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Obesità, stigma sociale?

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Obesità, stigma sociale?

di Francesco Domenico Capizzi*

Cultori della materia e Associazioni volontarie, giustamente, continuano a ribadire che “l’obesità non è una colpa individuale, ma una malattia e come tale deve essere trattata e curata… troppo spesso viene ancora considerata come responsabilità personale, una scelta di stile di vita dovuta a una scarsa auto-disciplina…lo stigma sociale che ne deriva sfocia in tutti gli ambiti della vita…il non riconoscerne un percorso clinico-terapeutico-assistenziale specifico è una forma di discriminazione…” (Associazione Obesi, Società dell’obesità).

Intanto di recente la Camera dei deputati ha riconosciuto nell’obesità una malattia cronica per garantire alla persona obesa il “pieno accesso alle cure e ai trattamenti farmacologici”.

Infatti, l’obesità è una malattia che riguarda oltre 5 milioni di cittadini italiani, è causa di morte in almeno 57.000 per anno, possiede la capacità di espandere la sua capacità patogena sugli apparati cardiovascolare, digerente, respiratorio e osteo-articolare essendo causadi quasi il 50%dei casi di diabete di tipo 2 (non-insulinodipendente) e steatosi epatica, il 25% di cardiopatie e pneumopatie,  il 30% di osteo-artropatie e costituisce un importante fattore favorente su molti tumori solidi. (Società Italiana dell’Obesità, ISTAT).

Da parte delle Aziende farmacologiche e tecnologiche non mancano “le ricerche per sviluppare nuovi farmaci e terapie innovative per giungere a trattamenti adeguati dell’obesità” (Obesity policy engagement network). E i Congressi chirurgici si moltiplicano per studiare le tipologie di interventi per far fronte agli stati di obesità grave.

Tutto giusto e lodevole, ma bisognerebbe tener presente che anche ogni forma di obesità, come vale per il binomio malattia-salute, è connessa strettamente al contesto socio-politico-geografico-istituzionale in cui le persone vivono: nei Paesi benestanti le condizioni di salute dipendono al 50-60% da differenti stili di vita e condizioni socio-eco­nomiche ed ambientali, al 20-30% da predisposizioni dell’organismo, spesso acquisite (epigenetica) e divenute predisponenti e addirittura ereditarie, al 10-15% a qualità delle prestazioni sanitarie. (OMS 2012).

In sostanza, per combattere l’obesità la Medicina e le organizzazioni sanitarie vengono orientate interamente su misure diagnostico-terapeutiche, fondamentali per fronteggiare la pato­logia in atto e le relative conseguenze, ma poco efficaci a fronte del dilagare della malattia.

Le innumerevoli azioni medico-chirurgiche e politico-istituzionali non possono soddisfare pienamente il diritto alla salute delle persone obese se, nella realtà, non incidono sulle ra­dici della malattia e, a volte, neppure sulla sua stessa percezione perché la propria consapevolezza varia in modo inversamente proporzionale a fattori quali indigenza, solitudine, marginalità, ignoranza, precarietà, insoddisfazione, consumismi… modo di essere, organizzarsi, produrre e consumare dell’organizzazione sociale che punta più al suo sviluppo, piuttosto che al suo progresso, verso modalità crescenti produttive e di consumo che minaccia­no il diritto alla salute mentre la coscienza, individuale e collettiva, rischia di forgiarsi quale semplice accessorio de­gli apparati buro-tecnocratico-economici omnicomprensivi. 

In questo contesto la Medicina e il Servizio sanitario concentrano le proprie azioni sulla malattia conclamata mentre restano estranei alle sue radici e alla prevenzione primaria (evitabilità della malattia) continuando a svolgersi come arte e carisma, geometria anatomica e calcolo topografico-tecnologico-organizzativo.

  • già docente di Chirurgia generale nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgia generali  degli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna
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