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Gaza e la Corte dell’Aja

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La difesa di Israele e la politica della memoria
– Roberta De Monticelli, Il Manifesto, 21.01.2024
Gaza e la Corte dell’Aja L’identità israeliana si costruisce nell’identificazione con le
vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel concetto di genocidio. E dunque che il
genocidio sia perpetrato invece che subito, è inconcepibile
«Lo stato di Israele sa fin troppo bene perché la Convenzione sul genocidio, che è stata
invocata in questo procedimento, fu adottata». Si apre così l’arringa di Tal Becker, il primo
avvocato della squadra di difesa israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. La
«memoria collettiva di Israele» è evocata immediatamente dopo, insieme con il richiamo a
Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che coniò il termine.
Non gli bastava – aggiungiamo noi – il termine «sterminio» usato a Norimberga, e neppure
«crimine contro l’umanità», coniato da Hersch Lauterpach, un altro giurista sopravvissuto
alla Shoah. Uccidere persone perché appartenenti a un certo gruppo e con l’obiettivo di
sradicarlo è peggio che ucciderle senza questa specifica intenzione. Che è poi la parte
dell’accusa più difficile da provare, nonostante le oltre 60 citazioni e le 9 pagine di
riferimenti ad alti funzionari israeliani, non sanzionati dal loro governo.
È di questo «elemento soggettivo» che vogliamo occuparci: delle sue implicazioni
psicologiche e morali ma anche filosofiche, sia dal punto di vista degli accusatori che degli
accusati. Sgombriamo anzitutto il terreno dagli equivoci. La Corte non è chiamata
nell’immediato a un verdetto di innocenza o colpevolezza: ma solo a determinarsi sulla
possibilità che un genocidio sia in atto, e solo in questo caso ad accogliere (eventualmente)
la richiesta di misure precauzionali come il cessate il fuoco. Sarebbe ridicolo che quel
verdetto pretendesse di anticiparlo chi scrive.
La questione è un’altra. Qual è il senso dell’accusa? Ancora. La Corte ha giurisdizione sulle
controversie fra stati, ma solo se questi l’accettano, o una tantum o nelle clausole dei loro
trattati. Israele l’ha accettata praticamente solo per questo trattato così fondante per la sua
legittimità: la Convenzione sul genocidio.
Per questo ha dovuto prima sorgere una controversia fra il Sudafrica e Israele, perché i
Sudafricani potessero presentare alla Corte la loro accusa di genocidio, prima comunicata a
Israele e respinta. A questo punto l’Art. 9 della Convenzione «obbligava» Israele a
difendersi in Corte.
E ora torniamo alle arringhe difensive. L’argomento di Becker torna continuamente: che sia
accusato di genocidio proprio Israele, fondato sulla «memoria collettiva» del male «unico»,
«eccezionale», «assoluto» subito dagli ebrei, per il quale fu inventata questa fattispecie di
reato, è inaudito. Una sorta di contraddizione «genetica» (Giacomo Costa, Affaritaliani.it,
16/1).
«L’accusa è assurda perché mossa nei confronti di uno stato nato, lo ricordo, dalla Shoah».
Questa stessa tesi, espressa il 9 gennaio dall’avvocato internazionalista Giorgio Sacerdoti,
la trovate come argomento cardine di tutte le arringhe difensive, insieme all’altra
complementare: accusare proprio Israele di genocidio svuota di senso il termine, lo
banalizza. Ecco: ma perché? Come comprendere più in profondità il senso di questo che
sarebbe di per sé evidentemente un non sequitur?
Perché ci sia intento genocida, la vittima designata deve essere presente, e in modo
quasi ossessivo, alla mente del suo carnefice. Ora, onestamente, chi potrebbe dire che i
palestinesi siano stati presenti alla mente della maggioranza degli ebrei israeliani in una
società che, come quella israeliana, era letteralmente costruita come un sistema di
invisibilità – architettonica, logistica, segnaletica, linguistica e culturale – nei confronti delle
popolazioni dei territori occupati, ridotti allo status generico di «stranieri» – o al più soltanto
«terroristi» – da cui difendersi, invece che sfollati superstiti di una popolazione residente da
una dozzina di secoli almeno in Palestina?
È questo «elefante nella stanza» che nessuna delle crisi passate ha reso tanto visibile
quanto il tremendo eccidio del 7 ottobre. Si parva licet, conosciamo questo meccanismo.
Distolgo istintivamente lo sguardo da qualcosa, senza volerlo sapere. Ma se qualcuno mi
costringe a guardare, la mia reazione può essere feroce. In fondo, l’othering, la
disumanizzazione annichilante, era già nel sogno dei padri fondatori: una terra «senza
popolo» per un popolo senza terra.
Ecco perché l’argomento principale dell’accusa è stato la «contestualizzazione» dello
sterminio di Gaza: certo in rapporto all’eccidio criminale del 7 ottobre, ma anche in
rapporto all’intera storia della pulizia etnica della Palestina storica, prima e dopo il 1967 e il
regime di occupazione dei territori destinati dall’Onu alla Palestina. Come dire: ignorare la
vittima che stermini, mentre la stermini, non solo non cancella l’intento genocida, ma
semmai l’aggrava, come se tu avessi anticipato l’annientamento in forma di negazione del
vero: «Non esistono».
Nurit Peled Elhanan, già docente alla Jerusalem University, illumina questo buio nel suo
ultimo libro (Holocaust Education and the Semiotics of Othering, 2023), riconducendo la
rimozione (l’elefante ignorato) proprio a una politica della memoria: l’identità israeliana si
costruisce nell’identificazione con le vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel
concetto di genocidio. E dunque che il genocidio sia perpetrato invece che subito, è
inconcepibile. Ma questa è una memoria centripeta: dice «mai più questo deve accadere a
noi». E non invece «a nessuno». Solo quest’ultima sarebbe una memoria «universale».
L’avevo chiamata kantianamente «memoria del diritto» (17 gennaio). Nurit la chiama
«memoria centrifuga».
Questo vorrei rispondere a Roberto Della Seta, che ieri ha avanzato riserve sulla portata
etica dell’accusa sudafricana (oltre che sulla sua correttezza giuridica e opportunità
politica). In etica – e relativamente alla mente umana – le questioni sono più complesse di
come paiono. È bene ricordarlo, alla viglia della Giornata della Memoria.

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