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Per una didattica sovversiva: “La responsabilità sociale del professionista della salute pone l’accento sulla presenza di una coscienza sociale”

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di Angelo Stefanini,

È possibile conciliare la didattica e la ricerca a livello universitario con l’attivismo e la mobilitazione attiva finalizzata a produrre un cambiamento sociale o politico che tuteli la salute? Abbiamo bisogno di vedere il mondo attraverso gli occhi degli emarginati e agire contro i processi e le forme che riproducono le condizioni oppressive ideologiche e istituzionali. Questo riposizionamento comporta un impegno verso le politiche e le pratiche che incarnano i principi dell’educazione critica e la revisione sostanziale del ruolo dell’università nella società contemporanea.

Una cellula eretica: questo l’appellativo con cui alcuni professori della Facoltà di Medicina di Bologna amavano beffardamente definire il gruppo di giovani studenti e assegnisti (ora conosciuto come Centro di Salute Internazionale – CSI)[i] che si era formato attorno a un non più giovane docente di sanità pubblica da poco rientrato in Italia da varie esperienze in Africa rurale e in una università anglo-sassone. La sua colpa era di non parlare di malattia ma di salute, spingendosi addirittura fino a trattare della natura politica della salute, della sua iniqua distribuzione e stretta dipendenza dalla organizzazione sociale. Come luogo di eresia, il CSI era implicitamente accusato di corrompere i giovani studenti allontanandoli dall’ortodossia biomedica tutta incentrata nello studio della biologia del corpo e “avulsa dal mondo circostante e dai suoi problemi” [ii], ossia da come e dove nasce e muore la salute.

Eppure, una domanda ineludibile, soprattutto tra i futuri medici di medicina generale e professionisti della salute operanti sul territorio in diretto contatto con la comunità,  riguarda i valori e il ruolo sociale a cui la loro formazione dovrebbe essere improntata.[iii] La stessa etica medica, che sembra faticosamente entrare nel corso di studio, troppo spesso enfatizza problemi individuali e dilemmi di particolare appeal mediatico (come costose tecnologie, terapia genica, clonazione), mentre pone scarsa importanza alla produzione sociale della salute. Ciò che è trascurato, omesso o spesso coscientemente occultato è la valenza etica e politica della responsabilità sociale del medico e del professionista sanitario. Non è sufficiente rilevare l’importanza della deontologia medica quale “base della tutela della professione” identificandola con l’”etica della salute e della cura”, non basta fare appello a una responsabilità professionale di taglio velatamente corporativo omettendo di proclamare con forza la necessità della assunzione di obblighi nei confronti dell’intera società umana.[iv]

La responsabilità sociale del professionista della salute pone l’accento sulla presenza di una coscienza sociale, è attenta alle strutture e ai meccanismi di disuguaglianza, potere e privilegio, e opera per promuovere la giustizia sociale e la pace[v] nell’interesse del bene comune. Riguarda una scelta che è personale e libera e “non ha bisogno di una legge che obblighi a compierla”.[vi]  Qual è il ruolo della formazione nel creare laureati che, consci del servizio che dovranno prestare alla comunità di appartenenza, intendano farsi carico di questi obblighi? È possibile conciliare la didattica e la ricerca a livello universitario con l’attivismo e la mobilitazione attiva finalizzata a produrre un cambiamento sociale o politico che tuteli la salute?

La didattica come attività ‘sovversiva’

L’insegnamento e l’apprendimento sono il pane quotidiano dell’attività accademica e la pedagogia (ossia la pratica e la filosofia dell’insegnamento) può essere di per sé un importante luogo di attivismo, anche e soprattutto quando si tratta della tutela della salute pubblica. Alcuni docenti cercano di utilizzare e rielaborare pratiche d’insegnamento e di apprendimento nelle aule universitarie per favorire l’auto-riflessione critica, l’empowerment politico e la mobilizzazione collettiva. Altri portano avanti il lavoro accademico convenzionale ma in contesti di attivismo, come ad esempio tenendo lezioni pubbliche di promozione della salute durante una manifestazione antirazzista o per la pace nel mondo, in luoghi di esclusione e discriminazione o in altre situazioni di mobilitazione sociale e politica. Tuttavia, distinguere o limitare l’attivismo a un ambito a sé stante, distaccato dal mondo accademico, rimuove il potenziale di impegno militante presente nel processo di rielaborazione o riforma dello stesso insegnamento accademico.

