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Un autunno d’agosto

  • di

Agnese Pini, Un autunno d’agosto, Chiarelettere, 2023

L’eccidio nazifascista e la memoria civile

recensione di Alessandro Castellari

“Devo partire da Clara. Tra tutte le storie che raccontano quella storia, è l’immagine di Clara la prima che torna alla memoria. Quando gli adulti ne parlavano, abbassavano la voce in segno di rispetto, o di pudore. Così la voce diventava un sussurro”. La piccola Clara, l’unica sopravvissuta all’eccidio nazifascista di San Terenzo Monti fra il 17 e il 19 agosto 1944, della quale in casa si parlava sottovoce, riempiva l’immaginazione di Agnese bambina e ricorreva nei suoi incubi notturni. “Oggi, immaginandola in quel pomeriggio del 19 agosto, sola nel campo di cadaveri e di sangue, mi viene voglia di stringerle le mani. È un istinto di consolazione, il mio. Per lei e per me stessa”.

Si sente fin da subito la voce accorata di Agnese che rievoca ciò che in casa le raccontavano dell’eccidio di San Terenzo, e di come la nonna ne era scampata e di come la bisnonna vi era morta. Un autunno d’agosto fa vivere a chi legge due dimensioni che si intrecciano fra di loro, quella del racconto della strage e quella della rielaborazione emotiva ed affettiva di quelle vicende alle quali, diventata donna, non aveva pensato più. Poi con fatica, paura e vergogna va a San Terenzo, invitata da Roberto Oligeri, un vecchio corrispondente del giornale che lei dirige, il figlio di Mario, l’oste del paese che perdette in quella strage la prima moglie e cinque figli.

Le case del paese degli avi, la chiesa lassù in alto di fronte alle Apuane, l’odore autunnale di foglie umide e di acini avvizziti, la fattoria della strage e la lapide fra i cipressi coi nomi dei centocinquantanove morti in ordine alfabetico, fra i quali quello di Ambrosini Palmira, la sua bisnonna. E su quella lapide col nome di Palmira si innesta il percorso narrativo: la paura dei bombardamenti di quella povera gente, la presenza nel castello di Fosdinovo di duecento SS della 16° Divisione comandata dal maggiore Walter Reder e dal tenente Albert Fischer, i rastrellamenti che costringono gli uomini a nascondersi nei boschi.

Anche gli orrori di guerre recenti rievocano i fantasmi del passato che “tornano a recuperare un colore, una dimensione, un suono”: le razzie del bestiame, le urla e le minacce dei tedeschi, i pianti delle donne e dei bambini, la spedizione di tre donne presso i partigiani della brigata Ulivi che pretendono che intervengano (“Dovete fare qualcosa!”); di qui l’azione partigiana e l’uccisione di sedici SS, di qui il feroce eccidio di centocinquantanove persone, soprattutto donne e bambini.

Scendendo lungo la strada verso il torrente Bardine, accompagnata da Roberto Oligeri, le appare la casa dei bisnonni Palmira e Angelo nel silenzio completo del pomeriggio ottobrino, in mezzo alle erbacce e alle piante cresciute selvatiche dopo tanti anni. Poi si dirigono al cimitero, là dove c’è “la memoria perduta e ritrovata”, là dove generazioni sono “ricongiunte insieme sotto le lapidi, madri e figli e nonni e nipoti, tutti lì”. Ecco allora che ritorna imperioso il racconto di quei tre giorni: dall’uccisione di Stella e Giuseppe, così senza ragione alcuna, se non per una prima ritorsione feroce, al raccogliersi della gente fin dalla sera del 17 agosto per andare a Valla, una fattoria fuori dal paese che sembra sicura, all’arrivo dei tedeschi la mattina del 19. E poi la strage al suono beffardo di un organetto.

È come se in questo libro il presente si chinasse sul passato per fare diventare memoria il doloroso ricordo, per dare un senso alla nostra storia civile.

La lingua di Agnese Pini è fortemente visiva nel mostrarci le drammatiche vicende di quell’agosto; è nobilmente tesa quando racconta del lavoro fatto da Marco De Paolis, quel procuratore generale alla Corte d’appello militare che a partire dal 2002 ha restituito giustizia a quella povera gente ammazzata stuprata torturata dai nazifascisti lungo la Linea Gotica; è affettuosa e delicata nel farci scorrere il diario della zia Angela, nel porci davanti ad una fattoria coperta d’edera, ad una vecchia foto, ad una cucina una volta piena di lavori domestici.

Alessandro Castellari

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