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Maternità surrogata: il silenzio a sinistra

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Maternità surrogata: il silenzio a sinistra

31-03-2023 – di: Valentina Pazé*, da “volere laluna”

Depositatosi, almeno per il momento, il polverone generato dallo stop del Governo all’iscrizione anagrafica dei figli delle coppie omosessuali, impropriamente associato allo spauracchio della maternità surrogata, è forse possibile provare a ragionare pacatamente su questi temi, a partire da alcuni punti fermi.

Primo. Le due questioni (diritti dei bambini delle coppie omogenitoriali e regolamentazione della maternità surrogata) sono concettualmente diverse e vanno tenute separate. È possibile stare a fianco del mondo lgbtq quando rivendica il matrimonio paritario, il diritto all’adozione e il pieno riconoscimento dei diritti dei bambini delle “famiglie arcobaleno”, e opporsi alla legalizzazione della maternità surrogata nel nostro paese, insieme a una parte non piccola della stessa galassia lgbtq (come, in Italia, Arcilesbica). Sul piano teorico, è possibile anche l’inverso: difendere la famiglia tradizionale e ritenere accettabili i contratti di surrogazione di maternità, se è vero che oggi sono soprattutto coppie eterosessuali a ricorrere a questo strumento, che in alcuni paesi è consentito solo a loro e/o a coppie regolarmente sposate.

Secondo. La destra – questa destra, ultra-liberista sul piano economico e oscurantista sui diritti di libertà – non ha alcuna credibilità e alcun titolo a intestarsi una battaglia contro la mercificazione del corpo femminile e lo sfruttamento delle donne vulnerabili. Non finché continuerà a fare la guerra ai poveri (e alle povere), a disinteressarsi dei drammi delle donne migranti, a lucrare facili consensi sulle “borseggiatrici rom” detenute, alle quali vorrebbe addirittura togliere i figli… A intestarsi una battaglia contro lo sfruttamento del corpo femminile – o per lo meno ad aprire una discussione seria e approfondita su questo tema – dovrebbe invece essere la sinistra, che nel nostro paese (ma non in altri: vedi France Insoumise o Podemos) sulla maternità surrogata appare reticente, ambigua, contraddittoria. Apparentemente incapace di andare oltre i “non è all’ordine del giorno” o “i tempi non sono maturi”.

Cerchiamo allora di capire che cos’è la maternità surrogata, o gestazione per altri (solo per comodità, di qui in poi anche gpa), concentrandoci sulla versione “solidale e altruistica” che una proposta di legge depositata in Parlamento nella scorsa legislatura dall’associazione Luca Coscioni, firmata anche da Nicola Fratoianni, vorrebbe introdurre nel nostro paese.

In che cosa si distinguono la forma commerciale e quella altruistica? Teoricamente, la differenza è chiara. Nel primo caso la prestazione della donna che accetta di ospitare nel proprio utero uno o più embrioni ottenuti attraverso le tecniche della fecondazione in vitro, portare avanti la gravidanza e partorire, per poi consegnare il bambino ad altri, viene pagata. Nel secondo caso si prevede solo un rimborso spese. Di fatto, però, nei paesi in cui la gpa altruistica è legale, l’entità del rimborso, largamente indefinita e spesso destinata a coprire anche i mancati guadagni di donne che nel momento in cui hanno sottoscritto il contratto erano disoccupate o lavoratrici part time, tende ad attestarsi su cifre paragonabili a quelle della gpa commerciale. Il motivo è semplice. Se davvero si riconoscesse alla gestante un semplice rimborso spese, senza alcun margine di guadagno, di donne disponibili a sobbarcarsi le fatiche di una gravidanza particolarmente pesante e rischiosa anche sul piano fisico (perché ottenuta attraverso ovodonazione) sarebbero poche. Come poche sono le “donatrici” di ovociti nei paesi in cui il rimborso è esiguo. A queste condizioni, oltretutto, le agenzie che stanno dietro la stessa gpa solidale, che (quasi) solo nei film coinvolge sorelle e amiche carissime (e altrettanto carissimi amici gay), ma nella realtà riguarda persone sconosciute che si incontrano attraverso un’intermediazione commerciale, non riuscirebbero a stare sul mercato e a sopravvivere alla concorrenza internazionale.

