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PALESTINESI E ISRAELIANI: EPPUR SI MUOVONO

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PALESTINESI E ISRAELIANI: EPPUR SI MUOVONO

di Gabriele Eschenazi

Suleiman Maswadeh, palestinese 28enne di Gerusalemme est, è un volto del canale di Stato Kan. Racconta tutti i giorni la politica del governo, del gabinetto di guerra e spiega le scelte di Netanyahu, che ha incontrato spesso a tu per tu così come gli è capitato con altri ministri. «Abbiamo rapporti corretti», assicura. Ricopre il ruolo di notista politico e ha un posto riservato sull’aereo del primo ministro durante le sue trasferte all’estero. Si distingue per uno stile pacato, professionale, che non lascia trasparire emozioni. La sua presenza sugli schermi gli è valsa la definizione «Un debole raggio di luce» da parte di Gideon Levy, uno dei giornalisti di Haaretz più pessimisti e critici. A «provocare» Levy è stata la partecipazione di Maswadeh al programma Incontro (Peghishà) condotto sempre su Canale 11 da Roni Koban, eclettico giornalista capace di dialogare con israeliani di tutte le provenienze politiche e culturali.

«Vale la pena battersi per la coesistenza»

La storia di Suleiman va controcorrente, abbatte molti stereotipi e forse proprio per questo la rivista Forbes lo ha inserito tra i trenta giovani israeliani più influenti. Peccato che Maswadeh fino a pochi mesi fa non aveva nemmeno il passaporto israeliano. Come cittadino di Gerusalemme est era dotato del solo passaporto giordano e prima di ogni viaggio doveva ottenere un visto e sottostare a controlli molto invadenti all’aeroporto. Il 6 ottobre era stato invitato da un’amica e collega giornalista israeliana, Ayelet Arni, a partecipare al Festival Supernova. «Non ci andai semplicemente perché ero stanco. La mia cara amica purtroppo è morta lì e vivo con un senso di colpa. Forse avrei potuto fare qualcosa», racconta. «Di quel massacro ho visto filmati terribili che nessuno ha visto, nemmeno paragonabili a quelli mostrati a giornalisti e diplomatici stranieri dal portavoce militare. Quelli sono Walt Disney!». D’altra parte aggiunge: «L’opinione pubblica israeliana non vede quello che succede a Gaza e per questo non capisce l’avversione del mondo verso il suo paese».

Suleiman subisce attacchi personali e minacce di morte sia da parte ebraica che da parte palestinese, non vede i genitori da sei mesi, ma non si pente della sua scelta. A vent’anni non sapeva una parola di ebraico e si è messo a studiare riuscendo in un solo anno anche a limare l’accento. Il padre camionista e la madre casalinga lo hanno sempre supportato anche se ora temono per lui, che ha altre sei sorelle convinte anch’esse a studiare l’ebraico. «Ho iniziato a lavorare come assistente di produzione nel servizio pubblico Kan e poi sono riuscito a entrare nella redazione del telegiornale. Non mi sono, però, mai voluto occupare della popolazione araba o dei territori. Volevo spezzare lo stereotipo che un arabo si debba occupare solo di arabi», racconta in tv a Koban, che gli mostra una sua foto da bambino col nonno alla Mecca, dove si è recato per ben quattro volte in autobus. Un’educazione musulmana stretta che si è accompagnata a una fuorviante istruzione sulla storia del popolo ebraico. «Nelle scuole arabe da me frequentate non si è mai parlato della Shoah, se non per negarla e indicare in poche decine di migliaia le vittime del nazismo». A lungo per lui gli israeliani erano solo i soldati ai posti di blocco, che gli rendevano la vita difficile e lo facevano sentire discriminato e umiliato.

