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«Pazzia!»

Papa Francesco e l’incremento delle spese militari

Fonte : Treccani

di Daniele Menozzi

Il 24 marzo ultimo scorso papa Francesco ha tenuto un discorso ai partecipanti a un incontro promosso dal Centro femminile italiano. S’incentrava sul ruolo della donna nella Chiesa e nella società contemporanea. Arrivato al punto in cui metteva in relazione questo tema con l’attuale guerra in Ucraina – le donne come protagoniste di un ribaltamento della logica che presiede a questo conflitto – il pontefice interrompeva la lettura del testo e, parlando a braccio, ricordava la decisione di alcuni Paesi di aumentare le spese militari. Prima di riprendere a leggere, esprimeva sulla notizia un giudizio lapidario: «Pazzia!».

Inizialmente scarsa è stata l’attenzione mediatica all’intervento; poi il richiamo alle parole del papa è dilagato. Le ragioni sembrano evidenti. Sono riconducibili all’ampliarsi del dibattito, anche all’interno dello stesso mondo cattolico, sulla “giustizia” della guerra in corso.

Ma sono soprattutto la conseguenza del rilievo politico che ha assunto in Italia la questione. Si è infatti cominciato a ventilare una crisi di governo nel caso in cui si giungesse ad un effettivo adempimento di una norma prevista nel “decreto Ucraina” del 21 marzo. Stabilisce che la quota di PIL destinato alle spese militari salga alla percentuale del 2% in armonia con una decisione presa dalla NATO nel 2014 e non ancora pienamente applicata. 

Per un’analisi del discorso che cerchi di evitare valutazioni impressionistiche, conviene in primo luogo conoscere esattamente le parole di Francesco. L’ufficiale sito vaticano così le riporta: «Io mi sono vergognato quando ho letto che non so, un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta, come ho detto, non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali».

A prima vista alcune espressioni appaiono sconcertanti. Pur essendo ben noto che abitualmente ricorre ad un linguaggio familiare, discorsivo e persino creativo, sembra fuori luogo che il papa tratti un argomento così grave – e pronunci poi un giudizio durissimo in materia ‒ confessando di non essere pienamente informato («non so», «credo»), fino a trascurare la precisa indicazione numerica dell’incremento di cui parla. Il due per cento o il due per mille del PIL sono cose ben diverse. 

Si può certo ipotizzare che l’emozione derivante dalla “vergogna”, che Bergoglio afferma di provare per la notizia, abbia impedito un pieno controllo di parole pronunciate sotto forma di estemporaneo commento su un testo in precedenza preparato. Ma sembra più probabile che l’ostentata indifferenza per la precisione dei riferimenti sia intenzionale. In fondo le arti della retorica sono parte consistente della formazione dei gesuiti. Circondare la notizia sull’aumento delle spese militari con elementi verbali che esprimono noncuranza per gli aspetti ad essa correlati – in particolare quelli quantitativi – concentra l’attenzione sul mero dato di fatto, accentuandone la portata scandalosa. Del resto l’andamento complessivo del discorso mostra che è proprio questo l’obiettivo che il papa intende raggiungere: far risaltare che altri sono i mezzi idonei per rispondere alla guerra.

A questo proposito è opportuno ricordare che non corrisponde alla linea pontificia quanto alcuni paventano: l’accettazione della violazione del diritto internazionale compiuto dalla Federazione Russa con l’aggressione all’Ucraina e l’abbandono di ogni resistenza alle violenze messe in atto durante l’invasione. A livello generale Francesco aveva chiarito il suo orientamento in quella che si può considerare la magna charta del pontificato su questi temi, il messaggio per la cinquantesima Giornata mondiale della pace (gennaio 2017). Qui asserisce che lo stile di una politica diretta alla costruzione della pace, se vuole essere coerente con il Vangelo, deve fondarsi sulla «nonviolenza attiva». Non si tratta di «resa, disimpegno e passività» nei confronti del male della violenza bellica, ma di sconfiggerlo senza dover ricorrere alla «forza ingannevole delle armi».

I discorsi tenuti dal papa nell’ultimo mese riprendono puntualmente queste considerazioni e in qualche misura le approfondiscono. Osserva infatti che non si esce da una drammatica situazione bellica, in cui ad essere colpita è in primo luogo la popolazione civile, aggiungendo «altre armi», «altre sanzioni», «altre alleanze politico-militari», ma mettendo in atto operazioni in cui la logica della violenza distruttrice delle armi è sostituita dalla logica di una attenta cura per tutti gli uomini e per il creato.

Certo Bergoglio si sofferma sull’obiettivo finale di questa impostazione – un sistema di relazioni internazionali non governato dall’attuale criterio del predominio, bensì dal progetto della fratellanza tra i popoli – senza approfondire adeguatamente le modalità concrete di un’attiva resistenza non violenta all’aggressione. Ma si sconta qui tutto il ritardo di una cultura cattolica, che ha continuato a ruminare la teologia della guerra giusta, mentre il papa ne proclamava l’inapplicabilità al tempo dei moderni mezzi di distruzione di massa.