A distinguere la gpa altruistica da quella commerciale – si potrebbe immaginare – dovrebbe poi essere la natura della relazione che si instaura tra la donna che si candida a portare avanti la gravidanza, da una parte, e i “genitori intenzionali”, dall’altra. In realtà anche da questo punto di vista non è dato osservare differenze. Anche nella gpa altruistica i rapporti tra le parti sono minuziosamente normati da un contratto, che vincola la gestante a seguire un certo stile di vita, sottoporsi a controlli e visite mediche, farsi seguire da una psicologa. Tra le questioni spinose che devono essere regolamentate c’è quella del diritto di abortire (o non abortire, nel caso si prospetti la necessità di interventi, non infrequenti, di riduzione embrionale). A chi spetterà l’ultima parola, se la gestante va intesa solo come una “portatrice” di un figlio non suo? Anche là dove – come fa il progetto di legge Coscioni – si attribuisca esplicitamente alla donna la decisione ultima, non è chiaro se i contratti possano prevedere forme di risarcimento (effettivamente contemplate negli Stati Uniti) a favore dei “genitori intenzionali”. Ed è facile immaginare che possano esserci indebite pressioni sulla gestante. Ma il contratto serve soprattutto a vincolare la puerpera a consegnare il bambino che ha partorito, rinunciando a qualsiasi pretesa nei suoi confronti. Questo strano obbligo, che cozza con l’idea intuitiva di “dono”, è stabilito anche dal progetto di legge Coscioni, che rinvia a un tribunale il compito di dirimere eventuali controversie tra le parti. L’esperienza di altri paesi insegna che, in questi casi, i giudici attribuiscono il bambino ai “genitori intenzionali” che (guarda caso!) sono in grado di garantirgli condizioni di vita più agiate della madre naturale.

L’eventualità che la gestante possa cambiare idea, dopo un’esperienza emotivamente coinvolgente come la gravidanza e il parto, non è tuttavia peregrina ed è ben presente a chi si occupa professionalmente di gpa. In Portogallo la legge del 2017, che ha legalizzato la forma altruistica, rimarca «l’importanza di salvaguardare il legame del bambino con la madre genetica [in realtà inesistente prima del parto], riducendo al minimo nel corso dell’esecuzione del contratto la relazione tra la madre surrogata e il bambino, in considerazione dei potenziali rischi psicologici e affettivi connessi a tale relazione» [sic!]. Proprio per scongiurare tali rischi le agenzie ricorrono a tutta una serie di tecniche, tese a evitare che gli ormoni della gravidanza, assolvendo al loro compito, favoriscano l’attaccamento tra madre e bambino. In India le gestanti, ricoverate per l’intera durata della gravidanza in appositi ostelli, si sentono ripetere continuamente che “sono uteri”, o che l’utero è uno “spazio vuoto” di cui sono proprietarie, che può essere temporaneamente affittato per ospitare bambini altrui. In Israele si invitano le “portatrici” ad evitare accuratamente di toccarsi la pancia quando i movimenti del feto iniziano ad essere avvertibili. Altrove si punta a deviare l’affettività della gestante dal bambino in formazione nel suo ventre al singolo, o alla coppia, di cui è la “benefattrice”. Come spiega un imprenditore del settore, quando tutto funziona a dovere, «la surrogata si lega alla coppia e non al bambino; quando la surrogata rinuncia al bambino, non prova ansia da separazione per questo, ma perché perde la coppia» (A. Phillips, Our Bodies, whose property?, Princeton University Press, 2013, p. 89). Ecco allora l’invito a non isolarsi, a partecipare a gruppi di auto-aiuto, ad avvalersi di un supporto psicologico (previsto obbligatoriamente per tutto il periodo della gravidanza anche dal progetto di legge Coscioni). Alla faccia della libera scelta – viene da dire – e della difesa della maternità surrogata in chiave di autodeterminazione delle donne…

Ce n’è abbastanza, credo, per far sorgere qualche dubbio sulla visione idealizzata della gpa altruistica come alternativa a quella commerciale. E per accorgersi che legalizzare la gpa, in qualsiasi sua forma, al di là di quella fin d’ora possibile (quando una donna non riconosce il bambino al momento del parto e lo fa, al suo posto, il padre genetico) significa spalancare le porte a un lucroso mercato fatto di cliniche, agenzie, consulenti legali e psicologiche. Un mercato che non recluterà certo le sue “volontarie” tra le donne benestanti, con un buon livello d’istruzione e un lavoro appagante… Davvero tutto ciò non pone problemi a sinistra?

  • docente di Filosofia politica nell’Università di Torino
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