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Intorno alla Medicina di genere: un seminario dell’Associazione Orlando

Intervista a Marilisa De Palma a cura di Elda Guerra

Il 29 marzo di quest’anno si è svolto, nella sede del Centro di documentazione delle donne di Bologna, il seminario Medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale e regionale. Percorsi di cura e equità, promosso dall’Associazione Orlando con la presenza di esperti e esperte in differenti ambiti disciplinari (https://orlando.women.it/evento/la-medicina-di-genere-nel-servizio-sanitario-nazionale-e-regionale-percorsi-di-cura-ed-equita/). Si è trattato di un’iniziativa interessante che può rappresentare uno stimolo per aprire una discussione a tutto campo su un approccio di diagnosi e cura innovativo e attento alla diversità dei corpi e alla pluralità delle soggettività.

Per cominciare, ne parliamo con Marilisa De Palma – giurista – che per molti anni ha lavorato presso la Direzione generale Cura della persona, Salute e Welfare della Regione Emilia- Romagna. Appartenente al Consiglio delle Responsabili di “Orlando”, Marilisa De Palma ha ideato e coordinato l’iniziativa.

Quali sono state le ragioni, gli interessi alla base di questa iniziativa che è stata davvero di grande interesse? 

La prima ragione è stata la rilevanza del tema, a cui si sono accompagnate una sensibilità personale e un interesse specifico visto il mio lavoro nell’ambito del sistema sanitario regionale. Dicevo la grande rilevanza del tema che può essere sintetizzata in questo modo: trovare la migliore cura possibile, la giusta cura per uomini e donne, viste le differenze di sesso e di genere che ci sono, garantendo nello stesso tempo equità nel trattamento e nell’accesso alle cure. Trovare quindi la cura più appropriata, la personalizzazione della terapia e l’equità del trattamento e di accesso alle cure per raggiungere il proprio pieno potenziale di salute con pari opportunità, senza che qualcuno risulti svantaggiato.

Infatti, il sottotitolo era proprio Percorsi di cura e di equità

Sì, perché è necessario combinare due fattori: da una parte una lettura dal punto di vista del sesso, dell’identità biologica, dall’altra un’analisi dal punto di vista del genere, vale a dire della costruzione sociale dell’identità. 

Per troppo tempo la medicina si è occupata prevalentemente della patologia declinata al maschile, ha avuto una impostazione androcentrica relegando gli interessi per la salute delle donne ai soli aspetti specifici correlati alla riproduzione, nell’errata convinzione, fino agli anni Novanta, che uomini e donne fossero equivalenti.  In altre parole, sono state tralasciate le differenze sia quelle biologiche legate al sesso (la conformazione anatomica del corpo definita dai cromosomi, dagli ormoni e dai genitali interni e esterni), sia quelle legate al genere inteso come la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina e al sistema socialmente costruito intorno a queste stesse identità. Non si è tenuto conto dei processi di costruzione sociale delle identità, in primo luogo della differenza socialmente costruita tra i due sessi, vale a dire l’insieme delle aspettative, dei comportamenti socialmente appresi, associati a ciascun sesso. Queste differenze hanno invece un rilievo importante anche per comprendere la molteplicità dei fattori che determinano modalità diverse fra uomini e donne tanto nella manifestazione delle malattie, quanto nelle risposte agli approcci terapeutici. Insomma per troppo tempo si è ignorato il fatto che i fattori legati alle condizioni socio-economiche e culturali, che ancora oggi, in tutto il mondo, penalizzano  il sesso femminile rendono le donne più  svantaggiate nell’accesso alle cure del SSN. 

Ecco a questo proposito volevo chiederti una precisazione. Fino ad ora abbiamo parlato di uomini e donne, ma come si pone il tema della medicina di genere rispetto al superamento di una logica binaria, dei confini labili tra i sessi, tema oggi al centro della discussione femminista e transfemminista?

