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In rete si fa del male senza assistere alle conseguenze del male

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di Paolo ferraresi, presidente dei Comitati consultivi misti dell’AUSL di Bologna
Dentro il caso del TikToker suicida – In rete si fa del male senza assistere alle conseguenze del male

INTERVISTA Il presidente regionali degli psicologi analizza il fenomeno: “Errore pensare che i social non siano reali. Dobbiamo dare ai ragazzi gli strumenti critici per vivere la rete senza rischi, ma a caderci sono anche gli adulti”

“Fare male a qualcuno senza poi assistere agli effetti e al dolore che prova. Questo è quello che accade spesso in rete. Ed è sbagliato pensare che il virtuale non sia reale: lo è eccome”. Da questa riflessione parte il presidente regionale dell’Ordine degli Psicologi Gabriele Raimondi per affrontare il tema della cronaca nera che si intreccia sempre più spesso con le identità social, spesso interessando fasce d’età giovanissime. Il triste pretesto per un approfondimento ce lo dà il dramma del ragazzo bolognese attivo su TikTok che si è tolto la vita lo scorso lunedì in diretta. Una storia drammatica a prescindere da tutti i contorni, sui quali si è costruita una impalcatura di giudizi. 

Raimondi, il primo pensiero va al rischio di emulazione e allo stupore degli adulti di fronte a una realtà che considerano forse troppo spesso irreale e soltanto di cornice a e intrattenimento. Dove ci porta l’analisi psicologica? 

“Eventi tragici come questo portano a riflettere inevitabilmente sul ruolo dei social. Agli adulti spesso si sente dire che è un mondo non reale, ma la verità è che è una realtà che si fonde sempre di più con la nostra immagine e la nostra reputazione online. E una volta tanto possiamo pensare anche al significato di rischio emulazione: la cosa che non dobbiamo dimenticare è che affinché non ci sia emulazione è necessario creare un rapporto di educazione e accompagnamento nell’utilizzo dei social. Bisogna insegnare ai ragazzi un atteggiamento critico e consapevole per poter arrivare anche ad affrontare esperienze di bullismo e autolesionismo con meno effetti dannosi. Il problema enorme della rete è che gli hater posso fare male a una persona e non vederne gli effetti. Il cyberbullismo è una cosa, il bullismo in classe un’altra proprio per il fatto di vedere la vittima che soffre e rendersi conto di quello che si provoca. Fra l’altro i social sono costruiti per darci ragione e tendiamo a stare in gruppi di persone che la pensano come noi”. 

Solo ragazzini e adolescenti, ma anche giovani ventenni. La fascia di rischio (se c’è) qual è?

“In generale la costruzione della nostra identità non è circoscritta al periodo dell’adolescenza, ma prosegue per tutta la vita mentre i nostri ruoli vengono via via modificati in relazione alle tappe, ai cambiamenti e a quello che ci accade. I momenti di adattamento e di fragilità durano sempre, basti pensare agli stati di ansia nei quali abbiamo visto piombare tantissimi adulti dopo la pandemia e per lo shock dell’alluvione che ha interessato proprio il nostro territorio. Sono tante le situazioni sia individuali che collettive che ci possono mettere in difficoltà. Anche sul web, anche sui social”.  

Suicidarsi in diretta, davanti a un “pubblico”. Che senso ha questo gesto e quali conseguenze può avere su coloro che assistono a un evento del genere? 

“Non posso addentrarmi in questo caso specifico perché non lo conosco bene, ma di situazioni analoghe purtroppo ne abbiamo già conosciute. In primo luogo andrebbero analizzate le ragioni per cui non si riescono a vedere vie d’uscita oltre a quella del suicidio ed è importante ragionare sull’effetto che assistere a questi eventi hanno sulle persone che ne sono testimoni (anche involontari). La domanda che ci dobbiamo porre sia come psicologi che come genitori e adulti è: abbiamo costruito una realtà per la quale chi ha visto cose come questa può trovare degli spazi di ascolto e sentirsi libero di parlarne? Se non lo abbiamo fatto, è chiaro che ogni singola situazione è difficile da gestire”.

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Un consiglio o un esercizio che potrebbe suggerire ai genitori in apprensione? 

“Più che un esercizio direi una sana e semplice abitudine: parliamoci e ascoltiamoci. Quando chiediamo ai nostri figli come è andata a  scuola ascoltiamoli senza nel frattempo stare al cellulare o fare altro. Bisogna dedicare loro davvero tempo e attenzione”. 

Rete ma anche media. C’è un modo giusto per trattare tematiche delicate e difficili come questa storia? Quale la responsabilità della stampa e quali gli errori che sarebbe meglio non ripetere? 

“Abbiamo tutti responsabilità, questo lo abbiamo già detto. E ce l’ha anche la stampa: la riflessione va fatta su quello che si sceglie di raccontare e che è necessario raccontare. I giornalisti dovrebbero trattare temi delicati come questo nel pieno rispetto delle vittime e delle famiglie: male assistere invece ai racconti morbosi con particolari ininfluenti per il vero scopo che bisognerebbe perseguire, ovvero estrapolare riflessioni e insegnamenti. E proprio necessario scrivere i nomi e i cognomi? Giusto che si parli di certe cose, ma va fatto in modo corretto. 

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