Poi, lentamente, ha conosciuto una realtà più composita e messo da parte il rancore: «La società israeliana non è razzista, ma io ho sofferto di razzismo» spiega forse pensando anche alla sua compagna israeliana con la quale convive a Tel Aviv e anche a quelli che gli manifestano sostegno. E poi aggiunge con convinzione: «Vale la pena battersi per la coesistenza, per quelli che ci stanno guardando davanti allo schermo». Oggi è troppo giovane per garantire che non farà come lo scrittore Sayed Kashua, che nel 2014 emigrò con la famiglia a Chicago dopo aver perso ogni speranza di convivenza. Va avanti per la sua strada di integrazione, che però non prevede l’estraniazione dalle sue origini e cultura. «Soffro di crisi di identità, ma so di cosa sono fatto. Sono arabo, cresciuto in una realtà palestinese, la mia famiglia viene da Hebron, oggi sono anche israeliano. E non mi vergogno di nulla. Non ho ripensamenti per ora. Se me ne vado anch’io chi rimarrà qui?». Maswadeh sa che non è solo in questa sfida per l’uguaglianza e la convivenza.

Il ruolo sociale dei cittadini arabi-israeliani

Nella sua stessa azienda nel canale in lingua araba MiKan lavora con successo la collega Ruba Warwar, che col suo programma Punto di vista affronta con interviste argomenti delicati per la società araba, come l’omosessualità e la violenza contro le donne. Nel parlare liberamente di tutto usa rispetto e niente retorica. «Con i miei contenuti non di stretta attualità intendo dare spazio a temi non meno importanti della politica. Da volontaria ho assistito malati oncologici nella società araba e ho capito quanto sia importante concentrarsi sulla vita stessa che è breve e sulle problematiche degli emarginati», ha detto in un’intervista alla giornalista Shirin Falah Saab sul magazine di Haaretz. Warwar è nata a Nazareth da una famiglia arabo cristiana. Ha iniziato la sua carriera nel 1999 in un’emittente radiofonica locale pubblica per poi passare al Canale 33 e condurre dal 2011 il programma Punto di vista. Il suo impegno per le persone portatrici di handicap le è valso nel 2014 un riconoscimento da parte dell’allora Capo di Stato Shimon Peres.

Un altro settore oltre a quello dell’informazione dove i cittadini arabi guadagnano sempre più peso e prestigio è quello della sanità. Medici e infermieri israelo-palestinesi sono una colonna delle strutture sanitarie del paese. Il 46% dei nuovi medici israeliani sono arabi o drusi: lo indica un dato diffuso nel 2020 dal ministero della sanità israeliano e da allora la tendenza è in crescita. Non c’è forse da stupirsi se un sondaggio pubblicato il 22 aprile dal quotidiano Yediot Ahronot racconta che il 61% degli arabi è orgoglioso di essere israeliano e crede per oltre il 60%, come i cittadini ebrei, che l’esistenza dello Stato sia in pericolo. Il 38% degli elettori arabi è convinto che la spaccatura della popolazione sia la maggiore minaccia per lo Stato, più dell’Iran, del terrorismo e della bassa qualità della leadership politica. Cittadini ebrei ed arabi nel sondaggio si dividono soprattutto nella fiducia in Zahal, i primi si fidano per l’86% mentre i secondi solo per il 34%.

Come è noto, gli arabi israeliani sono da sempre esentati dal servizio militare fatta eccezione per drusi e beduini. E proprio un membro di questa comunità l’ufficiale della riserva Salem al-Sharishat, esploratore, si è distinto per un grande gesto di eroismo. Ha insistito per arruolarsi il 7 ottobre e poi, dopo essere stato rilasciato, è voluto tornare sotto le armi per altri tre mesi. Il 22 aprile è caduto in battaglia nel nord della Striscia. La sua tribù nonostante tutto continua a issare la bandiera israeliana. Nella popolazione non ebraica dello Stato esiste e sopravvive un senso di attaccamento in fondo non inaspettato. In 75 anni Israele è riuscito sempre più ad essere uno Stato vero, dove molte ingiustizie aspettano di essere sanate, ma dove esiste un senso di appartenenza collettivo e radicato, che non per caso disturba chi soffia sul fuoco del messianismo discriminatorio.