Certo. Quando si parla di genere in realtà si parla di generi al plurale, quindi non solo uomo o donna. Non a caso quando si parla di identità di genere, si parla della percezione che ciascuno ha di sé, del processo di socializzazione connesso alla costruzione dell’identità di genere. Quindi generi al plurale. Sta qui anche la complessità del dibattito perché l’interazione di fattori biologici e fattori di carattere economico, sociale e culturale includono anche il tema della percezione rispetto al genere di appartenenza. Insomma lo stato di salute delle persone è definito da un’interazione di fattori. E non solo, ci tengo a sottolinearlo, lo stato di salute, ma anche il modo di affrontare la malattia, le diverse reazioni alle cure terapeutiche.

Apri qui un terreno di straordinaria importanza…

Sì, siamo nel cuore del problema. Per addentrarci meglio nell’argomento, è opportuno premettere che la medicina di genere non è la medicina delle donne, non è la medicina dei sessi. 

Secondo la definizione più ampia data dall’OMS, la Medicina di genere studia l’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona. Pertanto non solo l’influenza delle differenze biologiche definite dal sesso di appartenenza, ma anche le disparità socio-economiche e culturali definite dal termine “genere”.

In sintesi, essa tiene conto dell’insieme degli elementi che rappresentano il “vissuto”, “le condizioni soggettive e oggettive”, il ruolo sociale del paziente. E sappiamo bene che tra questi elementi molti fattori svantaggiano e penalizzano sistematicamente le donne in quanto soggetti vulnerabili, così come le minoranze, gli immigrati….

Puoi fare qualche esempio delle implicazioni connesse ad un approccio in termini di medicina di genere, anche in riferimento a quanto emerso nel seminario?

In primo luogo, se analizziamo gli esiti di alcuni studi in medicina, molte malattie comuni a uomini e donne si manifestano con incidenza e sintomi diversi tra i due sessi. 

L’esempio più eclatante riguarda il cuore. Per molto tempo si è ritenuto che le patologie cardiocircolatorie fossero un problema maschile e in effetti se osserviamo la popolazione giovane, gli uomini hanno un rischio cardiovascolare maggiore rispetto alle donne della stessa età durante l’età fertile. Tuttavia, dopo la menopausa, la popolazione femminile va ad eguagliare l’uomo, fino a superarlo dopo i 75 anni.  Il cuore delle donne è stato quindi poco studiato e anche i sintomi dell’infarto si presentano in modi differenti. 

Un altro esempio significativo è rappresentato dalla depressione. Quest’ultima è rilevata soprattutto per le donne, ma i suicidi sono per la stragrande maggioranza vengono compiuti da uomini. Questo ci dice che, probabilmente, non stiamo diagnosticando la depressione nei maschi a causa degli stereotipi culturali di cui siamo vittime inconsapevoli, per cui tendiamo a pensare che l’uomo deve essere forte e non può dire di essere depresso.  Anche l’osteoporosi appare una malattia sottostimata per gli uomini, se pure bisogna sottolineare che il fatto che le donne si muovano di meno e facciano meno sport costituisce per loro un maggiore fattore di rischio 

Ancora, le donne sembrano maggiormente soggette a sviluppare l’Alzaheimer e, nonostante si ammalino meno frequentemente della malattia di Parkinson rispetto agli uomini, in esse il decorso è peggiore e la mortalità più elevata.

Le donne si ammalano molto di più degli uomini di fibromialgia, malattia molto poco conosciuta rispetto alla quale solo ultimamente nella legge di bilancio del 2022 è stato istituito un fondo per lo studio e la diagnosi e la cura. 

Le donne, inoltre, consumano più farmaci e, rispetto agli uomini, registrano un maggior numero di casi avversi ed anche per i vaccini anche si registra una reazione più intensa. A questo proposito desidero sottolineare che nella gestione della recente campagna vaccinale la questione di genere è stata ampiamente ignorata. Nel periodo in cui si discuteva dell’utilizzo dei vaccini a vettore adenovirale nella popolazione, nessuno ha pensato di valutare il rapporto rischi/benefici sulla base del genere, oltre che dell’età.

D’altronde a tutt’oggi la quantità di donne coinvolte negli studi clinici è molto bassa e i farmaci sono stati testati per lo più sugli uomini. Le donne sono incluse dagli studi clinici solo dal 1993, data in cui la Food and Drug Administration che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici negli Stati Uniti – omologa dell’EMA europea -ha autorizzato l’inclusione delle donne negli studi clinici.

