue prime formulazioni mostrava l’assenza o la mancata recezione di questa prospettiva della cura.  Questi due documenti non hanno avuto, nell’immediato, grande diffusione. Noi come Associazione Orlando siamo state tra le poche a organizzare un evento – ovviamente online- in cui abbiamo invitato alcune esponenti della Società della cura che nei loro interventi hanno sottolineato come il PNRR non uscisse da una logica sostanzialmente liberista o neoliberista, per cui il concetto di cura veniva limitato alla dimensione dell’assistenza. E’ stata in sostanza la critica di fondo, declinata poi nei vari settori e nelle diverse pratiche. In questa temperie le donne della Società della cura hanno messo rilievo il fatto che,  pur nell’enorme quantità di risorse messe in moto dal PNRR, mancava una visione globale 

Di lì è nata, attraverso una serie di incontri,  l’idea di focalizzarsi  sull’obiettivo di creare un momento importante di confronto internazionale, lo si vuole fin da subito globale, in una dimensione capace di toccare tutti i continenti per ascoltare direttamente dalle voci delle donne, dei gruppi il racconto di quello che è successo, di come avevano affrontato  e stavano attraversando le ondate della pandemia, non solo in Italia o in Europa , nei paesi ricchi o per dir meglio , di sostanziale benessere ma anche in quelle aree del mondo dove la pandemia ha fatto irruzione su condizioni di svantaggio economico, di crisi sociale o anche in situazioni di guerra sommandosi e costituendo, contemporaneamente un fattore scatenante di ulteriori dinamiche.  

Di qui l’idea di cercare voci di donne dei movimenti delle donne di queste parti del mondo, da quelli in qualche mondo già consolidati ai gruppi nuovi formatisi proprio nella pandemia nel momento della massima difficoltà. Ovviamente per raggiungere tutti questi gruppi si sono attivate reti pregresse e l’intreccio è stato molto potente.

Intanto grazie per aver descritto in modo così chiaro e sintetico la genesi dell’iniziativa. Ora vorrei sapere quali sono stati anche dal punto di vista teorico, della riflessione, i nodi critici emersi da questo confronto a livello- come tu dicevi – globale?

Allora un nodo molto importante è stato quella della rappresentanza. Sia nelle situazioni che possiamo ritenere più consolidate, vale a dire le democrazie occidentali sia in paesi dove la democrazia non è consolidata e talvolta neanche raggiunta, si è verificata una crisi dei normali meccanismi della rappresentanza femminile, delle voci e degli spazi di agibilità delle donne. Nel contesto della pandemia c’è sta una perdita di spazi e di conseguenza una perdita di voce che, ovviamente in modalità diverse, ha avuto un vettore comune. Per le donne che già avevano i loro spazi, penso anche a noi come Centro delle donne e all’impossibilità di ritrovarci o alle donne dei sindacati per le quali sono venuti meno i luoghi della mediazione, i tavoli di confronto per portare avanti proposte o rivendicazioni, si fatta forte la percezione di una perdita di voce, di non avere canali per comunicare: eravamo oggettivamente tutte chiuse nelle case. E questa sensazione opprimente è stata vissuta tanto dalle donne che si trovavano in situazione di democrazia, quanto dalle donne di altre realtà. Questa sensazione si è accompagnata poi, per altre situazioni, alla difficoltà oggettiva di reperire risorse alimentari o farmaci, all’impossibilità per chi aveva su di sé la cura di malati o persone non autosufficienti di ricorrere alle reti di cura, di assistenza ma anche di condivisione. Tutto questo è stato più forte per le donne che per gli uomini.

Anche per ovvi motivi, perché essendo meno rappresentate erano anche meno presenti nei luoghi dove di prendevano le decisioni, insomma la debole rappresentanza istituzionale ha avuto anche effetti su quell’affidamento che abbiamo sempre fatto sulla società civile che si è trovata in difficoltà per qualsiasi azione o movimento…

Esattamente, anche perché per tutta una serie di logiche implicite alla base della dimensione della cura, sono saltate La semplice prossimità fisica o l’affidamento ad esempio -lo hanno raccontato molto bene le donne indiane – dei bambini ad un’unica persona , ad una donna anziana della famiglia o altro ancora, tutto questo è saltato. Per fare un altro esempio ci è ritrovate sole in contesti di famiglia nucleare o comunque non estesa e ciò ha pesato particolarmente per coloro che erano abitate a muoversi nel contesto di famiglie allargate o comunque in reti amicali o parentali che funzionavano come sistemi di supporto. Inoltre la stessa emergenza è stata gestita con logiche maschili. Quali erano le prime questioni da affrontare? Spesso non sono state quelle legate alla cura  e questo ha provocato vuoti molto grandi nelle legislazione anche nell’emergenza. Perciò sono mancati i servizi e sono mancati gli spazi. Questo è stato senz’altro il primo punto. 

