Verso quale “Chiesa sinodale”?
di Alberto B. Simoni, OP
da Koinonia forum novembre 2022
La macchina sinodale avanza trionfalmente – o trionfalisticamente – di tappa in tappa, e ora si sta andando verso la Tappa Continentale con un nuovo Documento di lavoro della Segreteria generale del Sinodo del 24 ottobre 2022. Certo, rimane tutto da vedere, ma non si può nascondere che leggere questo documento porta allo sconforto, non perché faccia emergere lo stato di crisi che è sotto gli occhi di tutti, quanto piuttosto per quel che rivela della involuzione interna alla chiesa, che non è più soltanto il classico ecclesiocentrismo istituzionale, ma autocompiacimento senza memoria e senza futuro, tutto concentrato sul proprio presente. Siamo completamente fuori della storia, pronti ad esprimere il proprio entusiasmo per una “sinodalità” a carattere colloquiale ed intimista (“la conversazione spirituale” ne è il fulcro!), al tempo stesso in cui ci si lascia andare alla ripetizione di problemi inerenti all’aspetto gestionale per lo più delle parrocchie.
Di questa deriva sarà giocoforza occuparsi seriamente per non correre il rischio di esserne corresponsabili. Ma per il momento basti segnalare una incongruenza e una carenza veramente preoccupanti: la marginalizzazione e quasi la cancellazione del Concilio Vaticano II dall’ordine del giorno della Chiesa, qualcosa che potrebbe preludere alla sua sparizione dai radar della coscienza ecclesiale. Prima però di andare a vedere come del Concilio si parli – o nnon si parli – nel Documento di lavoro per la Tappa continentale è bene ricordare che in questo modo il Sinodo – a parte l’enfatizzato ascolto dal basso – viene meno alla sua finalità primaria, che è appunto quella di metabolizzare la lettera e lo spirito del Vaticano II nel corpo della chiesa.
Nella sua riflessione per l’inizio del percorso sinodale (9 ottobre 2021), papa Francesco dice tra l’alto: “Le parole-chiave del Sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione. Comunione e missione sono espressioni teologiche che designano il mistero della Chiesa e di cui è bene fare memoria. Il Concilio Vaticano II ha chiarito che la comunione esprime la natura stessa della Chiesa e, allo stesso tempo, ha affermato che la Chiesa ha ricevuto «la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio» (Lumen gentium, 5)”. Se si pensa di ridurre questo impegno veramente epocale ad una sinodalità senz’anima e fine a se stessa, siamo al tradimento degli stessi intenti del Sinodo dei Vescovi. Sempre il Papa nel suo discorso mette in guardia da alcuni rischi quali il formalismo, l’intellettualismo, l’immobilismo, e quindi bisognerebbe verificare l’andamento dei lavori anche da questo punto di vista, magari avendo presente anche il rischio di fraintendimenti pericolosi. Si può dire infatti che nel Documento proposto c’è tutto e il contrario di tutto!
Per di più, lo stesso Segretariato generale del Sinodo, che ha emanato il Documento di lavoro, per lo scadere dei 60 anni dell’apertura del Concilio ha lanciato un messaggio in cui si dice: “Scopo del Sinodo era e rimane quello di prolungare, nella vita e nella missione della Chiesa, lo stile del Concilio Vaticano II, nonché di favorire nel Popolo di Dio la viva appropriazione del suo insegnamento, nella consapevolezza che quel Concilio ha rappresentato «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX» (Giovanni Paolo II, lett. ap. Novo millennio ineunte, 6 gennaio 2001, 57). Un compito lungi dall’essere esaurito, visto che la recezione del magistero conciliare è un processo in atto, addirittura per certi aspetti ancora agli inizi… Anche il processo sinodale in corso, dedicato a «La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa», si situa nel solco del Concilio. La sinodalità è in tutto un tema conciliare, ancorché tale termine – di conio recente – non si trovi espressamente nei documenti dell’assise ecumenica. La magna charta del Sinodo 2021-2023 è la dottrina del Concilio sulla Chiesa, in particolare la sua teologia del Popolo di Dio, un Popolo che «ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali lo Spirito Santo dimora come in un tempio» (Lumen gentium 9).
Questo negli intenti e nelle dichiarazioni, ma quanto nel processo sinodale in corso? Ci sarebbe da mettere a confronto quello che con P. Chenu abbiamo chiamato “Concilio profetico”, e il suo controverso compiersi, con la scelta e lo sviluppo attuale del Sinodo. Ma tutto questo è prematuro, mentre è possibile vedere se e come il Concilio è inteso nel Documento di lavoro proposto per la fase continentale del Sinodo.