Bisogna dire che nella diversa incidenza di queste malattie nei confronti delle donne gioca un ruolo l’equilibrio ormonale e il suo drastico cambiamento. Le donne producono più anticorpi in età fertile. Gli ormoni sessuali femminili hanno un’azione di stimolazione e potenziamento della risposta immunitaria e sono responsabili non solo del maggior rischio di malattie autoimmuni ma anche della migliore protezione nei confronti delle infezioni.  

Tuttavia, le ragioni di queste differenze non sono attribuibili soltanto al diverso assetto ormonale tra i sessi, alle differenze biologiche. Come ci ricorda l’Oms, entrano in gioco altri fattori, di carattere sociale, economico, culturale, le discriminazioni, le condizioni di vita e di lavoro, anche l’appartenenza a determinati gruppi etnici. Tutto questo interagisce con le differenze biologiche ed influisce sullo stato di salute, sull’andamento della malattia, sulla diversa risposta alle malattie e sull’accesso alle cure provocando disuguaglianze in termini di salute. 

Per esemplificare, a livello mondiale, le donne, così come altri gruppi vulnerabili, vivono in condizioni sociali ed economiche più svantaggiate rispetto agli uomini: meno proprietà, salari più bassi, impieghi precari, meno istruzione. Questo significa minori risorse per curarsi- dall’alimentazione alle terapie- uno svantaggio nell’accesso alle cure e un minore potere per influenzare le istituzioni a occuparsene. D’altro canto, sono spesso le donne a farsi carico di lavori pesanti e difficili, che ne debilitano la mente e il fisico. Basta pensare al carico di lavoro che una donna ha quando oltre a lavorare, deve poi occuparsi dei figli, della casa e dei genitori anziani. In quanto caregiver non beneficia di altrettanta attenzione nei confronti del proprio stato di salute, arriva più tardi ai controlli, sottovaluta spesso i sintomi premonitori di malattia. I dati epidemiologici analizzati durante la pandemia, che commenterò successivamente mostrano in modo inequivocabile l’importanza del genere, in questa crisi recente. 

Concluderei questo quadro per chiederti una precisazione. Mi sembra che la definizione dell’Oms a cui hai fatto riferimento sia del 1998. Sono quindi passati più di vent’anni e, per quanto mi riguarda non essendo un’addetta ai lavori, solo da poco tempo ho sentito parlare di questo tema. Ecco, quanto tempo è stato necessario perché la questione entrasse nel dibattito del nostro paese, non solo sul piano teorico o della ricerca, ma anche su quello delle politiche sanitarie?

In Italia il dibattito sulla medicina di genere inizia nei primi anni del 2000 ed ha ancora aspetti molto aperti sia sui fondamenti che sulle definizioni.  

All’inizio del nuovo millennio il Ministero della salute e i suoi Enti vigilati, vale a dire l’Istituto superiore di sanità, l’Agenzia italiana del farmaco, l’Agenzia nazionale per i servizi regionali sanitari, hanno formulato le prime linee guida sulle sperimentazioni cliniche e farmacologiche con un approccio di genere e hanno finanziato progetti di ricerca finalizzati. Successivamente, nel 2008, il Comitato nazionale di bioetica ha pubblicato il rapporto su La sperimentazione farmacologica sulle donne. Poi, nel 2017, è stato istituito il “Centro di Riferimento per la Medicina di Genere” che svolge attività di ricerca biomedica, di formazione e comunicazione, oltre che attività istituzionale in un’ottica di genere. Nello stesso anno si è avuto un altro fondamentale passaggio: la Conferenza dei Presidenti dei corsi di laurea in medicina e chirurgia, su proposta dell’Università di Ferrara e della Sapienza di Roma, ha approvato il progetto sperimentale di inserimento dell’approccio della medicina di genere in ogni corso e l’anno successivo è nato, presso l’Università di Ferrara, il primo Centro universitario di studi sulla medicina di genere. 