Idee di un palestinese per un’uscita dalla crisi

Questa percezione è avvertita anche da parte dei palestinesi più avveduti e aperti a una soluzione politica di mutuo rispetto e riconoscimento. Samer Sinijlawi, attivista e commentatore politico di Gerusalemme, ha pubblicato il 18 aprile su Haaretz «Idee di un palestinese per l’uscita dalla crisi». Sinijlawi è presidente del Fondo di sviluppo per Gerusalemme e un oppositore di Abu Mazen. Propone l’istituzione di un’amministrazione civile a Gaza che prevenga il ritorno a una società armata e la trasformazione delle fazioni da armate a politiche. Questo sarà possibile, secondo Sinijlawi, con un nuovo presidente palestinese provvisorio e dei ministri che siano capaci di assumersi dei rischi. L’unico modo di liberarsi di Hamas è, secondo lui, fare un accordo con esso. Israele non se ne può liberare dato che si tratta di un’ideologia radicata nella società palestinese (in educazione, università, moschee, memoria collettiva). Israele e i palestinesi dovrebbero investire molto per ristabilire una fiducia reciproca: dalla leadership al territorio. Servono modifiche nel sistema educativo e nei media. Seguendo questo percorso, i paesi arabi moderati saranno incoraggiati a eliminare Hamas dal potere. Lo Stato palestinese potrà essere di fatto un alleato di Israele per la sua integrazione nell’area.

I palestinesi devono adottare una strategia in favore della sicurezza di Israele e Israele in favore dei diritti nazionali palestinesi. La pace, dice Sinijlawi, è l’unico modo per onorare i morti del 7 ottobre e della guerra a Gaza e indica i possibili successori di Abu Mazen: Mohammed Dahlan, nativo di Gaza, Nasser AlKidwa, ex-ministro degli Esteri dell’ANP e nipote di Arafat, Marwan Barghouti, in carcere in Israele. Quest’ultimo sarebbe secondo Zvi Bar’el di Haaretz nella lista dei prigionieri da liberare stilata da Hamas e Israele non si opporrebbe a patto che venisse rilasciato a Gaza e non in Cisgiordania. La notizia non trova conferma se non per il fatto che Hamas ha sempre chiesto la liberazione di Barghouti. L’ex-leader dei Tanzim, braccio armato di al Fatah, oggi 65enne, sarebbe considerato il più adatto a ricomporre l’unità dei palestinesi. L’adesione di Hamas all’Olp potrebbe essere la chiave per dare a Gaza un’amministrazione palestinese legittimata dalla popolazione. «Ha lavorato dal carcere per promuovere la riconciliazione tra Hamas e Fatah con l’obiettivo di legittimare l’OLP come unica rappresentante di tutti i palestinesi. L’OLP è l’organizzazione che ha firmato gli accordi di Oslo e dalla quale deriva l’autorità dell’ANP. Un’OLP “rinnovata”, che includa Hamas, non solo garantirebbe la sopravvivenza politica dell’organizzazione, ma potrebbe restituire autorevolezza all’Amministrazione di Gaza e della Cisgiordania con un sostegno internazionale», scrive Zvì Bar’el. Di fronte a questi progetti della politica palestinese, sempre secondo Bar’el, Israele non ha alcuna strategia politica da contrapporre. D’altra parte, già una volta l’amministrazione americana avrebbe detto a Netanyahu: «I no li abbiamo capiti. Ma quali sono i sì?».