C’è un vizio di fondo da far presente subito: che come base di partenza non c’è il Vaticano II nel suo valore profetico, né c’è la situazione critica della chiesa sul piano storico. C’è la chiesa esistente, diciamo “praticante”, che pensa di essere la messa in opera del Concilio sia nel suo attuale assetto pastorale e gestionale, e sia anche nel nuovo formulario dell’ecclesialese, senza che si guardi a quella modificazione radicale prevista col Vaticano II e richiesta dal cambiamento d’epoca: problemi seri sul tappeto e non da ora. Ma sembra che tutto si riduca all’ascolto gli uni degli altri in una “conversazione spirituale”, da cui dovrebbe scaturire – secondo gli intenti dichiarati – un modello di chiesa pronto alla missione: dove sembra che giochi molto la suggestione di gruppo e un atteggiamento volontaristico che ignora il cammino fatto, perché sinodalità è anche storia. In questo caso avremmo ancora un vangelo a misura della chiesa e non una chiesa a misura di vangelo! E per quanto si ragioni in termini continentali, tutto avviene con un respiro molto domestico e “parrocchiale”, si potrebbe perfino dire campanilistico, nonostante dichiarazioni in contrario.
Ma venendo al Documento di lavoro, al n.2 si riprendono le parole che fissano lo scopo generale del Sinodo fin dalla sua partenza: “Come si realizza oggi, a diversi livelli (da quello locale a quello universale), quel “camminare insieme” che permette alla Chiesa di annunciare il Vangelo, conformemente alla missione che le è stata affidata? E quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere come Chiesa sinodale?» (Documento Preparatorio, n. 2). In sostanza, si tratterebbe di trasformare la chiesa intera in un corpo di evangelizzazione davanti ad un mondo altro da come era nei confronti di una chiesa docente e catechizzante. Diciamoci francamente che a questo scopo non sono mancate indicazioni e precedenti, e se ora siamo a chiederci giustamente come fare, sarebbe bene ci dicessimo come sono andate le cose fino ad ora e da cosa è dipeso questo ritardo non solo di secoli per quanto riguarda la presenza della chiesa nella storia, ma anche rispetto alle sue scelte e tentativi di riguadagnare terreno, appunto nel Vaticano II, che rimane una “rivoluzione copernicana” incompiuta.
Naturalmente, a parte gli intenti di sempre, sarà tutto da vedere; ma è chiaro da subito che difficilmente si potrà arrivare a simili risultati sulla base di una “conversazione spirituale” prevalentemente interna. Sembra estremamente difficile, infatti, che una consultazione di gruppo dal basso, come esercizio di sinodalità spontanea in un contesto avulso da una reale dimensione di fede, possa avere una “carica del tesoro squisitamente teologico contenuto nel racconto dell’esperienza di ascolto della voce dello Spirito da parte del Popolo di Dio, consentendo di far emergere il suo sensus fidei”. (DTC n.8) Così come è impensabile che simile consultazione del Popolo di Dio nelle Chiese locali possa identificare “i capisaldi di quella che costituisce una autentica esperienza collettiva della fede cristiana”. Si vorrebbe che dalla sinodalità emergesse quel sensus fidei, da cui la sinodalità dovrebbe scaturire! Come uscire da questo circolo vizioso, se non ritrovando e ricreando questo sensus fidei su basi diverse?
Non c’è proporzione tra il compito epocale prefissato e le metodologie adottate, tant’è non ci sono prove in contrario nei contenuti del Documento di lavoro. Diciamo pure che siamo in linea col Concilio, ma solo materialmente col “Concilio reale”, e cioè quello che si è sedimentato quasi per forza d’inerzia nel corpo statico della chiesa, ad esclusione dei fermenti via via espunti negli anni, per riportare tutto nell’alveo della ufficialità e del controllo. Quanto questa storia è presente in quanti pensano di stare vivendo il Concilio nel Sinodo? Del Vaticano II nel Documento di lavoro si fa cenno en passant e in maniera del tutto marginale: al n. 38, quando si parla di quanti si sentono esiliati ed esclusi e provano nostalgia di una casa comune, e si precisa che tra questi ci sono quanti “non si sentono a proprio agio a seguito degli sviluppi liturgici del Concilio Vaticano II”. Un modo velato per dire che il Concilio stesso è motivo di esilio? E al n. 48, a proposito di ecumenismo, quando si afferma che “dal Concilio Vaticano II in poi il dialogo ecumenico ha compiuto progressi… Tuttavia, molte questioni ecumeniche relative alle strutture sinodali e ai ministeri nella Chiesa non sono ancora ben articolate”.