Insomma sono stati fatti passi avanti per quanto riguarda la ricerca e la formazione, mentre dal punto di vista legislativo, solo nel gennaio 2018 è stata approvata la legge (Legge 3/2018) che all’art.3 prevede la  predisposizione del “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere” nel Servizio Sanitario Nazionale, grazie alla quale per la prima volta in Italia è garantito l’inserimento del parametro “genere” nella medicina, che così potrà considerare tale determinante sia nella sperimentazione clinica dei farmaci (art.1), che nella definizione di percorsi diagnostico-terapeutici e formativi per studenti e professionisti della salute

Come viene elaborato questo piano e come si articola?

Secondo quanto previsto dalla legge, il Piano è stato pubblicato nel maggio 2019 ed è stato il  frutto di un lungo, impegnativo lavoro e della stretta collaborazione tra cinque differenti direzioni generali del Ministero della Salute, del Centro di Riferimento per la Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità, di un Tavolo tecnico-scientifico di esperti regionali in medicina di genere e dei referenti per la medicina di genere della rete degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, nonché dell’Agenzia italiana del farmaco e dell’ l’Agenzia nazionale per i servizi regionali sanitari. 

Il Piano si propone di fornire un indirizzo coordinato e sostenibile per la diffusione della medicina di genere in modo omogeneo su tutto il territorio ed è articolato in due sezioni. Nella prima, di inquadramento generale si afferma che un approccio di genere deve essere applicato in ogni branca e specialità della medicina e, contemporaneamente, si elencano alcuni settori per i quali tale diffusione è da attivare in via prioritaria, in quanto la valenza applicativa è stata già comprovata da evidenze cliniche, supportate dalla ricerca. Fra questi vengono segnalati: la farmacologia e l’utilizzo dei dispositivi medici, le malattie cardiovascolari, neurologiche, le malattie dell’osso, le malattie psichiatriche, le malattie respiratorie e autoimmuni, le malattie dermatologiche, le infezioni batteriche e virali e i vaccini.

Nella seconda parte vengono definiti i principi e gli obiettivi del Piano, la strategia di governance e le azioni per ciascuna area di intervento: dai percorsi clinici di prevenzione e diagnosi, alla ricerca e innovazione, alla formazione, alla comunicazione.

Nella strategia di governance, inoltre, viene individuato un referente regionale e si dice che è necessario istituire presso ogni regione un gruppo tecnico per la programmazione delle attività di diffusione della medicina di genere.

La legge contempla anche l’istituzione di un Osservatorio presso l’Istituto superiore di sanità con lo scopo di monitorare tutte le azioni.

È già stato istituito? 

Sì. Era previsto per il 2018 ed è stato istituito nel settembre 2020. C’è stato uno scarto di due anni, ma ce l’abbiamo fatta.

A proposito di regioni, la nostra regione – l’Emilia-Romagna- ha anticipato, come spesso è successo, le linee di intervento nazionale o c’è stato soltanto un recepimento?

No la Regione Emilia-Romagna, come è accaduto nel passato e speriamo anche nel futuro, ha anticipato di diversi anni. La nostra legge regionale, infatti, è del 2014, quindi quattro anni prima di quella nazionale. Si tratta della legge n.6 che contiene un capitolo appositamente rubricato al titolo IV “Salute e benessere femminile”. In esso, all’art. 10, si dispone che la Regione Emilia-Romagna, tutela il diritto alla salute come sancito dall’art.32 della Costituzione,  “garantendo parità di trattamento e di accesso alle cure con particolare riguardo alle differenze di genere e relative specificità; favorendo la formazione dei professionisti della sanità per garantire nell’ambito dell’assistenza un approccio che tenga conto della medicina di genere”. Tutto questo, già nel 2014. 

