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Il Mortara di Bellocchio: quello che accadde può farci percepire il peso inguaribile

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    Il Mortara di Bellocchio   Mettiamo in questo spazio la recensione di Arianna Prevedello a Rapito del regista emiliano anche perché il film nasce e segue da vicino un libro, quello di Daniele Scalise, Il caso Mortara (Mondadori, Milano 22023). La vicenda del bolognese Edgardo Mortara, per altro non l’unico, è molto noto: a 6 anni, il 23 giugno 1858, venne sottratto alla famiglia ebrea dal maresciallo Lucidi per conto dello Stato pontificio (nel cui territorio al momento la città felsinea si trovava) e fu portato a Roma sotto la custodia di papa Pio IX, per esser allevato come cattolico.   Perché? Perché a un anno di vita la quindicenne domestica Nina Morigi lo aveva battezzato di nascosto, una sera che aveva la febbre per evitare che, come le aveva detto il droghiere, sarebbe finito nel Limbo, luogo dove le anime dei bambini non battezzati erano destinati a vagare, secondo il catechismo d’allora.   Il film pone in luce la «leggerezza» del gesto della domestica (che solo la povertà aveva portato a vivere tra «non cristiani»), il dramma della famiglia ignara, la rassegnazione del maresciallo a fronte della «pesantezza» di un assoluto che incombe: del potere di Pio IX, che è in inesorabile declino; della «legge» ecclesiastica da applicare senza domande, dello stesso Mortara che, allevato come cattolico e diventato prete, «cercherà di battezzare perfino la madre» in punto di morte.   Un assoluto cupo, quasi barbarico. «Come scrive Scalise –afferma Prevedello –, “neppure il pentimento più sincero, né alcun gesto riparatore, potrà mai risarcire la vita di Edgardo, o sanare la pena e la follia che visitarono la sua famiglia, o addolcire il feroce patire delle vittime tutte. Solo la memoria e il suo rispetto possono rendere meno indegni gli uomini, solo la difesa della verità di quello che accadde può farci percepire il peso inguaribile, la minaccia permanente e la tortura d’appartenere a una condizione di schiavi e di padroni”.   È a questo assoluto più sbiadito che guarda anche Bellocchio; è l’eternità che viene dallo sguardo sul dolore che acceca anche noi oggi, figli credenti di altri paradigmi odierni come l’empatia e la libertà».
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