L’altra questione molto interessante che è emersa è stata l’effetto di una grande crescita di consapevolezza in quanto tutta questa serie di pratiche , di attività e di pensieri impliciti essendo stato sottratto dalla pandemia il terreno su cui si basavano, sono divenuti più chiari e oggetto di riflessione anche perle protagoniste stesse. Ad esempio le latino-americane hanno molto sottolineato questo aspetto. Poi, per entrare più nello specifico, un elemento molto problematico è stato il funzionamento delle strutture sanitarie di base che erogavano questi servizi e qui c’è tutto il discorso di sospensione, quasi totale in alcuni paesi, dei servizi alle persone legati alla gravidanza o alla maternità, ma anche all’aborto. In alcuni paesi queste attività sono state brutalmente sospese senza che vi fosse la possibilità di interloquire poiché strutture sanitarie e ospedaliere sono state ovviamente totalmente convertite in reparti Covid o attività legate al Covid. Tutto questo è stato molto forte in Maghreb o in Latino-America. Compagne della Tunisia o del Marocco hanno raccontato in modo chiaro come sia stato veicolato un messaggio che la priorità non potevano essere certo l’aborto o la libertà di scelta delle donne, ma era la pandemia. Insomma, da questo punto di vista, vi è stato un totale black-out.

Sul piano del paradigma della cura, quali significati sono stati attribuiti, nel dibattito seminariale ad un concetto così impegnativo come quello di cura?

Le voci sono state molto diverse e sono andate dal riferimento ai supporti e alle prime reti attraverso pratiche di scambi sperimentati dalle donne turche, alla riflessione portata avanti, in primo luogo dalle latino-americane intorno al tema della cura del pianeta, dei rapporti cooperativi, del significato di beni comuni. Sono emersi approcci possiamo dire ecologisti per il non sfruttamento della terra, sull’idea di bene comune.

Quindi l’intreccio tra cura e beni comuni?

Esatto. Si supera l’idea della cura soltanto come servizio anche se drammaticamente si comprende che questo è venuto meno, ma si va oltre. Ma si ricomincia a lavorare seriamente sull’idea di economia legata al bene comune. E’ stato un aspetto molto importante, emerso in diversi interventi. 

Dal punto di vista delle prospettive future, si mantiene questo coordinamento? Come si pensa di andare avanti?

In primo luogo si sta lavorando per rendere fruibili tutti gli interventi. Sono stati tanti e lo sforzo organizzativo del convegno ha riguardato anche l’aspetto della comunicazione linguistica. Le lingue degli interventi sono state 14 per cui enorme è stato il lavoro di interpretariato perché, oltre alle presentazioni, c’è stato il dibattito. Ora si vorrebbe procedere a una pubblicazione on-line, però l’idea è anche quella di creare nuclei tematici di approfondimento mantenendo una mailing list con tutte le donne intervenute in modo da dare vita a una rete digitale per temi, aree di interesse e portare avanti la ricerca. C’è, infatti, bisogno di mettere a confronto le diverse strategie operative. Per esempio tutti i percorsi delle Donne in nero in Polonia sul tema dell’aborto risultano molto interessanti anche per le donne del Marocco che non hanno un’interdizione così netta sull’aborto, ma che durante la pandemia si sono ritrovate a non potere esercitare la loro libertà di scelta come se fossero in una situazione liberticida simile a quella polacca. Ecco questo esempio ci fa capire l’importanza di mantenere vivo questo tipo di scambio anche sul piano delle pratiche. Invece sul piano teorico il nodo maggiore è quello di come tenere insieme e creare un rapporto, un vincolo reciproco, tra questo piano e quello delle pratiche. Da un lato infatti ci sono soggettività legate ai movimenti – le latino americane e Non una di meno sono realtà di movimento – legate quindi a forme di azioni collettive come le piazze, le manifestazioni, la promozione di un’informazione capillare, dall’altro lato ci sono realtà che ragionano di più sui modelli, quando parliamo di bene comune c’è una riflessione teorica importante che coinvolge le strutture politiche, giuridiche dei diversi paesi. Allora, come rendere, per dir così disponibile, la teoria e tradurla in pratica? E ,al tempo stesso, leggere le pratiche mediante strutture teoriche importanti? Questa è la sfida più importante. Al momento si usa la parola convergenza per tenere insieme la dimensione teorica e quella delle tante pratiche differenti che sono state presentate.

Ho un’altra domanda, di carattere più generale, rispetto alla tradizione identificazione tra donne e cura, ci sono stati spostamenti, riflessioni innovative?