Ora senza citare pedissequamente tutto l’articolato, è importante mettere in rilievo il ruolo e i compiti dei soggetti istituzionali a livello regionale nell’approccio alla medicina di genere:  le  aziende sanitarie pubbliche, le aziende ospedaliere e le strutture socio sanitarie della regione devono valorizzare l’approccio di genere nella cura e nell’assistenza di donne e bambine, di uomini e bambini; offrire una informazione corretta ed equa sulle problematiche  di salute e sulle differenze di genere; promuovere l’attività di scientifica secondo l’ottica di genere, implementando percorsi di ricerca , prevenzione, diagnosi, cura farmacologica e riabilitazione orientate all’equità di genere; realizzare un’attività formativa professionale permanente con l’obiettivo di fornire la conoscenza di problematiche specifiche connesse alla diversità di genere e alla sicurezza sul lavoro. Non solo. La Regione, anche in collaborazione con l’Università, Enti e Associazioni, promuove mediante accordi campagne di comunicazione e sensibilizzazione sulla salute di genere, sulle patologie genere-specifiche, sulle differenze nella prevenzione e trattamento e la rete integrata dei servizi assume l’approccio di genere come principio informatore per la selezione dei programmi e progetti per il miglioramento dei servizi.   

Emerge qui un salto di qualità, rispetto allo stesso piano nazionale, perché si mette in rilievo un aspetto molto importante, richiamato anche nel dibattito del seminario. Vale a dire come quest’approccio debba comportare anche una riorganizzazione e trasformazione dei servizi. Quindi c’è un passaggio ulteriore, perché come ha detto la direttrice dell’Istituto ortopedico Rizzoli, Viola Damen nel corso del seminario, se non trasformiamo i servizi alla luce degli esiti della ricerca, concretamente non cambia l’esistenza delle persone che a quei servizi hanno accesso.  

Questa ultima osservazione, mi porta a un’altra domanda. Quali sono stati gli aspetti più rilevanti emersi nel seminario dal punto di vista della ricerca – ma questo già in parte l’hai detto – e dal punto di vista delle pratiche? Ti chiedo anche delle criticità. Presumibilmente a causa della pandemia alcuni percorsi hanno subito rallentamenti o non si è riusciti a coordinare immediatamente i nuovi approcci con la crisi pandemica…

Certamente tutto questo nel 2020 ha subito un duro contraccolpo, il dibattito e anche le azioni si sono in qualche modo bloccate di fronte all’emergenza. C’è stata per così dire una pausa, una parentesi e quello che è stato discusso ha in gran parte come riferimento il 2020, tuttavia progressivamente ora si sta ricominciando. 

Quanto al dibattito e alle problematicità, nel seminario sono emersi diversi aspetti. In primo luogo, come ho già detto, si è ribadito che la medicina di genere non è una medicina per le donne o sessuospecifica, ma riguarda le differenze e pone problemi di equità. Lo ripeto perché su questo ci sono frequenti fraintendimenti. 

La Direttrice Sanitaria dell’Istituto Ortopedico Rizzoli Viola Damen, referente regionale della Medicina di genere a livello nazionale, ha da subito denunciato la carenza degli studi in medicina sulle donne. Nonostante questa diversità sia la variabile più esplicita, il primo dato che si raccoglie nell’anamnesi, paradossalmente questo dato, questa variabile sono misconosciuti e sottostimati. Si studia la donna in medicina rispetto alle malattie delle donne legate agli aspetti riproduttivi, tumore al seno ( tra l’altro il tumore alla mammella colpisce anche gli uomini), all’utero, la gravidanza. Ma la medicina di genere non è le malattie delle donne e per le donne, è invece un problema di equità. Di fonte alla stessa malattia bisogna studiare quale è la differenza tra uomini e donne. Come ho già detto, uno dei settori più studiati è quello cardiologico dove si sono rilevate differenze di incidenza della malattia e dei sintomi. L’infarto miocardico si manifesta, infatti, in modo diverso e così non si diagnostica la malattia con l’urgenza necessaria. 

La medicina di genere è una tema che fa emergere le differenze e gestire queste differenze nei percorsi terapeutici e nell’accesso ai servizi rispetto a tutto il percorso di malattia, è il compito da affrontare, che dovrebbe essere recepito nel Piano di diffusione della medicina di genere a livello nazionale.

In Regione Emilia-Romagna c’è un dibattito da diversi anni sul tema delle diseguaglianze e equità e questo rappresenta una base concettuale e di tipo metodologico molto importante per affrontare il tema. 

