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CREARE CITTADINI ATTIVI PERCHE’ LIBERI

di Giancarla Codrignani*

La Next Generation EU non è solo il DPRR, che nella vulgata è un erogatore di finanziamenti e non un intervento di cooperazione collettiva e di riforme compatibili con le regole comuni della Ue. Se qualcuno avesse voglia di divertirsi, su internet la prima voce che compare per la sigla è Digital Prosopography of Roman Republic (DPRR) del dipartimento di Digital Humanities  della facoltà di studi classici del King’s College di Londra. Invece è la NGEu il fondamento per il cittadino che voglia contribuire al bene comune, l’impegno originario volto a  finalizzare gli interventi post-pandemia alla qualità del futuro della next – e non newgeneration, che sta crescendo  e che       Ursula dovrà allargare perché siamo già obbligati, almeno tecnologicamente, a figurarcela come Next Generation World. Una riforma che si potrebbe realizzare domani, non fosse che mancherebbe l’accordo tra i ventisette (+ la Brexit) che hanno l’occhio al portafoglio e non sono ancora pronti a percepirsi europei, disposti come si ritrovano perfino a regredire dietro controproducenti velleità nazionaliste.

 Parlare di nuove tecnologie sembra ormai abituale, ma la maggioranza delle popolazioni non ne ha sufficiente cognizione, anche se da un paio di decenni l’ultima generazione era nata digitale.  C’è chi sa tutto e velocizza tutto, ma rischia di prendere casa dentro la macchina e di diventare non un homo techologicus, ma il posthumanus, in un senso non previsto da Foucault. Perché la fascinazione dei mezzi che trasportano in un’altra società – come fu  l’invenzione della stampa – sono mezzi potenti, ma  – come nel Rinascimento non tutti si trasformarono in tipografi, mentre  tutti diventarono improvvisamente potenziali lettori – sono, appunto, “mezzi”, da utilizzare per fini da individuare e scegliere soggettivamente per operare scelte compatibili. Poi, se sono stati eretti monumenti a Gutemberg che stampava la Bibbia, forse qualcuno lo farà a Zuckemberg, anche se l’esperienza di Facebook fa sperare di no. Perché una cosa è immortalare Ada Lovelace o Alan Turing, un’altra un impresario arricchito a spese della sua utenza. 

Noi singoli, soprattutto se insegnanti o comunque genitori, fratelli, nonni, zii di un ragazzino ipertecnologico, dobbiamo fargli imparare a “leggere” non solo la Bibbia divulgata cartacea, ma anche la musica, la pittura e i mezzi elettronici. Tra gli intellettuali del Cinquecento c’erano i diffidenti che continuavano a credere che, se tutti potevano accedere ai grandi maestri e alle dottrine sacre, non ci sarebbe stata più cultura o religione. Oggi altre persone un po’ matte e pessimiste oppongono resistenza all’imperialismo delle multinazionali digitali che rubano i dati e corrompono le masse entrando nelle loro coscienze con i social, ma non si accorgono di tenere in mano mezzi formidabili che possono preannunciare un nuovo Rinascimento. Eppure sotto gli occhi ci sono vere masse di persone che si sono sentite inadeguate rispetto ad un futuro inusitato e difficile che, anche se non così incapaci, si limitano a consultare il faidate medico e chiaccherare per ore su what’s up. Tuttavia le “nuove” tecnologie restano ancora non così innocue come i caratteri tipografici, che i conservatori contestano ancora: se le masse non avessero incominciato a leggere, non avrebbero fatto le rivoluzioni. 

