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C’è un giardino da salvare: la nostra Terra

  • di

Attualità, Il Regno

Il giardino che cura

Mariapia Veladiano

C’è un giardino da salvare, la nostra terra, e ormai malinconicamente illuminati sulla assoluta sconsideratezza dell’umanità, non si può aspettare che sia finita la guerra (le guerre?) come ha fatto Beverley Nichols nel 1946, per metter mano a vanga, rastrello e semi. Il suo bellissimo Merry Hall (Lindau 2017, traduzione di Natalia De Martino) è l’appassionato racconto di un giardino che rinasce. Un atto di riparazione dopo la guerra. Guarigione. Bellezza.

Lui è stato uno scrittore, giornalista e drammaturgo inglese, autore di opere di viaggio, di narrativa e di… giardini. In italiano di tradotto non c’è niente (ma perché?), tranne questo primo volume di una trilogia dedicata a Merry Hall, la tenuta georgiana, che sia georgiana è fondamentale e chi legge scoprirà perché, che Nichols acquista e ristruttura una volta tornato dalla guerra.

Bisogna amare i giardini, il contorno di personaggi storici discretamente accennati o camuffati e insieme essere appassionati di humor inglese a volte un poco, come dire, cavilloso per esuberanza di dettagli, ma sempre stuzzicante, e allora un libro così è un piacere assoluto.

Quando Beverley Nichols decide di comprare una qualche tenuta non troppo lontana da Londra, visita un buon numero di orrori spacciati per dimore amene e accoglienti, finché s’imbatte in Merry Hall e s’innamora. Lo dice lui, e chi ama natura e giardini sottoscrive convintamente che si possa trattare d’amore. La casa è troppo grande per lui e troppo malmessa, lo stile georgiano che ama è troppo corrotto da successivi interventi inappropriati, orridi laurocerasi piantati come bordure e schermi infestano il giardino (l’avversione per i laurocerasi che ancora oggi appestano città e campagne anche da noi ce lo rendono fratello fino al giorno del giudizio) ma, ecco, quando arriva in visita a Merry Hall è la stagione dei gigli e l’ultimo varco del giardino semiabbandonato lo porta a un campo sterminato di gigli regali perfettamente eretti , «tremolante, scintillante bellezza», «fitta schiera di fiori bianchi come neve baciata dal sole», «ogni singola pianta un esemplare perfetto» (29). Irresistibile bellezza.

E così, con un colpo al cuore comincia l’avventura che ci permette d’accompagnare il felice e a volte sgomento proprietario di Merry Hall nella meravigliosa impresa di collocare ogni pianta al suo posto, il posto in cui può crescere bene, migliorando la prospettiva del giardino, offrendo uno sfondo appropriato ad altre piante, regalando felicità allo sguardo.

E nel frattempo conosciamo la temibile quasi vicina di casa miss Emily Kaye, fieramente convinta di poter ottenere, grazie a un qualche diritto d’antica residente del luogo, una fornitura stabile di verdure selezionate fra quelle che la feracissima terra di Beverley produce, ben lavate naturalmente e opportunamente consegnate a casa dal proprietario, e poi l’insostenibile miss Rose Fenton, artista della natura, di moda e titolata nell’arte della decorazione, vera Attila dei fiori, un’alluvione di consigli non richiesti, pronta a fare «qualcosa di davvero notevole» con i suoi gigli, come amputare gli steli, intingerli nell’inchiostro rosso, appenderli a testa in già per abbellire l’altare alla festa del raccolto (185).

Ma in ogni pagina troviamo soprattutto una passione vera per i fiori e per la natura. Alcuni li possiamo riconoscere, sono i nostri, come la bella semplice erica carnea (carnicina), l’erica rosa dei nostri giardini, precoce, primo colore di fine inverno, perenne, facilissima da coltivare. Anche agrifogli, clematidi, biancospini, euonymus, pioppi, e poi gli alberi da frutto riconosciamo, e s’impara anche, molto. Ad esempio che alle camelie non basta aggiungere torba al terreno per acidificarlo a sufficienza, perché il calcare filtra lo stesso e muoiono (183).

E fra citazioni letterarie e autoironiche professioni di misoginia politicamente scorrettissime, s’impara come la buganvillea abbia un nome non del tutto appropriato e come la sua storia sia alquanto intrigante.

Poi ci sono pagine di limpida poesia. Come quella in cui Beverley racconta di aver raccolto i minuscoli semi di un vecchio cipresso di Lawson e di averli messi a germogliare. Qualcosa che un vero giardiniere ama fare, anche con piante che di norma si acquistano già grandi, con la zolla da trapianto. Ebbene, «una certa mattina color limone di fine aprile» scopre che i cipressini sono nati, «minuscoli fili», eppure «ognuno di quei pallidi filini verdi (sarebbero bastati pochi secondi e un paio di forbicine da unghie per rasarli tutti a zero) era un potenziale gigante. Ognuno di essi (e sarebbe bastato un singolo cucchiaino a contenerli tutti) un giorno avrebbe superato la casa e accolto tra i suoi rami il canto del vento e spinto le sue robuste radici nel terreno… negli anni ognuno di essi sarebbe stato un riparo, una casa e una fortezza per miriadi di uccelli e minuscole creature che vi si sarebbero rifugiati» (159ss).

È tutta una rinascita. C’è stata sì la guerra, e continuamente si fa ricordare, e oggi pure c’è, incredibile guerra scoppiata in quello che pensavamo la terra dei diritti, ma «i sacchettini di semi si vendono ancora, il sole continua a splendere e la pioggia continua a cadere» (33) e insieme a Beverley Nichols, (e a Candido di Voltaire?), possiamo continuare a coltivare il nostro giardino, e farci guarire dalla sua bellezza.

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