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“Mi rivolgo agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro…io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio”

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“Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio”,

di Marina Cagossi*

Venerdì 21 luglio 2023, ho avuto la fortuna di ascoltare Rosaria Costa; forse il nome dice poco, ma le
immagini di repertorio durante il funerale del marito Vito Schifani, agente di scorta di Giovanni Falcone,
credo siano rimaste impresse sino ad oggi.
31 anni fa Vito Schifani saltava in aria sul ponte di Capaci, tra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, insieme
ai giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e ai colleghi della scorta Rocco Dicillo e Antonio
Montinaro. “Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio”, era questo che durante le esequie
Rosaria Costa chiedeva.
A 31 anni di distanza nessuno ha chiesto scusa, ma qualcosa quel 23 maggio, e il 25 maggio con i funerali, è
stato seminato e lei Rosaria sa con certezza che ci sono state persone che hanno iniziato a collaborare con
la giustizia dopo la strage di Capaci. Pino Marchese è uno di questi: raccontano che si chiuse in bagno e
pianse dopo aver visto i funerali.
Si può perdonare l’imperdonabile? Perdonare l’azione non si può, bisogna perdonare l’uomo anche se la
morte non si accetta mai.
Nessuno ci ha comunicato di quella strage, io stessa sono venuta a saperlo da un amico, e quando ho
chiamato la questura nessuno sapeva nulla, mi dissero di guardare il telegiornale.
Chi perdona è forte e chi non si vendica non significa che sia debole.
Quando sull’altare dissi “mi rivolgo agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro”, è stata
un’ispirazione che ho avuto a 22 anni, un qualcosa di travolgente che mi ha preso l’anima e lo spirito,
altrimenti non avrei potuto dire quelle cose. Quella era rabbia, la rabbia di tutti, non solo mia, ma di una
Palermo onesta.
Il discorso diventa ampio perché sono convinta che non ci sia solo la mafia dietro quelle stragi, ma che ci
siano apparati dello Stato corrotti, dei servizi segreti che hanno fatto sodalizi con i mafiosi.
Negli anni 80 era un gioco troppo sporco e preciso: non ce lo vedo un Riina, un Provenzano che
costruiscono un ordigno. Per costruire un telecomando e piazzarlo, occorre un esperto, un ingegnere.
Loro erano altri boia, abituati ad uccidere in un altro modo, e il gioco si è fatto troppo sporco e preciso: in
57 giorni hanno avuto la fretta di liberarsi anche di Paolo Borsellino, che indagava sulla morte del suo
collega /amico, per il quale non era stato previsto nemmeno un’area di rimozione forzata in Via D’Amelio.
Rosaria Costa all’inizio rimase in Sicilia, lei che proveniva da una famiglia modesta e onesta, era però
cresciuta come tanti nel contesto della “Palermo di un morto ammazzato al giorno”; voleva lottare,
reclamare il proprio diritto alla giustizia e per questo si avvicinò al giudice Borsellino, legandosi a lui e alla
sua famiglia dove si è sempre sentita amata.
Avvertì il senso delle istituzioni nel momento in cui si recò alle camere ardenti per l’ultimo saluto al marito
e trovò i carabinieri a piantonare la stanza.
Poi decise di andarsene dalla sua Sicilia, dopo la morte di Borsellino per proteggere il figlio, perché non
voleva sentire dire che era il “figlio dell’agente di scorta ammazzato per mano della mafia”. In famiglia
durante quegli anni non si parlava mai di mafia, era una sorta di tabù, oggi invece Rosaria più che fare
presentazioni del suo libro, preferisce andare nelle scuole a parlare con i giovani, a portare la sua
testimonianza di ciò che la mafia può fare e di quello che non deve fare più, grazie al contributo di ogni
cittadino italiano.
Rosaria Costa “La mafia non deve fermarvi. Una vita dedicata alla lotta per la legalità attraverso la
testimonianza della vedova Schifani

*bibliofila

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