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Finché l’alternativa è tra resa e vittoria non esistono compromessi né mediazioni

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Vittoria o resa?

Guido Viale, Comune 17 Marzo 2024

Finché l’alternativa è tra resa e vittoria non esistono compromessi né mediazioni. Per cercarli bisogna cambiare orizzonte, uscire dalla logica del tutto o niente, capire e accettare che al di fuori della guerra c’è tutto un mondo possibile. La bandiera bianca non significa resa, ma non sparate perché io non sparo. Cessiamo il fuoco!


Disegno di Gianluca Foglia Fogliazza

Resa è il contrario di vittoria: due poli opposti, esclusivi ed escludenti, di un’unica entità che si chiama guerra. All’interno di questa entità – la guerra – non esistono posizioni intermedie: o l’una o l’altra. L’una per gli uni e l’altra per gli altri; e finché non si arriva a questi poli estremi la guerra continua. Finché l’alternativa è tra resa e vittoria, tra l’una e l’altra, e tra gli uni e gli altri, non esistono compromessi né mediazioni. Per cercarli – e per trovarli – bisogna cambiare orizzonteuscire dalla logica del tutto o niente, capire e accettare che al di fuori della guerra c’è tutto un mondo possibile. Un mondo fatto dalle vite di chi combatte, da quelle di chi subisce i bombardamenti, da chi vede distrutti i risultati di anni di lavoro, da chi per via della guerra non ha più né casa, né salute, né un corpo tutto intero, né uno, alcuni o tutti i suoi cari, i suoi parenti, i suoi amici, un futuro.

Ma non è tutto: ci sono intere città e monumenti distrutti che non potranno venir ricostruiti nemmeno nel giro di una o più generazioni – lo abbiamo già visto settant’anni fa – acque e fiumi avvelenati da esplosivi, combustibili e sostanze sfuggite dai loro depositi, paesaggi devastati, campi pieni di mine nascoste, di buche scavate dalle bombe, di trincee, terrapieni e barriere di ogni genere, di rottami di veicoli e di armi distrutte e abbandonate. Campi che non potranno più essere arati, né seminati, né produrre un raccolto e un reddito per chi li coltivava, ne cibo per chi lo aspettava. Poi, una scia di odi, tanto più forti quanto più si prolunga la guerra, tra persone che fino a ieri si consideravano connazionali, o vivevano e lavoravano fianco a fianco, o erano amici, o anche parenti, ora divisi da confini che non si potranno più attraversare e che nessuno avrebbe mai voluto.

E, al di sopra di tutto, un cielo attraversato – per quanto ancora? – da aerei, razzi, droni da cui piovono bombe, e sempre più pieno di gas di serra che la guerra non fa che moltiplicare, mentre per salvare il pianeta e la vita di tutti ci si dovrebbe impegnare – i nostri governanti dovrebbero impegnarsi; e con altrettanto zelo – a ridurre e bloccare tutte le fonti di inquinamento dell’atmosfera. Anche solo l’idea di un impegno del genere – insieme alla percezione che ci stiamo giocando il futuro di tutti – è andata persa. E se oggi l’assurdità della guerra con cui Ucraina e Russia si contendono una terra che stanno devastando da anni, giorno per giorno, e che non ha futuro, le distruzioni e l’avvelenamento inferti al piccolo territorio di Gaza e alle vite e alla salute fisica e mentale dei suoi tantissimi abitanti rendono evidente a tutto il mondo che cosa comporta, per chi ci vive o ci viveva, contendersi un territorio.

È verosimilmente alla luce di queste considerazioni elementari, e di altre che qui non ricordo, che papa Francesco, unico tra i Grandi della Terra – ma anche tra molti dei tanti minuscoli che si pretendono Grandi – continua a chiedere e a ingiungere di negoziare, cioè di uscire dalla logica della guerra, dall’alternativa tra vittoria e resa. La bandiera bianca non significa resa, ma non sparate perché io non sparo. Cessiamo il fuoco!

Ma negoziare non si può se non avvolgendo all’indietro il nastro del tempo, cercando onestamente di capire come si è arrivati a tutto questo. Vale per l’Ucraina come vale per Israele.  Non c’è e non ci sarà nessuna vittoria per le vittime della guerra, che saranno sempre di più, da entrambe le parti, mano a mano che la guerra si protrae. E non c’è né ci sarà alcuna resa per quanti si adoperano per salvare le condizioni della propria sopravvivenza e di una vita decente.

Putin pensava di conquistare l’Ucraina con una passeggiata militare come aveva fatto Breznev con la Cecoslovacchia nel 1968. Si è dovuto ritirare in una parte delle regioni russofone che ha blindato politicamente annettendole alla Federazione Russa e, militarmente, con una barriera invalicabile per una guerra convenzionale combattuta sul campo. Biden pensava – e lo aveva anche dichiarato, per poi rimangiarselo – che l’esercito e le milizie ucraine, con il supporto della Nato, in corso peraltro da due decenni, avrebbero portato alla dissoluzione della Federazione Russa, che è un impero le cui nazioni non vedono l’ora di liberarsi dal dominio russo. Si sono sbagliati entrambi; entrambi sono state sconfitti nelle loro aspirazioni. Ma quelle sconfitte non sono e non vogliono essere una resa, anche se entrambi sono consapevoli che proseguendo sulla strada imbroccata si finisce inevitabilmente in un olocausto nucleare di tutto il pianeta.

Ma in gioco c’è la libertà di un popolo, rispondono gli amici della guerra ad oltranza. E intanto lo stato di guerra sta distruggendo le libertà di chi ne godeva già poche e di chi non ne godeva per niente anche prima; ma oggi meno ancora. Perché la coscrizione obbligatori, la caccia ai renitenti e agli imboscati, il controllo dell’informazione, la chiusura di partiti e sindacati, il clima e la mobilitazione da Union sacrée non sono manifestazioni di libertà né prodromi di una libertà futura.

Soprattutto non c’è e non ci sarà libertà quando il prolungamento della guerra è imposto o sostenuto da governi che la fanno fare agli altri. E dio voglia che non decidano o si sentano costretti a farla anche loro: cioè a farla fare ai loro sudditi e ai loro elettori. Perché “Loro”, comunque, in guerra non ci vanno; e i loro figli neppure, come si è visto sia in Ucraina che in Russia.

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