Questo approccio colloca la medicina di genere nella cornice dei diritti delle persone e nell’ambito dell’organizzazione dei servizi per andare incontro alle persone. Per svincolare il dibattito dall’ambito dei soli medici e della clinica, dagli aspetti solo scientifici, bisogna infatti intervenire sulla organizzazione dei servizi, creare  strumenti che i professionisti possano utilizzare per cambiare le regole del gioco. 

Come ha sottolineato, la dott.ssa Damen, ci sono ambiti della medicina dove le evidenze scientifiche ci sono, dove è possibile disegnare un’organizzazione dei servizi diversa. Il che significa una diversa frequenza dei controlli, una tipologia di indagini diagnostiche da fare. Possiamo fare corsi di formazione, insegnare ai corsi all’Università, diffondere la cultura su questi temi, ma fino a quando non cambieremo i servizi, poco cambierà, non cambierà la vita concreta delle persone.

Altro tema importante è stato quello dell’equità di genere nella ricerca, equità intesa come rappresentatività del genere femminile nell’ambito degli studi clinici e non solo clinici. La rappresentatività del campione è uno dei principi cardini di qualsiasi studio e di analisi. Si dice come scusante che le donne non si fanno arruolare, peccato che gli stessi problemi si ripropongano negli studi cellulari. In quest’ultimo caso non c’è intenzionalità dell’arruolamento che tenga. Per dirlo con una battuta, anche le cellule delle donne non si fanno arruolare? 

Il risultato è che vengono fatti studi sulla popolazione che non sono rappresentativi.

Detto questo,  si sono evidenziate una serie di azioni da intraprendere. Oltre a garantire la parità della rappresentanza tra i sessi negli studi clinici, si è rilevata l’importanza di fare rete tra centri universitari, società scientifiche, Regione al fine superare la frammentazione tuttora esistente.

C’è stato poi l’intervento di Luigi Palestini, referente dell’attività definita «equità di genere», che ha ripreso l’approccio della Regione Emilia- Romagna da questo punto di vista. Palestini ha specificato come l’obiettivo sia quello di garantire una cura personalizzata che tenga conto del genere specifico nel rispetto dell’equità di trattamento sia per uomini che per donne. Ciò significa garantire pari opportunità su questo piano e il pieno potenziale di salute per ciascuna persona, senza che qualcuno rimanga svantaggiato o in condizioni di vulnerabilità. E’ stato pertanto sottolineato come il genere sia una delle variabili che va sempre considerata in relazione  ad altri fattori di vulnerabilità: dalla condizione economica, a quella lavorativa, all’età e così via. La Regione Emilia- Romagna ha da anni combinato il dibattito sulle differenze al problema delle disuguaglianze nella salute e questa è, secondo me, la strada vincente.

Passando poi alla domanda sulle azioni da attivare e implementare, anche qui sono state dette molte cose. Ancora la dott.ssa Damen ha ricordato la predisposizione da parte dell’Istituto ortopedico Rizzoli, in quanto Istituto di cura e ricerca a carattere scientifico del Gender Equality Plan per coinvolgere in modo paritario donne e uomini ricercatori/ci e lavoratori/ci per la presentazione di progetti di ricerca, assai importante proprio perché non viene garantita la parità della rappresentanza dei sessi negli studi clinici e in tutti gli studi che vengono attivati.

Un’altra azione da implementare è il fare rete tra Centri Universitari, Società scientifiche e le Regioni per la Medicina di genere. Ci sono, infatti,  esperienze frammentate che devono essere canalizzate. 

Ancora molto importante è implementare le azioni sia dove già abbiamo evidenze scientifiche, sia in quegli ambiti in cui queste differenze di genere sono meno note. 

Sempre sul piano delle azioni, sono stati riportati gli interventi svolti in Regione fino al 2020, perché dopo, come ho detto, c’è stata una sorta di un blackout.

La Regione ha istituito un tavolo di coordinamento regionale “Medicina di genere e equità”, vale a dire lo strumento di governance previsto nel Piano nazionale ma già anticipato dal Piano regionale sanitario e sociale (2017-2019). 

Al suo interno sono presenti colleghi della Regione competenti a vario titolo, referenti delle Aziende sanitarie e dell’Università. L’obiettivo era ed è di programmare laboratori regionali, predisporre una mappa di tutto quello che è stato realizzato, fare formazione e informazione, diffondere la formazione di genere a livello aziendale e predisporre documenti di indirizzo rivolti al sistema regionale dei servizi. E in effetti la mappatura delle azioni formative è stata delineata e si è rilevato come ancora un po’ carente sia la trasformazione dei servizi come risultato concreto dell’impatto della medicina di genere. È stato, inoltre, individuato un territorio di riferimento in termini laboratoriali che è quello di Ferrara, dove è nato il Centro sulla medicina di genere prima ricordato, un Centro che lavora in stretta collaborazione sia con l’azienda ospedaliera, sia con l’azienda sanitaria. Sono stati realizzati alcuni laboratori sui temi della prevenzione cardiovascolare e stroke, diabete, salute riproduttiva e scompenso epatico. L’obiettivo finale di queste azioni era di predisporre un documento, una sorta di vademecum di tutto ciò che era stato realizzato e di ciò che era necessario realizzare, ma con il 2020 tutto questo è stato sospeso.

A questo proposito, rispetto alla crisi pandemica, nel corso del seminario si è parlato del suo impatto in termini di genere, o detto altrimenti, si è confermato come risulta dalle prime analisi, che le ricadute sono state più pesanti per le donne? 

Sì. Chiara Di Girolamo e Giuliano Carrozzi hanno presentato gli studi di epidemiologia sociali effettuati in Regione Emilia Romagna, studi che hanno dato risultati significativi. Ci hanno spiegato che quando si fanno studi questo tipo vengono raccolti i dati per differenze di sesso come proxy di genere, per valutare l’impatto che le variabili sociali, politiche e economiche hanno sulla salute. Uno degli indicatori presi in considerazione per lo svantaggio sociale è stato il livello di istruzione perché è il più stabile e rilevabile. Hanno inoltre sottolineato, come ho ripetuto più volte, che la differenza  di genere è una delle possibili diseguaglianze in quanto ci sono altri fattori sociali, politici e economici che impattano sulla salute e definiscono la vulnerabilità, ad esempio donne di colore e con bassa istruzione piuttosto che uomo nero con bassa istruzione.

Fatta questa premessa, dalla loro presentazione è emerso che le donne hanno un migliore stato di salute degli uomini confermato da una più lunga aspettativa di vita e che le diseguaglianze di salute osservate in termini di mortalità generale e speranza di vita fra le donne meno istruite e quelle più istruite sono più piccole rispetto alle stesse differenze riscontrate negli uomini. Tuttavia, è emerso anche come questo vantaggio si stia restringendo nel tempo. 

La pandemia da Covid -19 sembra aver contribuito, durante il primo picco pandemico ad esacerbare le disuguaglianze tra le donne e a rendere più ampia a quella che si registra con gli uomini: le disuguaglianze sociali nell’accesso alle cure ospedaliere durante i primi 7 mesi della pandemia in Emilia-Romagna sono infatti risultate più forti tra le donne. Ciò potrebbe essere, in parte legato, al loro ruolo di caregiver e, di conseguenza, alla messa in secondo piano dei bisogni personali di salute rispetto alla necessità di cura familiare drasticamente mutate a seguito del lockdown e della riorganizzazione della vita lavorativa, scolastica e sociale.  

Per completare il quadro degli studi svolti dalla Regione Emilia-Romagna che permettono di riconoscere le differenze di genere nello stato di salute, i colleghi epidemiologi commentano alcuni risultati emersi dai sistemi di sorveglianza su stili di vita e salute della popolazione nazionale, utilizzando come indicatori di svantaggio sociale le difficoltà economiche e il livello di istruzione. Ci dicono che le donne riferiscono un peggior stato di salute rispetto agli uomini e l’associazione con bassa istruzione e difficoltà economiche è differente nei due sessi, a svantaggio delle donne. Ci dicono inoltre che ci sono più donne in condizioni di fragilità e disabilità. Anche i sintomi di depressione mostrano uno svantaggio femminile, anche per questo fattore sono più forti le associazioni con la bassa istruzione e le difficoltà economiche. 

