Dostoevskij, “Il Coccodrillo” e la nostra epoca
di Francesco Domenico Capizzi*
“Il Coccodrillo” – narrativa, romanzo…saggio…biricchinata letteraria? – spesso ignorato fra le opere di Fedor Dostoevskij, scritto un anno dopo “Memorie dal sottosuolo” e un anno prima di “Delitto e castigo” (1866), rappresenta una sorta di summa stenografica della sua biografia ed assume un significato simmetrico ed opposto alla sua copiosa produzione letteraria. Il libro, piccolo per dimensioni non per contenuti, a ben guardare, estende i ricorrenti tratti allegorici e metaforici alla nostra epoca racchiusa in dilaganti autoritarismi, feroci guerre e loro focolai mai sopiti, violenze, povertà, carestie, repressioni di diritti fondamentali. Nell’indifferenza generale e quiescenza di organismi nazionali e internazionali, di fatto, si continua a vivere come prima, anche meglio di prima, in una immensa unica monade che Dostoevskij colloca nel ventre viscido di un animale sauropsidico.
In una sofisticata galleria di Pietroburgo viene esposto un coccodrillo adulto dentro il quale, a furia di vezzeggiamenti e solleticazioni rivolti testardamente all’animale, un opaco funzionario statale viene risucchiato senza subire inconvenienti psico-fisici, a parte la costrizione al lezzo gommoso.
Bisogna, è ovvio, incidere, sventrare immediatamente il coccodrillo per liberare Ivan Matveich! Ma la soluzione appare sconveniente sul piano economico, considerata scontata e retrograda per tanti progressisti, facinorosa per i tanti conservatori di turno, dimenticata. Tutto sommato il luogo appartato risulta al malcapitato (non tale si rivelerà) fin comodo, spazioso e, per giunta, fertile alla meditazione su come indirizzare il futuro dell’umanità. Sembra che Ivan se la sia proprio cercata e che gli astanti ne godano: da quella sistemazione, protetta dagli spifferi della realtà quotidiana, piuttosto che dalla sua grigia scrivania, rinunciando a stipendio e bella consorte distratta da galanterie, annuncerà con verità e luce le sorti magnifiche e progressive dell’umanità intera.
I visitatori si moltiplicano in modo esponenziale per incassi e profitti, si va prefigurando un Mondo nuovo fondato su miti consumistici, benessere ad ogni costo e felicità da raggiungere nonostante quanto accada dentro e fuori il rettile: in definitiva, il retrarsi delle coscienze.
Scrive Dostoevskij nel suo primo libro, Povera gente (1846, ed. italiana Rizzoli 2007), nel corso della sua vita travagliata e ricca di stridenti contraddizioni: “Nonostante le privazioni, amo ardentemente la vita, amo la vita per la vita e, davvero, è come se tuttora io mi accingessi a dar inizio alla mia vita senza riuscire a discernere se mi stia avvicinando al suo termine o se sia appena sul punto di cominciarla: ecco il tratto fondamentale del mio carattere; ed anche, forse, della realtà”.
Ma è possibile amare la vita per la vita accettando ed anzi imponendosi di vivere appartati, anche nel profondo buio di un guscio qualsiasi e chissà dove, nonostante tutto quanto stia accadendo nella realtà quotidiana? Ma nelle sue opere Dostoevskij, da vero intellettuale umanista, preferirà soluzioni ideali opposte all’indifferenza, pur vivendo realmente nelle sue personali persistenti contraddizioni, trasgressioni e omissioni, come capita a ognuno di noi.
* Già docente di Chirurgia generale nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgie generali degli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna