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“Non uccidere”, tra fede e potere

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Non uccidere, tra fede e potere

Seminario tenuto nell’Università di Macerata il 15 maggio 2023 da Adriano Prosperi, professore emerito nella Scuola Superiore Normale di Pisa, membro dell’Accademia dei Lincei

Vorrei proporre in questo avvio del seminario un problema che tra i molti possibili in una discussione sul castigo spicca in modo speciale sul piano storico, giuridico e civile: la punizione estrema, la pena di morte. La sua è una presenza ricorrente nella cultura occidentale. Ogni volta nell’affacciarsi scatena reazioni radicali di rifiuto o di adesione, segno della forza dei sentimenti e delle convinzioni che accende sia all’interno della cultura e  della società occidentale sia nei confronti tra  culture che fa spesso insorgere. Limitandoci alla tradizione della cultura europea occidentale i due codici fondamentali presenti e in conflitto tra di loro sono da un lato  quello delle leggi mosaiche del Levitico che impongono il ricorso  alla pena di morte come sanzione per molti atti e comportamenti, e dall’altro il comandamento biblico e poi evangelico “Non uccidere”. Il cristianesimo vi ha introdotto di suo il culto di Gesù come figlio di Dio morto sulla croce per una sentenza ingiusta. Non si tratta di  una componente da poco. Quando nel ‘500 i missionari gesuiti giunsero in Giappone scoprirono che questo era un  aspetto capace di rendere incomprensibile e odiosa la predicazione loro com’era già accaduto nell’esperienza dei frati minori in India. Era meglio obliterarlo  perché esponeva all’immediato rifiuto del cristianesimo da parte della cultura aristocratica dominante. Fu così che il loro superiore Alessandro Valignano si dedicò a comporre il suo “Cerimoniale” con suggerimenti e proposte di regole di comportamento che rivoluzionarono la strategia della penetrazione gesuitica. Invece nella cultura occidentale furono le virtù della mitezza e del perdono   quelle che si imposero non solo nella  morale ma anche nell’amministrazione della giustizia. Il crocifisso si guadagnò in tal modo un diritto alla presenza sui luoghi delle esecuzioni capitali come nelle aule dei tribunali . Ma intanto l’opinione di chi si azzardava a contestare il ricorso alla pena capitale fu colpita dalla condanna  per eresia.

   Le condizioni cambiarono con l’età contemporanea  e la crisi del legame fra trono e altare. Sintomo e prodotto di questa crisi fu l’uscita   a stampa nel 1823 de “L’ultimo giorno di un condannato” di un Victor Hugo allora ventiseienne. Lo scritto  ebbe immediato successo e scatenò vivissime polemiche. Da lì nacque un filone letterario di lunga durata, in cui spiccano i nomi di Fjodor Dostoevskij e di Albert Camus. Nel caso di Dostoevskij la riflessione sulla pena di morte fu stimolata dall’esperienza personale dell’autore, che aveva vissuto in prima persona  l’ultima giornata del condannato. Arrestato e condannato a morte nel 1849 per avere partecipato agli incontri di una società segreta, conobbe la grazia di uno zar reazionario e sadico con l’annuncio all’ultimo istante della  commutazione della pena in quella dei lavori forzati in Siberia. Ma nei pensieri sulla pena capitale che Dostoevskij fece pronunziare al principe Myškin de “L’idiota” spicca il richiamo al comandamento biblico “Non uccidere” e quell’idea “cristiano-patriarcale” che secondo Eric Auerbach pervadeva la cultura russa    rispetto alla modernità europea[1]. Nella cultura europea occidentale incontriamo tradizioni e memorie di una secolare vicenda di rapporti fra pratiche di giustizia e reazioni di coscienze cristiane. Lo testimonia il capitolo trentesimo del libro di Victor Hugo, quello in cui il condannato descrive il colloquio  in carcere col prete inviato per prepararlo alla morte. Il prete è un uomo eccellente, gentile d’aspetto e  caritatevole, ma ha consumato la sua vita nel consolare tanti condannati e così col tempo si è abituato a ripetere argomenti annotati in un suo quaderno di appunti che si rilegge ogni volta.  Il condannato ne è irritato e deluso.  A un certo punto lo invita a lasciarlo solo. Al prete che si offre pronto a tornare risponde freddamente:« Ve lo farò sapere”. Ne nacque un’accusa di empietà per l’autore. Non l’empietà ma un desiderio di autentica fraternità cristiana era quello che  l’autore voleva sottolineare nel condannato, deluso dal burocratico esercizio del suo compito da parte del prete. Lui sentiva il bisogno di essere consolato dall’abbraccio fraterno di un sacerdote autenticamente coinvolto e scosso dall’incontro col morituro.  Avrebbe voluto che decidesse spontaneamente di restargli vicino durante tutta la fase pubblica dell’esecuzione, di salire con lui sulla carretta per mettergli davanti agli occhi di continuo  il crocifisso, allo scopo sia di  consolarlo sia di  nascondergli la folla tumultuante e  assetata di sangue:  e che alla fine lo abbracciasse stretto nell’ultimo addio ai piedi del patibolo. Solo così il condannato immaginava che il suo cuore potesse intenerirsi e aprirsi alla consolazione davanti alle lacrime e alla commozione fraterna di quella presenza amica :allora, si diceva, «lui avrà catturato l’anima mia e io prenderò il suo Dio”[2].