Ci si può a questo punto porre la domanda centrale: a quale obiettivo mira il papa con un intervento che, mostrando come l’incremento nella spesa per le armi costituisce il contrario di quanto bisognerebbe fare per la pace, giunge al punto di qualificarlo come «una pazzia»? Possiamo in primo luogo notare che non vuole in tal modo procedere a una mera deplorazione della guerra. Nell’ottica di Francesco l’affermazione che «non esistono guerre giuste» si accompagna alla convinzione che occorre, come si legge nelle beatitudini evangeliche, essere «operatori pace».

In questa prospettiva Bergoglio intende in primo luogo incentivare l’atteggiamento che ritiene i cattolici dovrebbero assumere. Nell’atto di consacrazione dell’umanità, e in particolare di Russia e Ucraina, al Cuore immacolato di Maria recitato il 25 marzo, il pontefice indica che ad essi spetta il compito di muoversi come «artigiani di comunione». La sottolineatura della follia della risposta armata alla guerra sollecita insomma l’impegno di tutti i credenti nella specifica situazione bellica a farsi promotori di riconciliazione e fraternizzazione.

Ma il discorso del papa non è rivolto solo all’interno della Chiesa, si indirizza anche ai governi che hanno deciso l’incremento delle spese militari. L’intervento pontificio ha ovviamente un respiro universale: ormai da decenni il papato, soprattutto in frangenti di crisi acuta, si rivolge a tutti gli uomini di buona volontà.  Possiamo tuttavia chiederci l’incidenza che le parole di Francesco possono avere sulla linea del nostro Paese, a partire dalle scelte dell’esecutivo. L’annuale celebrazione dell’anniversario della stipula dei Patti lateranensi e dell’Accordo di revisione del Concordato attesta – come è avvenuto anche il 12 marzo scorso – che esiste una larga convergenza tra governo italiano e Santa Sede.

Certo non siamo più ai tempi dell’egemonia democristiana. A caratterizzare il clima dell’epoca basta accennare, tra i tanti, a due episodi. La legge sulla cartellonistica cinematografica del 1960 venne varata in seguito alle rimostranze espresse fin dal 1957 da Pio XII che, superando in auto le mura leonine, era rimasto sconvolto dalla vista del manifesto cinematografico del film Poveri, ma belli di Dino Risi. Nel febbraio 1965 il divieto dell’esecutivo di rappresentare a Roma la pièce teatrale Il vicario di Rolf Hochhut aveva origine da una nota della Segreteria di Stato – a quanto pare su suggerimento di Paolo VI – che ricordava come la denuncia dei silenzi di Pacelli sullo sterminio degli Ebrei costituisse un’aperta violazione del carattere sacro attribuito dal Concordato alla città. 

La fine del partito cristiano e l’allargamento degli spazi di laicità riconosciuti dalla Santa Sede all’ordinamento italiano non hanno cancellato la volontà vaticana di incidere sugli indirizzi del governo. Ne hanno però cambiato le forme. Come è noto, il tramonto di una legge sulla libertà religiosa in Italia ha radice in un’udienza dell’allora segretario della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) presso la competente commissione parlamentare. Ma la testimonianza più nota è forse la richiesta di un indulto avanzata nel discorso pronunciato da Giovanni Paolo II alle Camere riunite nel novembre 2002. Se il provvedimento è arrivato nel 2006, l’auspicio del papa ha trovato rapido riscontro fin nell’«indultino» del 2003.

In questi ultimi casi, in ossequio al carattere di democrazia rappresentativa della Repubblica, l’intervento della Chiesa si è manifestato pubblicamente nelle aule del Parlamento, anziché in riservati interventi sul governo. Ma non per questo si è rivelato meno efficace. Sotto questo profilo il discorso di Francesco sembra fare eccezione.

È infatti evidente che non ha scosso la fermezza del governo Draghi nel mantenere l’impegno per un aumento delle spese militari, anche se, come tutti i Paesi europei, l’Italia spinge per una soluzione negoziale del conflitto. Forse però il dato più interessante è l’ulteriore spostamento delle modalità con cui la Santa Sede ritiene oggi di poter ottenere un allineamento dell’Italia alle sue posizioni. Non si rivolge né al governo, né al Parlamento, bensì direttamente all’opinione pubblica, facendo leva sull’incisività del linguaggio.

Più che manifestare sdegno morale, le parole di Francesco sembrano dunque puntare alla generalizzazione di un atteggiamento che, senza abdicare alla resistenza all’ingiusta violenza, rinunci a praticarla attraverso l’uso delle armi. Il progetto investe certo il lungo periodo. Tuttavia, almeno a giudicare dai sondaggi sul provvedimento relativo all’incremento delle spese militari, questo approccio si sta rivelando tutt’altro che inefficace nell’orientare i convincimenti degli italiani sulla questione. Non sarebbe allora opportuno prendere atto anche di questa nuova modalità vaticana di condizionare la politica?

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