Sembra un’ovvietà creare i cittadini attivi di domani insegnando la confidenza con i media comunicativi delle ultime generazioni: in fondo lo si è sempre fatto da quando si spiegava che non si sommano le pere con le ciliege o si impiegavano incredibili rubinetti da cui usciva acqua in tempi diversi da calcolare secondo procedure date e giochini del genere che però escludevano ogni automatismo e si basavano sul non immediate capacità di soluzione, ma su decisioni della mente (e della memoria). Che impiegava tempo, mentre oggi nessuno vuole fare la fila, anche se avere molte cassiere è contrario al modello di compravendita del supermercato. Ma nemmeno è previsto che l’ultima cassiera rimasta non conosca più le quattro operazioni (e succede). Programmare un futuro agile e giusto come consumo non significa ottenere sviluppo; analogamente il “pensiero computazionale” che ricorre a risultati preconfezionati non deve escludere l’abitudine a esercitare la logica. Più che giustificato, dunque, l’apprendimento nei primissimi anni del processo educativo, quando l’apprendimento è di per sé meccanico, perché contemporaneamente i maestri curano di sollecitare le menti dei bambini ad usare i mezzi senza affidargli subito la capacità di giudizio logica e morale. Non è la stessa cosa per i ragazzi delle scuole medie e dei licei, condizionati dall’abitudine ad utilizzare le risorse che fanno risparmiare non solo tempo, ma anche energia mentale, come quando nello scrivere messaggini si usano gli aiutini del cellulare per “guadagnare tempo”.  Far di conto non è operazione di rara intelligenza, ma le cassiere dei supermercati insegnano: le casse automatiche sono comode, ma si può perdere non solo la memoria delle quattro operazioni, ma il lavoro.  Anche se molti mestieri stanno cedendo il posto ad altri, informatici e neotecnici, grafici, web design, creazioni di siti internet, nuove invenzioni su app.

La Comunità Europea confermando il coding “linguaggio universale” ha istituito la Europe Code Week e cura la raccolta delle iniziative internazionali rilevando la “progressiva presa di coscienza del valore formativo del pensiero computazionale come abilità trasversale” e come metodologia che consente percorsi interdisciplinari. In Italia nel 2014 è stato avviato il progetto Programma il futuro, nato dalla collaborazione del MIUR con il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica (CINI).  Nel 2016 Programmare il futuro è stato riconosciuto come iniziativa di eccellenza europea per l’educazione digitale nell’ambito degli European Digital Skills Awards.  Sempre il MIUR ha pubblicato nel 2018 il documento “Indicazioni nazionali e nuovi scenari” nel quale riconosce il pensiero computazionale come uno degli strumenti digitali per “saper stare al mondo”, dare senso alle esperienze scolastiche, avviare all’esercizio di una piena cittadinanza in rapporto con la Costituzione, ma anche con l’attenzione a prendersene cura, a formare l’autonomia del pensiero, sostenere le varie forme di diversità, disabilità e svantaggio.

Il coding pertanto, come metodologia didattica nei primi gradi di scuola, consente sia di ricorrere alla robotica educativa, quindi alla reale programmazione di macchina, ma anche ad attività di coding unplugged: si può staccare la spina, fare a meno della macchina tecnologica (il pc). I bambini possono sentire il corpo come un mezzo di conoscenza attraverso reticoli di movimento e utilizzandolo come fondamentaleale mezzo di apprendimento, ricorrere alle fantasie visive, musicali, espressive, giocarci sperimentando queste abilità. Il compito dei maestri diventa delicato nell’unire senza divorzio i due piani: imparare giocando ma anche comunicando con la macchina e farne il proprio servo senza pretendere che la sua relazione con il mondo reale sia così disponibile a farsi comandare. Perché attorno c’è subito il caos.