   Sul conforto religioso ai condannati Hugo ritornò anche nel secondo racconto di un altro  caso di esecuzione capitale, quello realmente accaduto di Claude Gueux, un giovane finito in prigione  e mandato al patibolo per una serie di svolte sfortunate della sua vita. E stavolta l’incontro col prete confortatore e col boia era stato diverso. Claude era stato umile nel dare la sua anima al prete e dolce nell’abbandonare il suo corpo al boia[3]. Sono passi da cui racconti emerge chiaramente una conoscenza  non superficiale  dell’antica tradizione del conforto religioso dei condannati a morte. Il percorso del primo condannato verso la place de Grève sulla carretta, quella che David aveva rapidamente abbozzato nel suo celebre disegno dell’esecuzione di Maria Antonietta, viene descritto dal personaggio dell’anonimo condannato  di Hugo coi particolari del conforto religioso descritti nelle arti di ben morire e nei manuali per confortatori stampati fra ’400 e ‘600[4]. A loro si raccomandava di nascondere col crocifisso o coi dipinti su tavolette di sofferenze di Cristo o di martiri la folla degli spettatori e di aiutarlo a  concentrarsi sul prossimo incontro con Gesù e i suoi santi nell’altra vita[5]. Il bisogno del condannato di sentirsi intenerire il cuore per poter morire da cristiano ricorda la   Recitazione del caso di Pier Paolo Boscoli  e di Agostino Capponi di Luca Della Robbia: Hugo non poteva conoscerla (venne pubblicata solo nel 1839). Ma quello era proprio il sentimento che i membri delle confraternite italiane attive da secoli nelle città  italiane  dovevano cercare di stimolare nei condannati.   

     La vicenda delle origini e della diffusione di questa pratica del conforto dei condannati era stata molto lunga  e complessa, passando da origini dominate da iniziative di viva partecipazione alle sofferenze dei condannati a una sempre più decisa forma di legittimazione della pena capitale [6] . Alla violenza della pena capitale il cristianesimo antico e medievale aveva opposto molto presto la sua alternativa: non solo la promessa di un’altra vita al di là della morte terrena ma soprattutto l’abbraccio fraterno di esseri umani. E’ celebre la lettera di santa Caterina da Siena che racconta l’intenso legame suo col condannato Niccolò di Toldo e le nozze mistiche celebrate nel sangue del patibolo . Ma col tempo il rito della presenza e della condivisione in cui si esprimeva la presa di distanza cristiana se non la contestazione della condanna a morte, era stato confiscato e ristrutturato dai poteri vigenti, quello politico come  quello religioso, in modo tale  che i confortatori non furono più donne e uomini del popolo ma esponenti di un’elite sociale raccolti in corpi istituzionali potenti e privilegiati, dediti all’organizzazione della scenografia della pena capitale come grande spettacolo celebrativo della utilità e giustezza della pena a cui il condannato doveva collaborare a gloria del potere.