Questo non vuol dire necessariamente che il Vaticano II sia accantonato, ma può voler dire che si ritiene superato dagli eventi in senso cronologico, e che il Sinodo ne è di fatto un prolungamento nel tempo, secondo il detto “chiodo schiaccia chiodo”. Ma più probabilmente vuol dire che in senso strettamente “ecclesiale” il Concilio si ritiene compiuto o quasi come operazione interna, soottovalutando completamente il fatto che all’ordine del giorno di quell’evento profetico c’era il mondo, e che esso ha posto semplicemente le premesse per uscire dall’ecclesiocentrismo, dal clericalismo, dell’autoreferenzialità, dal “tridentinismo, da tutto ciò che nel Sinodo si pone come traguardo nelle intenzioni, ma che poi viene fatto rientrare nei fatti.
Una chiara riprova di questa involuzione anche di contenuti si registra ai nn. 88-97 del Documento, quando si parla di “Vita sinodale e liturgia”. Per un verso si arriva ad affermare che “nella nostra chiesa è opportuna una forma liturgica”, come se nulla fosse successo e non dovesse essere proprio l’ambito liturgico il luogo naturale in cui maturare ed esercitare una sinodalità, preferibilmente meno emozionale e frutto di una condivisione effettiva di fede. Ma se poi andiamo a vedere come può essere intesa questa riforma, ci troviamo di fronte ad un ritorno indietro sulla via che il Vaticano II ha aperto in primo luogo proprio in campo liturgico. Infatti “i contributi sottolineano due modalità da sviluppare in vista di un cammino sinodale: l’unità della comunità e la gioia di vivere. Questo cammino passerebbe attraverso i grandi raduni liturgici (pellegrinaggi…), per alimentare la pietà popolare, rinnovare la fede, nutrire il sentimento di appartenenza, e quindi accompagnare meglio i cristiani affinché testimonino il Vangelo della carità di fronte al comunitarismo e al ripiegamento identitario, sempre più visibili e aggressivi” (n.89)
Si denuncia proprio quello che si sta favorendo senza neanche accorgersene (il comunitarismo e il ripiegamento identitario), ma non si esita a registrare che “il legame con la Chiesa di molti battezzati passa soprattutto attraverso il fenomeno della religiosità popolare. […] Molte persone la considerano un segno di appartenenza alla Chiesa; per questo, dobbiamo promuover[la] ed evangelizzar[la], in vista di una partecipazione più intensa e di una incorporazione consapevole nella vita cristiana”. Quindi una “religiosità popolare” identitaria, da promuovere e da evangelizzare “in vista di una partecipazione più intensa e di una incorporazione consapevole nella vita cristiana”. Questo è quanto, e tutto sembra tornare come la cosa più normale che ci sia.
La tendenza è sempre all’introversione, e allora non sorprende che “l’esperienza delle Chiese registra anche nodi di conflitto, che devono essere affrontati in modo sinodale, quali il discernimento del rapporto con i riti preconciliari: «Le divisioni sulla celebrazione della liturgia si sono riflesse nelle consultazioni sinodali. “Purtroppo la celebrazione dell’Eucaristia è vissuta anche come motivo di divisione all’interno della Chiesa. In ambito liturgico, la questione più comune è la celebrazione della Messa preconciliare”. Ci si lamenta delle limitazioni all’utilizzo del Messale del 1962” (n.92)
Queste annotazioni non fanno che segnalare una problema e un rischio: e cioè che pensando di andare avanti sulla spinta del “vogliamoci bene” e dell’”embrassons-nous”, ci si ritrovi senza volerlo ad un ritorno su se stessi e su posizioni di chiesa preconciliare, facendola passare come ultimo grido nella modernizzazione, che è di fatto una “mondanizzazione” di forme, di stili, di abitudini e di successo. Che sarebbe la tomba del Concilio Vaticano II. Di qui
Se ci sono ancora in giro quanti hanno creduto e sperato soffrendo per il Concilio, sono pronti a dire che la chiesa proiettata da allora nel futuro ha poco o nulla a che fare con quella che emerge dal Documento di lavoro del Sinodo? Non basta che la continuità venga stabilita attraverso le persone nel quadro gestioniale delle istituzioni riconosciute, di preferenza “parrocchie”. Abbiamo dimenticato la crisi della “parrocchia” provocata a ragion veduta dall’afflato conciliare e rimessa via via al centro di una “conversione pastorale” tutta ancora da inventare?
P.Alberto B. Simoni op