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L’attività fisica allunga la vita

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L’uso terapeutico dell’esercizio fisico

DOTTNET | 21/06/2022 13:58

Studi su larga scala mostrano che 150 minuti di attività fisica a settimana da moderata a vigorosa riducono il tasso di mortalità relativa di circa il 33%, mentre tempistiche aggiuntive producono ulteriori ma relativamente minori benefici

L’attività fisica inadeguata rappresenta oggi un grave problema per la salute pubblica a livello globale. Nonostante l’esercizio fisico sia ampiamente considerato una “medicina”, pochi medici apprezzano il razionale scientifico alla base dell’esercizio e il suo pieno potenziale terapeutico.[1] 

Una prospettiva evolutiva illustra come e perché l’attività fisica duratura e costante riduca la morbilità e la mortalità. Gli esseri umani sono stati selezionati per essere considerevolmente più attivi di altri primati, compresi i nostri parenti evolutivi più stretti, le grandi scimmie (ad esempio, gli scimpanzé). L’ultimo antenato comune di umani e scimpanzé era probabilmente un animale simile a uno scimpanzé relativamente inattivo, che trascorreva la maggior parte del suo tempo nutrendosi e riposando. Questo antenato comune probabilmente camminava in media solo da 3 a 4 km al giorno, saliva circa 100 m al giorno e occasionalmente correva solo per brevi distanze.[2] La selezione naturale e l’evoluzione hanno portato al proseguimento della specie del bipede che sicuramente praticava una maggiore attività fisica. Circa 2-3 milioni di anni fa, quando l’uomo si è consolidato come bipede, i livelli di attività fisica sono aumentati ulteriormente, allo scopo di praticare la caccia e la raccolta. [3] Dopo la rivoluzione agricola e per gran parte della prima rivoluzione industriale, i livelli di attività fisica umana sono rimasti elevati.[4] Successivamente hanno subito un vero e proprio crollo nelle popolazioni industrializzate a causa presumibilmente dell’ampia disponibilità di automobili e mezzi pubblici, dell passaggio a lavori d’ufficio che implicano poca o nessuna manodopera, dell’incremento dell’uso di macchine per il risparmio di manodopera come lavatrici e ascensori e lo sviluppo di computer, televisione , e altre forme di intrattenimento passivo che scoraggiano l’attività fisica nel tempo libero.[1]  

L’esercizio fisico è considerato una vera e propria “medicina” in quanto previene un elevato numero di patologie. Tuttavia, un’affermazione complementare, forse più accurata, è che l’inattività fisica è un potente fattore di rischio per lo sviluppo di patologie. Poiché gli esseri umani si sono evoluti per essere fisicamente attivi, anche in età avanzata, l’assenza di un’attività fisica abituale per tutta la vita rappresenta un “disadattamento evolutivo”.[5]

Studi su larga scala mostrano che 150 minuti di attività fisica a settimana da moderata a vigorosa riducono il tasso di mortalità relativa di circa il 33%, mentre tempistiche aggiuntive producono ulteriori ma relativamente minori benefici. Sebbene questa raccomandazione oggi sia fortemente consigliata per la salute pubblica, la maggior parte della popolazione tende sempre più a preferire l’inattività fisica.[1]  

Di che natura sia la relazione tra esercizio fisico e salute, causale o correlativa, è ancora di elevato interesse scientifico. [6] 

Ad oggi, non ci sono stati studi randomizzati, prospettici e sufficientemente significativi che dimostrino l’impatto favorevole dell’esercizio sugli eventi cardiovascolari o sulla mortalità. Tuttavia, studi interventistici randomizzati hanno mostrato un beneficio dell’esercizio per la prevenzione del diabete, il controllo glicemico, la perdita di peso, la perdita di grasso e gli aspetti neuropsichiatrici legati all’obesità. [7] Sebbene l’incidenza della maggior parte delle malattie aumenti con l’età cronologica, la patologia cronica non è una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento. Invece, la maggior parte delle malattie croniche sono ascrivibili frequentemente alla diminuzione dei livelli di attività fisica e all’aumento dei livelli di sedentarietà, insieme all’aumento del consumo di alimenti altamente conservati e modificati e ad altri cambiamenti ambientali.[1] Fortunatamente, un modo semplice, ma non molto praticato per affrontare questo costoso cambiamento, è promuovere, abilitare e prescrivere esercizi in modo più costante ed efficiente. Purtroppo, la scienza dell’attività fisica è sottorappresentata nell’educazione medica tradizionale, lasciando i medici con poche conoscenze e competenze per sfruttare al meglio e secondo principi scientifici questo potente strumento. L’esercizio fisico non dovrebbe essere visto come un’attività facoltativa per coloro che sono abbastanza fortunati da avere i mezzi, il tempo e la motivazione per farlo; piuttosto, andrebbe considerato come un mezzo per ridurre la vulnerabilità a molte malattie, allungare l’aspettativa di vita e ridurre l’utilizzo di farmaci.[1] 

Bibliografia:

  1. .J. Sawalla Guseh, M.D. et al. The Evidence for Exercise in Medicine — A New Review Series. NEJM Evid 2022; 1 (3)
  2. Pilbeam DR, Lieberman DE. Reconstructing the last common ancestor of chimpanzees and humans. In Muller MN, Wrangham RW, Pilbeam DR, eds. Chimpanzees and human evolution. Harvard University Press, 2017:22–141.
  3. Raichlen DA et al. Physical activity patterns and biomarkers of cardiovascular disease risk in hunter-gatherers. Am J Hum Biol 2017;29 :e22919 10.1002/ajhb.22919.
  4. Leonard WR. Lifestyle, diet, and disease: comparative perspectives on the determinants of chronic health risks. In: Stearns SC, Koella JC, eds. Evolution in health and disease. Oxford, England: Oxford University Press, 2008:265-76.
  5. Lieberman D. The story of the human body: evolution, health, and disease. 2013. Pantheon Books: New York.
  6. Clarke TCNT, Schiller JS. Early release of selected estimates based on data from the National Health Interview Survey. National Cen- ter for Health Statistics. May 2019 (http://www.cdc.gov/nchs/nhis. htm).
  7. Church TS et al. Effects of aerobic and resistance training on hemoglobin A1c levels in patients with type 2 diabetes: a randomized controlled trial. JAMA 2010;304:2253-62 10.1001/jama.2010.1710.

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