Tanto più che in Italia forse non è ancora pratica così diffusa, mentre sarebbe necessaria soprattutto per superare in fretta la fase sperimentale confrontando le esperienze. Non è irrilevante storicizzare le fasi di scoperte che hanno superato le previsioni degli scopritori. Il personal computer trova solo nel 1967 un matematico che si fa pedagogista e che, fin dai primi algoritmi, presta attenzione al pericolo che si possa   “programmare il bambino” (e anche l’adulto.) Il matematico pedagogista è il sudafricano Seymour Papert  che pubblicò nel 1967 un programma per far comprendere la geometria secondo computerizzazione, convinto che “insegnando a pensare all’elaboratore, i bambini si lanciano in una esplorazione del loro stesso modo di pensare”. Insomma un metodo, nuovo, ma un metodo. In un suo scritto intitolato Mindstorms segnala la sua preoccupazione per l’ignoranza educativa dei genitori: occorreva una Connected family perché genitori e bambini si comprendano nell’era Internet. Ai nostri giorni anche i genitori sono nati digitali; tuttavia ma non sono stati resi consapevoli della velocità delle innovazioni che rinnovano le loro performance e modificano gli atteggiamenti umani. In fondo siamo agli inizi di una svolta epocale non solo per i nuovi strumenti sempre in evoluzione.

Nello Cristianini è un fisico e che insegna IA a Bristol: ha tenuto nel 2017 una Stoa Lecture al Parlamento Europeo, replicata a Bologna dopo quattro anni  e aggiornata dopo la pandemia sugli “effetti collaterali” della “convivenza” con algoritmi invisibili e pervasivi, basati appunto sull’intelligenza artificiale. Chi ha praticato il coding se la trova davanti e deve sapere il valore dei dati che dovrà inevitabilmente cedere alla virtualità attiva servita da telefoni, poste, agenzie, sportelli, uffici e altro non sempre accertabile. La macchina possiede il riconoscimento facciale, fa le traduzioni in altre lingue, suggerisce acquisti, conosce i gusti del suo fruitore e gliene predispone le scelte. Secondo le esperienze fatte negli Usa, secondo Cristianini è possibile conoscere i dati della persona che ha problemi di giustizia e sostenerne la libertà provvisoria. Ma la macchina ignora se i dati raccolti siano giusti o adulterati e non dà giustificazione delle sue scelte. Ignora anche i principi: la dignità della persona, l’uguaglianza, la trasparenza, la privacy. Impone di passare dalla logica alla statistica “in nome di una sempre maggiore, rapida e remunerativa efficacia” e serve alla politica per produrre le norme di legge. Per questo l’esperto chiede la vigilanza e l’autorità correttiva di un’infrastruttura culturale: per combattere la dipendenza dai social media – la sua preoccupazion sono i ragazzi – riconosce che “abbiamo bisogno delle risposte delle scienze umane”. 

Insegnanti “di ogni ordine e grado” sono chiamati dunque ad una prestazione forse complessa se non giovanissimi, superabile dall’interazione con i colleghi più tecnologici. Sarebbe interessante contare sul coraggio della nuova tecnica e la cautela della cultura in cui va inquadrata: In un liceo privato bolognese si sperimenta il “metodo Toyota” che coinvolge tutti gli allievi in uno solo programma diretto a costruire prodotti smart di utilità pratica. Uno studente, intervistato all’uscita dal laboratorio Obeya (in giapponese sembra significhi “stanza della guerra”) ha commentato il metodo: “impari s competere con te stesso e a spingere gli altri insieme a te a fare meglio”. Il coding allegro delle elementari rischia di diventare funzionale alla competitività. Mentre è necessario che le nuove tecnologie emancipino ulteriormente l’umanità e aprano davvero ad un per ora illusorio nuovo Rinascimento. Grande è la responsabilità della scuola nella nuova paideia: sta preparando adulti che vivono dentro un postmoderno che slitta nel cyborg (ormai l’innovazione meccanica si integra come protesi nei corpi e non sono diverse le conseguenze che possono derivare dalla genetica) e nel “postumano” e bisognerà convertirsi alla decostruzione delle modalità con cui conservare ed evolvere le culture che lentamente diventano arcaiche nella trasmissione. Ai tempi di Olivetti i rivoluzionari beni immateriali venivano elaborati da un gruppo tecnico-dirigente fornito di  competenze scientifiche e qualità culturali: l’Elea 9003 – l’elaboratore a transistor, uscito da Ivrea, che fu il primo messo su piazza nel mondo – aveva il design di Ettore Sottsass.

  • Già parlamentare, docente, politologa, giornalista
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