La questione dirimente rimane sempre quella della nascita di uno Stato palestinese, che viva in pace accanto a quello israeliano. Una volta al mese il sito Iniziativa di Ginevra (geneva-accord.org) pubblica un’indice sulla fattibilità della soluzione dei due Stati basato decine di criteri diversi, tra i quali iniziative politiche, sviluppi sul territorio, dichiarazioni politiche, tendenze nell’opinione pubblica e altro. L’indice oscilla tra 0 e 10 e nel corso del tempo si può misurare una tendenza. In aprile è stato 5,11, leggermente in crescita rispetto ad aprile 2023 quando era 5,04, ma in calo rispetto a marzo 2024 quando era 5,17.

Per far crescere questo indice servirebbero grossi cambiamenti nella politica israeliana come sottolinea il 5 maggio il commentatore politico di Yediot Ahronot Nahum Barnea: «La posta in gioco non è rapiti contro Rafah, ma è strategia contro politica. Porre fine alla guerra, di fatto, è una decisione strategica che apre la porta all’uscita dall’abisso nel quale siamo precipitati il ​​7 ottobre e apre a soluzioni con le quali Israele può convivere e prosperare».

Il pessimismo non è un progetto. L’opinione pubblica si muove

Gli israeliani democratici e liberali dopo aver manifestato per 39 settimane contro il cambiamento di regime (sempre in corso) ora non smettono di chiedere nelle piazze al governo più flessibilità per la liberazione degli ostaggi e nuove elezioni dopo il fallimento del 7 ottobre (le vuole l’85% dei cittadini israeliani). Allo stallo della guerra sia al sud che al nord (con 200mila sfollati) corrisponde uno stallo della mappa politica, dove i protagonisti temono ciascuno di compiere un primo passo «falso» verso il cambiamento. Non si intravede una nuova leadership all’orizzonte in grado di catalizzare l’attenzione degli israeliani.

Ad esporsi sugli schermi sono spesso vecchi leader, che in passato si sono già giocati le loro carte, come Ehud Barak o Ehud Olmert, che dopo aver scontato una condanna per corruzione ha lasciato intravedere la possibilità di tornare in politica, così come vorrebbe fare Naftali Bennet, primo ministro nel «governo del cambiamento». Alla finestra rimane l’ex capo del Mossad Iossi Cohen, posizionato a destra nello schieramento politico.

A sinistra le primarie del partito laburista vedono ai nastri di partenza Yair Golan, ex-generale, e Avi Shaked, uomo di affari. Il primo è un fautore di un’unione a sinistra col partito Meretz, del quale faceva parte (4 seggi per i sondaggi), mentre il secondo crede in un partito laburista autonomo senza alleanze (zero seggi secondo i sondaggi). Al di là delle alchimie partitiche l’agone politico aspetta dei leader con un piano, che rimetta lo Stato d’Israele su un binario di pace e democrazia ed emargini le pericolose suggestioni messianiche teocratiche dei ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich.

Non è un’impresa impossibile secondo Guy Rolnik, giornalista del quotidiano economico The Marker, e docente part-time di economia all’università di Chicago. Rolnik invoca ottimismo: «Dobbiamo adottare un ottimismo realista, sagace e determinato. Il pessimismo non è un piano di lavoro», ha scritto su The Marker. «Meritiamo ogni critica alle nostre scelte, che ci hanno trascinato in questa terribile depressione. Ma sappiamo anche che in Israele esistono cittadini liberali, determinati e ricchi di contenuti, che sono riusciti a costruire in 75 anni nel cuore di una regione terribilmente complicata uno dei paesi più meravigliosi del mondo. Dobbiamo affrontare un compito non meno difficile di quello col quale si misurarono i nostri genitori e i nostri nonni. Combatteremo, combatteremo e cambieremo. Perché questo è quello che si aspettavano e si aspettano che facciamo».

In foto di copertina una immagine della trasmissione “Incontro (Peghishà)” andata in onda su Canale 11. Sono ritratti i giornalisti Suleiman Maswadeh e Roni Koban.

Analisi di Gabriele Eschenazi

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