In Francia quella pratica era giunta nella fase tarda, introdotta da italiani (quella di Lione nacque nel primo ‘600 grazie al mercante milanese Cesare Lauro). L’avevano diffusa i gesuiti che con opere come  il trattato di Joseph Philère si erano fatti divulgatori della devozione in tutti i luoghi delle loro missioni[7]. Resta comunque il fatto della precoce attenzione di Victor Hugo a questo aspetto del rituale del conforto dei condannati nel contesto di una Francia dell’età della restaurazione ritornata diffusamente alle pratiche d’Ancien Régime.  E bisognerà tenere nel debito conto quello che narra la biografia di Hugo scritta dalla moglie a proposito della grande impressione esercitata su di lui ancor giovanissimo dallo spettacolo  delle impiccagioni viste lungo le strade italiane quando aveva accompagnato madre e  fratelli nel viaggio per incontrare il padre, ufficiale nell’esercito di Napoleone[8].Sui sentimenti di Hugo nei confronti della religione esiste una intera letteratura. Da questi scritti giovanili si affaccia un suo giudizio sul declino generale della fede religiosa che in realtà si fondava sul caso della Francia. Hugo ricordava il grande successo dello scritto celebre di  Cesare Beccaria, ma anche  il pensiero di Voltaire e  lo sbocco rivoluzionario coi dibattiti sull’abolizione della pena capitale. Ne era risultata secondo lui una regressione della fede tradizionale tale  che perfino i bambini e le folle popolari non vi credevano più e si era cancellata del tutto la speranza della sopravvivenza dell’anima. Lontani i tempi in cui il patibolo era la frontiera del cielo[9].Quanto alla pena, restavano i poteri politici e religiosi  a sostenerne l’utilità, in nome del ricorso al terrore delle pene per tenere in obbedienza i popoli. Ma di fatto, a suo avviso nemmeno i giudici potevano più sottrarsi al dubbio di essere in realtà degli assassini.

 Victor Hugo non era il solo allora a giudicare la Francia un paese ormai scristianizzato  e a rimpiangere il passato. Ma non è questo il tema che ci sta davanti. Qui si vorrebbe affrontare rapidamente  la questione del rapporto tra la religione cristiana e la pena di morte. Vale la pena a questo riguardo segnalare  quello che accadeva nell’Italia dell’800. La parentesi della rivoluzione francese e dell’età napoleonica aveva portato anche negli stati italiani profondi mutamenti nella concezione e nella pratica  della giustizia criminale. Nella Toscana erede del pensiero di Beccaria e delle riforme di Pietro Leopoldo che avevano cancellato pena di morte e tribunale dell’inquisizione, il patibolo era  rientrato dalla finestra  nel 1790 per i crimini di  Stato. Così aveva voluto  un sovrano che dopo avere lasciato la Toscana per assurgere al potere imperiale, aveva incupito i suoi pensieri al punto da ritornare a misure repressive  per fronteggiare i movimenti sociali in atto. Nel nuovo secolo le oscillazioni degli orientamenti e delle convinzioni videro  il caso clamoroso di un celebre avvocato criminalista,  Giovanni Carmignani. Costui, figura di grande spicco nel suo campo, traduttore nel 1810 del codice penale napoleonico e autore di scritti importanti sul sistema delle pene, espose il suo pensiero sulla pena di morte in una  “Lezione accademica sulla pena di morte” pubblicata nel 1836.  Qui si dichiarò  apertamente a favore  dell’abolizione del patibolo. Ma incorse nell’immediata pubblicazione nell’Indice dei libri proibiti[10] . Autore della censura era stato il consultore della Congregazione Giuseppe Maria Graziosi, il quale scrisse nel suo giudizio che per la Santa Sede l’attacco alla pena di morte equivaleva a un ritorno di fiamma delle eresie dei Catari, di «alcuni discepoli di Wicleffo» e degli anabattisti. La Chiesa era determinata più che mai a difendere il diritto suo e degli stati di dare la morte. Carmignani all’inizio sembrò deciso a non preoccuparsene: scrisse al Gian Pietro Vieusseux che forse a Roma « la umanità..passa per eresia». Ma gli ideali umanitari della sua cultura cedettero rapidamente il posto a una ritrattazione integrale di quello che aveva scritto. Implorò umilmente  il perdono e promise che avrebbe modificato il testo della sua lezione. «Come figlio della Chiesa cattolica – scrisse al consultore vaticano –  «accetto e venero il giudizio della Santa sede». E dichiarò di non avere mai avuto l’intenzione di «negare alla suprema autorità dello Stato il diritto di vita e di morte sui perturbatori dell’ordine pubblico» [11].

