DISEGUALI, APPENA NATI
Nascere da “stranieri” nell’Italia degli sperperi pubblici e delle emergenze “di comodo”. I dati della “Società italiana pediatria”
di Mariano Rampini
Ho sempre avuto una qualche difficoltà a destreggiarmi tra i numeri. Me la cavavo meglio con le parole tanto da essere accusato (si fa per dire) dalla mia famiglia – papà geometra, zio chimico, fratello biologo – di essere un chiacchierone. Poi ho scoperto in una sorta di illuminazione (non scomodo Damasco) che sui numeri si regge questo mondo e che sono proprio loro a rivelarcene le meraviglie. Ma anche le brutture. Come nel caso della sanità, che riserva sorprese e non sempre liete. Cominciamo questa volta dai più piccoli ai quali la Sip, Società italiana di Pediatria ha riservato uno spazio particolare nell’ambito del suo recente congresso (Torino, 25-28 ottobre).
Dai dati dei pediatri italiani – desunti dal Rapporto Istat 2022 – risulta che un minorenne su dieci è straniero (di origine o di seconda generazione): in totale un milione e 300 mila persone da 0 a 18 anni di età. Un milione di loro è nato nel nostro Paese (un non indifferente 15% dei 393 mila nati in Italia) e a loro si aggiungono tutti i minori stranieri – come si legge nel comunicato della Sip – «giunti nel nostro Paese per ricongiungimento familiare o non accompagnati, fuggiti da guerre e persecuzioni».
Come viene tutelata la loro salute? Poco e male secondo i nostri pediatri e a cominciare dal momento della nascita. Le madri infatti scontano il peso di tutte le barriere linguistiche e sociali percorrendo con difficoltà a volte estreme i percorsi sanitari prenatali. Con tutti i rischi connessi «alle nascite pre-termine, alle infezioni, all’asfissia e al distresss respiratorio» (cito le parole di Piero Valentini, segretario dello specifico Gruppo di lavoro per il bambino migrante della Sip). Non basta: chi nasce da madre straniera ha una minore possibilità di restare in vita. Sempre l’Istat segnala 2,5 neonati morti ogni mille nati vivi rispetto agli 1,6 delle mamme italiane. Il dato non migliora per quanto riguarda la mortalità infantile: siamo al 3,7 per mille degli “stranieri” contro il 2.3 “italiano”.
Perché avviene questo? Un dato che può spiegarlo è la frequenza dei controlli ginecologici: il 12,5% delle donne gravide straniere li iniziano dopo l’undicesima settimana di gestazione mentre a farlo in tempi così lunghi è solo il 2,2% delle italiane (i dati questa volta sono ministeriali e derivano dai certificati di assistenza al parto, i Cedap del 2020).
Chi sopravvive poi cresce bene? Neanche per idea perché i minori che crescono in Italia stanno facendo registrare una crescente incidenza di sovrappeso, obesità e diabete. Il tasso è salito ₋ lo ha spiegato Gianni Bona fondatore del Gruppo della Sip ₋ all’1% di dieci anni fa a oltre il 10% attuale.
In sostanza i minori cresciuti in Italia stanno assumendo le peggiori abitudini alimentari dei loro coetanei italiani, «seguendo una dieta ricca di zuccheri e grassi».
Il diabete mellito giovanile di tipo 1 (è sempre Bona a osservarlo) cresce nei bambini appartenenti a determinate etnie che appaiono più esposti dei loro coetanei: la prevalenza, infatti, è 10 volte superiore tra questi giovani oltre ad avere un’insorgenza più precoce.
L’analisi Sip ha esaminato la condizioni delle bambine (quelle “straniere”, ovviamente) che mostra come soffrano per i mutamenti dell’ambiente e delle condizioni di vita con un’accelerazione della crescita e dello sviluppo puberale.
Finisce qui? No, nient’affatto: i giovani non italiani (nati o entrati in Italia in giovanissima età) soffrono di una serie di deficit sanitari che, come ha indicato Mario De Curtis, presidente del Comitato per la Bioetica della Sip, vanno dalle patologie croniche alla morte precoce, a un minore allattamento al seno, a infezioni, disturbi di crescita, obesità, anemia, carenze nutrizionali, carie dentali, disturbi psicologici, comportamentali e anche psichiatrici».
Insomma nascere da stranieri in Italia – o giungervi da immigrati – crea una sorta di “confine” invisibile che pesa sullo sviluppo e la crescita di questi giovani.
I dati forniti dalla Sip ₋ a modestissimo parere di chi scrive ₋ non indicano solo la necessità di una maggiore attenzione verso chi vive situazioni di marginalizzazione sociale che sarebbe comunque necessaria per chiunque. Servono piuttosto a indicare come questo Paese riservi a tutte le fasce deboli e fragili della sua popolazione un trattamento di “sfavore”. A pagare il prezzo più alto è sempre chi ha meno. E il numero di costoro aumenta sempre di più.
Lo dice a chiare lettere Eurostat: l’Italia è l’unico tra i grandi Paesi europei (ma i nostri governi, compreso l’attuale sembrano ignorare questo dato gravissimo) ad avere una percentuale altissima – il 63%, numero da sottolineare – di famiglie che lamentano difficoltà a far quadrare i propri conti alla fine di ogni mese. In Svezia, Germania, Paesi Bassi, Finlandia e Lussemburgo meno di un quarto della popolazione ha problemi di questo tipo. Noi, al contrario, ci andiamo a posizionare tra quelli meno “felici” (è un eufemismo): in Bulgaria l’80,3% della popolazione mostra queste difficoltà, come in Grecia (con oltre l’89%). In sostanza il nostro 63% ci mette ben al di sotto di una media statistica (che personalmente mi pare più quella dei “polli” di Trilussa) del 45,5%.
Numeri in qualche modo impersonali ma che dovrebbero far riflettere chi governa, indirizzare le scelte non sull’appartenenza politica quanto più su un Paese che pare saper far fronte (non sempre facilmente) solo alle emergenze, senza mai prevenirle. Il recente anniversario della tragedia del Vajont (come quella più recente di Lampedusa) dovrebbe indurre a usare i fondi che esistono ₋ e non sono pochi ₋ al miglioramento del benessere generale. A cominciare da una mappatura dei rischi idrogeologici, fino a un controllo serio e competente della situazione sanitaria delle varie Regioni. Al contrario pare si voglia indulgere a perseguire la “Fata Morgana” di progetti ricchi solo di pericoli come quello dell’Autonomia Differenziata (destinato, in soldoni, ad accrescere sempre più la forbice tra Regioni ricche e povere) o quello destinato in partenza a uno sperpero enorme di denaro (a favore di chi? bisogna sempre chiederselo) come quello del Ponte sullo Stretto.