Al fine di comprendere quali comportamenti sono promossi attraverso l’insegnamento e quindi che tipo di professionista della salute (sia esso medico che di altra professione sanitaria) uscirà dall’università bisognerebbe osservare ciò che, in realtà, avviene effettivamente in un’aula universitaria o in un reparto ospedaliero. Gli studenti sono raramente tenuti a fare osservazioni o comunque impegnarsi in qualsiasi operazione intellettuale che vada di là dal ripetere ciò che qualcun altro dice essere vero. Di rado sono incoraggiati a porre domande sostanziali o esprimere opinioni e ancora più raro che sia loro chiesto un parere su quali problemi valga la pena indagare o quali metodi di ricerca utilizzare.[vii] Il docente stesso deve essere consapevole di svolgere un ruolo centrale nel meccanismo della ‘didattica nascosta’, quella che opera in modo invisibile a livello delle interazioni interpersonali e dei messaggi impliciti disseminati ovunque oltre il contesto didattico formale.  La figura del docente è determinante non tanto per quello che dice, ma per quello che fa, per come si pone di fronte alla persona malata, per quello che è e che rappresenta agli occhi dello studente.[viii]

L’educazione si rivela quindi come un atto politico. Paulo Freire affermava che non esiste un processo educativo neutrale.[ix]

O stiamo ricreando ciò che già è, ossia la conformità, o valutando criticamente il nostro mondo e la sua conoscenza, promuovendo la capacità degli individui di agire in modo indipendente e di fare le proprie scelte libere. Nel caso della formazione nell’ambito della salute, la sua valenza politica sta nella scelta se, da una parte, esporre lo studente ai meccanismi pratici e ai fattori strutturali che rendono manifesta la determinazione sociale della malattia, in questo modo mettendo il futuro professionista di fronte alla sua responsabilità professionale e sociale di intervenire in tale processo, o, dall’altra parte, tenerlo all’oscuro di tutto questo con un’opera di sapiente occultamento.[x]  Se ci si limita a presentare dei ‘dati’[xi] senza fornirne un contesto, a elencare quali sono i fattori di rischio per la salute senza tuttavia offrire il tempo e l’opportunità di impegnarsi criticamente su di essi, allora gli studenti sono trattati come oggetti e finiranno per accettare lo status quo percependo la loro incapacità a cambiare l’esistente. Ciò condurrà a un profondo senso di frustrazione e di sconfitta.

È necessario invece attuare una didattica ‘sovversiva’, non nel senso che intenda rovesciare i valori sociali, ma che affronti e tenti di risolvere i problemi della società minando alla loro base gli atteggiamenti e i processi che producono ingiustizie, disuguaglianze e alienazione sociale. Per fare tutto ciò il docente ha bisogno di pensare in modo relazionale. Deve cioè comprendere che l’educazione richiede di essere collocata nelle relazioni di potere diseguali presenti nella società e nei conflitti che sono generati da tali relazioni. Alla radice di questi problemi sta un principio semplice: per capire e agire sulla formazione in salute nelle sue complicate connessioni con la società più vasta dobbiamo impegnarci nel processo di riposizionamento. Ossia, abbiamo bisogno di vedere il mondo attraverso gli occhi degli emarginati e agire contro i processi e le forme che riproducono le condizioni oppressive ideologiche e istituzionali. Quella che nel linguaggio della teologia della liberazione si chiama ‘l’opzione preferenziale per i poveri’.[xii] Questo riposizionamento comporta un impegno verso le politiche e le pratiche che incarnano i principi dell’educazione critica e la revisione sostanziale del ruolo dell’università nella società contemporanea.

L’attuale crisi dell’università, in particolare della formazione medica e nella salute, infatti, credo debba essere vista come esito di un attacco molto più ampio da parte dei nuovi attori transnazionali detentori della governance globale, le imprese multinazionali, i filantrocapitalisti e le loro fondazioni ‘benefiche’, il complesso medico-industriale, le think tank della destra politica ed economica, i gruppi religiosi conservatori. L’istruzione superiore è un luogo pericoloso, perché ha il potenziale sia di favorire il pensiero critico sia di elaborare e modellare posizioni anti-egemoniche che mettono in discussione molte delle ortodossie dominanti e l’intero attuale regime ideologico politico ed economico neoliberista, anche nel mondo della salute.[xiii]

Credo infine che questa discussione teorica e concettuale vada allargata oltre l’ambito accademico a operatori sanitari, dirigenti, professori e studenti dei corsi delle professioni sanitarie come occasione di emancipazione e presa di coscienza della propria responsabilità nella determinazione sociale della salute.[xiv]

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