Per concludere, ti volevo fare un’ultima domanda. Questo seminario che ci hai così ampiamente raccontato, è stato organizzato da un’associazione femminista, l’associazione Orlando. Ora come vedi l’interlocuzione da parte delle associazioni, Orlano o altre, rispetto a queste tematiche?

Chiaramente qui ci confrontiamo con diverse Istituzioni ( Regione, Aziende sanitarie, Ministero della salute, Università) che hanno competenze in materia di medicina di genere  e che devono collaborare in termini interdisciplinari tra di loro per attivare azioni e implementarle. Quindi le associazioni, Orlando o altre devono avviare un dialogo con le Istituzioni e il loro compito non può che essere quello di promuovere, facilitare questo dibattito sapendo che ci sono delle sedi istituzionali che possono recepire proposte, iniziative, azioni, pratiche già diffuse sul territorio. Quindi la promozione del dialogo con le Istituzioni al fine di avanzare proposte e azioni è, secondo me, la prima linea d’intervento. Si può poi prevedere la partecipazione ai percorsi di co-partecipazione intorno alle politiche per la salute, alle politiche dei servizi, alla costruzione di sinergie tra bisogni di salute e cura. Già in Emilia-Romagna ci sono state alcune esperienze come l’assemblea per la salute di Corticella, il Centro per la salute interculturale, vale a dire iniziative di base alle quali hanno partecipato cittadini, studenti, case della salute e penso che ci si possa inserire in questo dibattito come associazione femminista e come altri soggetti interessati alle politiche per la salute.

Certamente, dato il tipo di competenze in gioco, il ruolo fondamentale è delle istituzioni. Tutte le azioni da intraprendere che ho prima indicato vedono nell’istituzione competente un ruolo propulsivo, sono azioni macro, di sistema che prevedono proprio per il tema stesso e la pluralità dei fattori che interagiscono un approccio complesso e interdisciplinare, tuttavia come associazioni è possibile inserirsi nei diversi momenti, promuovere incontri a livello regionale sia con il gruppo di coordinamento, sia nel momento di definizione delle reti per cercare di rientrare tra i soggetti invitati a farne parte in un’ottica di coinvolgimento dal basso. Poi, come ho già detto, assai importante può essere il coinvolgimento nei percorsi di co-partecipazione.

C’è anche un problema di diffusione, di consapevolezza tra cittadine e cittadini di queste tematiche perché secondo me ancora oggi la medicina di genere è questione che pochi conoscono. Da questo punto di vita penso possa essere molto utile un’azione di diffusione culturale, di divulgazione in senso alto… 

Certamente, noto tra l’altro che ultimamente si stanno moltiplicando i momenti di riflessione. Ad esempio nella Regione Lazio è stato costituito un gruppo di riflessione interdisciplinare, a Modena c’è un’altra iniziativa promossa in questo caso dalle donne del Partito Democratico.

Come le istituzioni avvertono l’esigenza di affrontare il tema in modo interdisciplinare e nella prospettiva di fare rete, allo stesso modo noi associazioni, sensibili alla medicina di genere dovremmo fare rete tra di noi a livello interregionale per promuovere il dibattito in primo luogo sul piano culturale, sensibilizzando l’opinione pubblica e cercando di intervenire sulle informazioni e sui servizi. Lo possiamo fare autonomamente diventando così uno strumento di pressione e di promozione non solo di dibattiti, ma anche di altri interventi normativi magari maggiormente vincolanti, sulla base delle nostre esperienze.  Si tratta di un dibattito ancora molto aperto, in cui anche i fondamenti e le definizioni sono aperte.

Per concludere su questo aspetto ci sono due versanti: da una parte quello di iniziativa autonoma in cui, tra le altre cose, possiamo proporre reti a livello nazionale come base per futuri interventi anche normativi; dall’altra il versante del dialogo con le istituzioni attraverso la promozione di incontri e la presenza nei processi partecipativi intorno alle politiche sulla salute. Questa, mi sembra, in sintesi una strategia possibile di intervento.

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