GIOVANI VIOLENTI, CRESCIUTI DAI DEVICE NEL TRAUMA DEL VUOTO
di Franco Nanni, psicologo, sociologo, Bologna
Forse non c’è fenomeno più ideologicamente misconosciuto di quello della violenza sessuale. Sui media e perfino sui social network si continua a voler guardare soltanto dove si vuole che siano le ragioni del fenomeno, ma esse stanno altrove, molte sono abbastanza note ma, per ragioni spesso opposte, né a destra né in tanta sinistra le si vuole prendere in considerazione. Ognuno alimenta unilateralmente la versione ideologicamente conveniente. Peccato che per metterci in grado di migliorare le cose servirebbe uno sguardo meno pregiudiziale.
Osservando gli ultimi stupri di gruppo, temo si accresca la dissonanza tra il fenomeno “che è” e “quello che si vuole che sia”: si vorrebbe che fosse il “vecchio”, la cultura patriarcale, che sopravvive, mentre questi branchi rappresentano, purtroppo, soprattutto il nuovo che avanza. Lo stupro di gruppo, come un videogame “sparatutto”, avviene nel mondo reale, ma quelli che lo perpetrano se ne accorgono soltanto dopo. Guardato da questa angolazione (ma non necessariamente da altre), il fenomeno può essere assimilato a una più generale “violenza”: uccidere animali per gioco, compiere atti di grave vandalismo, picchiare o dare fuoco a homeless che dormono in strada, prendersi gioco di un disabile e divulgarne il video, senza dimenticare i “pionieri” (triste primato, era il 1996) dei sassi dal cavalcavia.
Viviamo ormai da tempo in una società dove accudimento, legame sociale e attaccamento sono ormai appesi a un filo, dove l’isolamento e le relazioni ridotte a immagini e frasi via social alimentano insane miscele di impulsi ancestrali; assistiamo così a comportamenti disregolati sempre più frequenti e ubiqui, ancora più frequenti e gravi nelle menti più fragili e più colpite da questo dissolvimento dei legami umani.
«Una solida letteratura di ricerca collega inequivocabilmente l’esperienza del trauma interpersonale precoce con la futura perpetrazione di violenza. […] C’è un crescente riconoscimento della necessità di riabilitazione e trattamento dei colpevoli. A livello globale, gli studi dimostrano che l’esposizione alla violenza interpersonale precoce ha un impatto negativo sullo sviluppo del cervello, sulle capacità interpersonali e sulla resilienza emotiva e aumenta il rischio di perpetrazione futura di violenza. […] È essenziale integrare un approccio alla salute mentale, basato sul trauma, nelle strutture di salute pubblica per affrontare il nucleo della perpetrazione di violenza. Il trauma precoce non affrontato distorce notevolmente la normale traiettoria di sviluppo delle capacità cognitive e psicologiche/emotive. Non sorprende che molti dei sistemi colpiti siano anche collegati alla perpetrazione di violenza.»
(tratto da: Heidi L. Kar, Acknowledging the victim to perpetrator trajectory: Integrating a mental health focused trauma-based approach into global violence programs, in: Aggression and Violent Behavior, Volume 47, 2019, Pages 293-297)
Oggi dunque sappiamo che la costruzione di una mente, forse anche di un cervello dotato di equilibrio, empatia, capacità di autocontrollo e di attenzione richiede processi sottili che sfuggono alle osservazioni troppo superficiali e riduzioniste. I bambini di oggi affrontano la loro vita dotati di forme di deprivazione da relazioni intime rispecchianti e rinforzanti, e fuori casa trovano un mondo che non dà loro chiari limiti e orizzonti di azione ma richieste, o addirittura ordini. I bambini attuali sono sottoposti a una ridda continua e pervasiva di richieste alle quali si vorrebbe obbedissero senza residui né proteste, e quando ciò non accade essi vengono rimproverati o puniti. Entrano in un mondo che fondamentalmente li respinge.
I risultati li vediamo ogni giorno nelle scuole, nelle case, e, purtroppo, spesso sui giornali. Tra coloro che percepiscono il disastro, ognuno depreca quel che ha di fronte: le incapacità dei genitori, o della scuola, o l’abuso di social media o di videogame, lo scarso rispetto dello studio tradizionale, o magari i problemi con l’ortografia, la grammatica, la storia, il galateo, l’empatia, e tanto altro. E ognuno sostiene con buone ragioni che, se solo si potesse por mano a questo o quel singolo aspetto, il resto si sistemerebbe da sé. Amiamo illuderci, evidentemente. Sistemando questo o quello non andrà a posto un bel niente, o al massimo ci andrà per pochi privilegiati. I traumi e gli ammanchi nella costruzione degli individui sono ormai troppi, e troppi i supporti patologici e patogeni: videogame, social media, violenza, ritiro, odio e paura. Troppo deboli, finanche deformi gli anticorpi prodotti da cultura, scuola, e perfino dalla buona volontà. Forse ce ne accorgiamo solo ora: masse di individui malformati dentro, impauriti, carichi di odio e desiderio di rivalsa, afflitti da un vasto senso di perdita e di depauperamento si stanno moltiplicando. Desiderosi, semplicemente, di agire la propria distruttività.
