Il 52% dei medici internisti e il 45% degli infermieri è in burnout: uno su due pensa di licenziarsi
FADOL, DOTTNET | 07/05/2023 16:06
Il risvolto positivo della medaglia: la stragrande maggioranza dei professionisti sanitari ancora gratificata dal proprio mestiere e dal rapporto con i pazienti. L’indagine presentata al 28° Congresso Nazionale Fadoi
Depressi, stressati e in perenne carenza di sonno per orari di lavoro che vanno ben oltre il lecito, carichi di lavoro impossibili da gestire. Il tutto aggravato da mancanza di riconoscimento del valore di quanto con competenza professionale si fa, un numero di pazienti per medici e posti letto che rende quasi impossibile instaurare un rapporto empatico con i pazienti e la burocrazia che rende tutto ancora più difficile. C’è questo e di più in quello che in gergo tecnico si definisce “Sindrome da burnout”, quell’insieme di sintomi determinati da uno stato di stress permanente con il quale devono vivere il proprio lavoro il 52% dei medici e il 45% degli infermieri che prestano la loro opera nei reparti ospedalieri di medicina interna. Quelli che da soli assorbono un quinto di tutti i ricoveri in Italia. Una minaccia per la loro salute ma anche per quella degli assistiti, visto che lavorare quando si è in burnout significa alzare di molto le possibilità di commettere un errore sanitario, che in Italia sarebbero circa 100mila l’anno.
A fornire la fotografia di medici e infermieri “sull’orlo di una crisi di nervi” è la survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di oltre duemila professionisti sanitari e presentata a Milano al 28° Congresso Nazionale della Federazione
In totale a dichiararsi in “burnout” è il 49,6% del campione ma la percentuale sale al 52% quando si parla di medici, per ridiscendere al 45% nel caso degli infermieri. E in entrambi i casi l’incidenza è più del doppio tra le donne, dove permane la difficoltà di coniugare il tempo di lavoro con quello assorbito dai figli e la famiglia in genere. Anche se poi c’è un inedito e positivo rovescio della medaglia, costituito dalla larga maggioranza di medici e infermieri ancora gratificati dal proprio lavoro e dal rapporto con i pazienti.
Ad influire sullo stato di stress cronico è anche il fattore età, visto che sotto i trent’anni la percentuale di chi è in burnout cala al 30,5%. Fatto è che proiettando i dati più che significativi delle medicine interne sull’universo mondo dei professionisti della nostra sanità pubblica abbiamo oltre 56mila medici e 125.500 infermieri che lavorano in burnout. E che per questo motivo incappano in qualche inevitabile errore. Uno studio condotto dalla Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota ha rilevato almeno un errore grave nel corso dell’anno nel 36% dei camici bianchi in burnout. Percentuale che proiettata sul totale dei nostri medici da un totale di oltre 20mila errori gravi.
Discorso analogo per gli infermieri. Qui una serie di studi internazionali raccolti dalla Fnopi, la Federazione degli ordini infermieristici, stima siano addirittura il 57% gli errori clinici più o meno gravi commessi nell’arco di un anno. Dato che applicato sul numero degli infermieri pubblici operanti in Italia in burnout da altri 71.500 errori in fase di assistenza per un totale di almeno di 92mila, sicuramente qualcuno in più considerando che uno stesso operatore può essere incappato in più di un errore nel corso dell’anno.
Lavorare sotto stress fa male agli assistiti ma anche a chi ce l’ha
. L’influenza del burnout sulle malattie professionali è un fatto oramai acclarato dalla letteratura scientifica. Il rischio di infarto del miocardio e di altri eventi avversi coronarici è infatti circa due volte e mezzo superiore in chi è in burnout, mentre le minacce di aborto vanno dal 20% quando l’orario di lavoro non supera le 40 ore settimanali salendo via via al 35% quando si arriva a farne 70. Evento sempre meno raro con il cronico sottodimensionamento delle piante organiche ospedaliere.
Che lavorando a ritmi e condizioni spesso insostenibili si finisca alla fine per somatizzare lo dimostra il fatto che il 61% de medici testati da Fadoi conclude la sua giornata lavorativa sentendosi “emotivamente sfinito”. Percentuale che scende al 48,4% tra gli infermieri. Quasi il 50% di medici e infermieri in burnout pensa di licenziarsi entro l’anno E il problema si fa ancora più sentire quando si ricopre un ruolo di responsabilità. Tra i coordinatori infermieristici il 45% è infatti in burnout e la stessa percentuale pensa di licenziarsi entro l’anno, lasciando così ancora più sguarnita la trincea del pubblico, magari per andare a rinforzare quella del privato o di qualche altro Paese, dove le retribuzioni arrivano ad essere anche il doppio di quelle del nostro Ssn.
Senso di frustrazione, sensazione di non riuscire ad andare avanti e senso di colpa per avere dovuto trascurare qualche paziente sono tra i sentimenti più ricorrenti tra i coordinatori infermieristici. Percentuali appena più basse si rilavano tra i coordinatori medici, dove in burnout è il 31,8%, mentre la percentuale di chi pensa di licenziarsi entro l’anno è del 47,4%. Qui a sentirsi “emotivamente sfinito” è l’80% del campione, mentre il senso di frustrazione accompagna il 60% di loro e il 70% sente di non poter assolvere adeguatamente ai propri compiti. Percentuali simili a quelle rilevate per i medici in corsia, dove però scende al 53% la sensazione di trattare adeguatamente in modo troppo impersonale i propri pazienti.
Il risvolto positivo della medaglia: professionisti sanitari ancora motivati e gratificati dal loro lavoro
La ricerca Fadoi contiene però anche un positivo e inedito rovescio della medaglia. Nonostante le difficili se non impossibili condizioni di lavoro e il risvolto che queste hanno su psiche e salute dei professionisti sanitari, tanto la stragrande maggioranza dei medici che quella degli infermieri ”sente di aver affrontato efficacemente i problemi dei propri pazienti” e di “aver realizzato molte cose nel corso della propria attività lavorativa”. Mentre nello specifico l’84% dei camici i bianchi “crede di influenzare positivamente la vita delle altre persone con il proprio lavoro” e nel 73% dei casi si sente “rallegrata dopo aver lavorato con i propri pazienti”. “E’ proprio da questo senso di attaccamento alla propria mission e dalla realizzazione di se in un lavoro che nonostante tutto e tutti salva vite e aggiunge qualità agli anni di ciascuno che bisogna ripartire se veramente si ha a cuore il destino della nostra sanità pubblica”, commenta Dentali. “E per farlo occorre rendere nuovamente attrattive tra i giovani tanto la professione medica che quelle infermieristica. Portando a un livello di dignità professionale retribuzioni che sono tra le più basse d’Europa, ma riqualificando anche formazione e condizioni lavorative.
“Il lavoro sanitario ai tempi del burnout nuoce tanto alla salute dei cittadini che a quella di medici e infermieri”, commenta a sua volta il presidente della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto. “Un problema -prosegue- tanto più sentito nei reparti di medicina interna, che una anacronistica e vetusta classificazione ministeriale con il codice 26 definisce ancora a bassa intensità di cura, quando basta scorrere l’elenco delle cartelle cliniche per capire che i nostri sono pazienti complessi che necessitano di medio-alta intensità di cura”. “Un problema che sembra di natura burocratico-amministrativa m che in realtà si traduce in una sotto dotazione sia in termini di organico che di tecnologia”, conclude Manfellotto. Che chiede di “ridefinire gli standard di personale sanitario ancora vincolati a un vecchio decreto emesso da Donat Cattin”.