Secondo me c’è un interessante allargamento del concetto di cura in termini teorici che ci può portare – io me lo auguro ma è un punto di vista personale – a far saltare questa identificazione tra cura e appartenenza di genere e una rappresentazione delle donne come uniche depositarie della cura, perché se la cura diventa una categoria declinabile in un modello economico, politico, di convivenza è chiaro che diventa propria di tutti i generi, anzi diventa fondamentale che sia di tutti e di tutte. E’ apparso evidente che per realizzare un’economia della cura ci vuole una corresponsabilità, non c’è chi accudisce e chi viene accudito ma occorre una compresenza delle due dimensioni per ogni persona con modalità diverse legate all’età, all’autonomia, alla condizione sociale. Questo è un primo punto. L’altro che in realtà è stato poco indagato per la diversità dei vari paesi e stata la concezione della cura in una prospettiva temporale: cura è anche promuovere la formazione delle future generazioni  e qui entra in campo tutto l’ambito fondamentale della scuola, dell’università, della formazione continua, dell’educazione. Nonostante la pandemia abbia sospeso la formazione in presenza, certamente in forme diverse nei diversi paesi, ma di fatto ovunque c’è stata una sospensione, un’interdizione dei luoghi della scuola e della formazione. Ecco si fa più fatica a riflettere su questo aspetto. Ad esempio il fatto che ancora non siano emerse o non si siano delineate esperienze di formazione e autoformazione differenti mi ha fatto riflettere. Alla fine è come se la pandemia avesse fatto emergere –  lo si capisce- l’aspetto della cura legato alla sopravvivenza, alla salute immediata, lasciando in disparte altre dimensioni. E questo è paradossale perché noi vediamo che tra gli effetti del long covid– se vogliamo chiamarlo così- c’è la povertà educativi e su questo resta molto su cui interrogarsi.

Ancora due domande: la prima riguarda il tema delle disuguaglianze di genere, in che termini sono venute fuori, come sono state analizzate? La seconda riguarda, invece, proprio l’associazione Orlando, quali sono i suoi progetti rispetto a questo tema e su come si muove all’interno di questa rete?

Il tema delle disuglianze di genere, tema divenuto molto mainstream, una sorta di tormentone che sentiamo spesso, cioè che il Covid non è stato pesante allo stesso modo per gli uomini e per le donne, non è stato particolarmente presente nel seminario. Forse è stato considerato ovvio perché sono intervenute donne provenienti da situazioni e contesti geografici molto differenti, ma tutte molto attive, impegnate nei femminismi. Insomma era per loro molto chiaro che questo era avvenuto ed anzi in alcune situazioni in termini particolarmente pesanti, ma le disuguaglianze sociali e di genere erano ampiamente presenti anche prima del Covid. Il tema che è stato più importante e che credo possa rappresentare un taglio, una prospettiva di lettura è che la questione va vista rispetto alla prefigurazione di un modello economico alternativo. Non basta intervenire per appianare le disuglianze prodotte dal Covid, ma bisognerebbe ragionare su modelli alternativi. Il problema non è dire quanta occupazione femminile si è persa – anche se deve essere detto- ma mettere in rilievo quanto poca ce ne fosse anche prima, di che qualità fosse. Quindi dal mio punto di vista insistere solo su questo aspetto è un po’ come “scoprire l’acqua calda”. Il seminario non si è soffermato più di tanto su questo punto per la grande consapevolezza delle intervenute. Si è andate oltre, il problema posto è stato quello di un’economia della cura  fondata su un discorso molto semplice: se permangono disparità nell’accesso alle risorse, giustizia sociale e di genere non sono possibili.

E per quello che riguarda Orlando? 

Obiettivo della Società della cura, oltre al Seminario era quello di realizzare un osservatorio di genere sugli effetti della pandemia. Ma qual è stata la grande difficoltà per cui siamo ancora in fase progettuale? La difficoltà è stata quella di definire l’oggetto dell’osservazione. Si è creato un grande dibattito perché nella rete c’è chi propende per una raccolta quantitativa di una serie di informazioni e di dati a partire dai contesti, su lavoro, sanità, ricerca, rappresentanza politica eccetera e, invece, chi preferirebbe un’indagine qualitativa facendo dell’osservatorio uno strumento per collegare le lotte, creare reti, insomma uno strumento pratico organizzativo. Orlando in questa sessione di lavoro ha un ruolo importante perché siamo per natura ibride, nasciamo con una vocazione alla dimensione teorica e alla riflessione culturale, ma abbiamo anche un’attenzione particolare all’iniziativa politica delle donne. Di qui sono emersi un nuovo compito e una nuova sfida, nel senso di pensare assieme alla rete quali potrebbero essere le modalità di indagine ulteriore. Noi abbiamo l’esperienza dell’Agenda politica delle donne, e al tempo stesso, sappiamo l’importanza di avere una presenza nei presidi, avere un’interlocuzione con le istituzioni. Da questo punto di vista abbiamo un ruolo importante in continuità con la nostra storia, un ruolo che vogliamo giocare in quanto siamo in grado di fornire uno spazio di riflessione a livello teorico ed essere, contemporaneamente, un luogo che agisce e dà vita a determinate pratiche.  

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