Un manipolo di psicopatici intelligenti ha già capito che il mondo occidentale è pieno di giovani ai limiti della psichiatria, senza sé, senza radici, senza prospettive, che hanno imparato cosa sia la vita dagli schermi delle loro PlayStation e Xbox su cui girano giochi inneggianti più o meno apertamente a condotte antisociali e violente, giovani pronti a farsi reclutare per fare stragi di… di gente. Perché non odiano qualcuno, odiano tutto, perfino sé stessi. Anzi, all’odio di sé sono stati educati proprio dal loro mondo. Naturalmente tutto questo non riguarda la totalità delle nuove generazioni, ma una quota in aumento, che una zona grigia a gradiente progressivo separa dai “privilegiati”.
Io non credo che potremo fermare o deviare questa china. Non servirà certo riscoprire il valore della buona educazione, dell’analisi logica, del rispetto, del merito o della gerarchia o di altri fantastici “valori”. E, tornando agli stupri, non servirà nemmeno con la “educazione del maschio”, il nuovo totem. Solo pochi anni fa ci si preoccupava del forte e precoce consumo di alcol tra adolescenti, oggi in nome del totem “educare il maschio” sembra che stiamo subdolamente invitando le ragazzine a bere quanto vogliono, mica fa male alla salute, anzi. Come se l’abuso di alcol non facesse parte dello stesso degrado, ma solo di un registro di “libertà”. A tanto arriva la nostra cecità?
Come abbiamo letto poc’anzi nella citazione di Heidi Kar, «Una solida letteratura di ricerca collega inequivocabilmente l’esperienza del trauma interpersonale precoce con la futura perpetrazione di violenza.» Dunque l’educazione sembra proprio avere un ruolo del tutto marginale, sicuramente non meritevole dell’enfasi unica e ideologica che le viene attribuita. È soltanto una delle terribili fallacie della cultura neoliberista: darci a bere che tutto ciò che abbiamo perduto in nome del profitto e del capitalismo rapace possa essere recuperato con qualche ora di educazione. L’idea che esista una “via educativa” per risolvere tutto ciò fa parte dell’ideologia stessa, non certo della soluzione. Lo si può pensare in buona fede, ma davvero, confrontando i dati, si dovrebbe capire che questa via non porta da nessuna parte.
Per dirla più tecnicamente: l’educazione è un processo quasi totalmente top-down, ovvero parla alla neocorteccia, eventualmente auspicando un qualche effetto sugli strati di cervello sottostanti; è un approccio che funziona negli ambiti in cui la neocorteccia ha un primato indiscusso. Ma sono i processi bottom-up a giocare un ruolo centrale in tutte le condotte impulsive, devianti o meno che siano, ed è su questo infatti che puntano anche i principali protocolli per la terapia su uomini maltrattanti, tecnicamente detti anche “perpetratori”. E purtroppo le risposte “sbagliate” degli strati interni del cervello si costruiscono molto prima dell’educazione esplicita, e ad essa oppongono una solida resistenza. Naturalmente contesti di degrado e di vuoto relazionale (come nel caso del recente episodio di Caivano) sono un terreno assai fertile per condotte di questo tipo, sia per il fatto di essere ambienti intrinsecamente traumatici che per la carenza di fattori di contenimento e riequilibrio, inclusa, spesso, la presenza dello Stato.
Avremmo comunque bisogno di ricerche più raffinate, più mirate, che assemblino la mole di dati esistente in un corpus più organico e più fondato di quanto non sia ora. Purtroppo invece la scena mediatica è occupata da una serie di personaggi che hanno già le soluzioni in tasca, che sanno già tutto prima ancora di avere studiato, e sanno a memoria quale sia il problema e quale sia la soluzione mentre invece, se si è onesti, si riconosce che sappiamo bene in quale direzione andare ma non altrettanto bene come farlo, e con quali finanziamenti. Credo però che sappiamo con certezza che è del tutto inefficace procedere in direzione opposta. Ma ciò nonostante, continuiamo a veder diffondere messaggi fuorvianti come questo, divenuto virale, che pone una falsa e pericolosa antitesi tra due poli:
PROTEGGI TUA FIGLIA
EDUCA TUO FIGLIO
Per tanto tempo, e a ragione, si è detto che “occorre cambiare le persone, solo così cambierà la società”. Ma oggi i nuovi nati non vivono in un mondo di persone, ma di cose, di messaggi, di meme, di slogan e immagini emotivamente sovraccariche. Come quel bambino cresciuto dagli orsi, meno umano e un po’ plantigrado, i nuovi nati sono meno umani e somigliano troppo a ciò in cui sono immersi, il mondo mediatico e social. Non sono stati cresciuti da orsi ma da dispositivi. Per di più, una parte cospicua degli umani che hanno incontrato incarnavano ruoli: maestre, allenatori, ecc, ruoli che non implicano amore e riconoscimento ma educazione e disciplina… anch’essi dei dispositivi, in fondo. Questa volta diventa vero il contrario: per cambiare le persone dobbiamo cambiare l’ambiente in cui vivono, renderlo umano e non fatto di dispositivi. Bene fa, allora, il maestro di strada Moreno che mette ragazzi e ragazze in cerchio, faccia a faccia. Li riabilita a vivere tra umani. Forse scopriranno l’amore, questa cosa dimenticata, e spesso temuta.