   Questa abiura fece clamore. Anche perché accanto a illuministi pentiti e a cattolici obbedienti c’era qualcuno capace di tenere fede alle proprie convinzioni umanitarie. Mentre a Pisa  Carmignani si piegava senza indugio alla dottrina romana un suo allievo, Francesco Carrara, anch’egli cattolico, era impegnato a Lucca in  ostinati tentativi di sottrarre al patibolo chi vi finiva per volontà della bigotta duchessa Luisa Maria di Borbone-Francia, per la quale bastava la deturpazione di una delle infinite immaginette devote sparse sui muri della città per mandare a morte gli autori sulla base di un codice dove per il reato  di  sacrilegio c’era solo il patibolo  [12]. Francesco Carrara è ben noto nella storia del diritto e della legislazione non solo italiana per la grande attività intellettuale e morale svolta nel combattere i fondamenti su cui si basavano le opinioni favorevoli al patibolo, battendosi   in nome di quello che è stato definito un  giusnaturalismo cattolico[13] . Fu grazie alla sua intensa al movimento contro la pena di morte che si giunse alla sua cancellazione nel codice Zanardelli.

   Non mancano altri esempi di come un cristianesimo vissuto si sia mostrato capace di mandare messaggi di contestazione della pena di morte.  Se ne ricorderanno qui solo due, uno tratto dal cmpo delle rappresentazioni, l’altro da quello dell’impegno personale nei “bracci della morte” degli Stati Uniti.  Il primo è un film: il mediometraggio Non uccidere del regista polacco  Krzyzstow Kieslowski (1989), opera di un regista geniale e inquietante .  In questo episodio di una riflessione per immagini su ciascuno dei comandamenti del Dio biblico, si racconta la vicenda (immaginaria)  di un giovane che per punirsi di una colpa  che lo angoscia compie un delitto per ottenere che lo si condanni a morte.  E qui ritroviamo qualcosa di storicamente noto: il caso delle donne che nelle culture pietiste di paesi protestanti del ‘700 avevano praticato il ricorso a una specie di suicidio indiretto. Volevano suicidarsi ma temevano le  pene eterne per i suicidi che la tradizione teologica aveva desunto dalle parole di Gesù a proposito di quello di Giuda. Perciò avevano pensato di ricorrere a un delitto punito con la pena capitale – l’infanticidio. Così, mentre l’anima del neonato battezzato volava in Paradiso, la  sua assassina  otteneva di essere mandate a morte dai tribunali con tutti i conforti religiosi e il perdono di ogni colpa, e cioè la garanzia di morire salvando l’anima. Solo l’abolizione della pena capitale e la sua sostituzione col carcere a vita per l’infanticidio decisa  dal re di Danimarca Cristiano VII aveva fermato una deriva preoccupante di fantasie di morte e di salvezza eterna che si erano rapidamente diffuse[14].

  L’altro episodio è quello che ha avuto come protagonista  una religiosa statunitense, suor Helen Prejean, nata nel 1939, che si è dedicata  alla missione personale del conforto umano ai condannati chiusi nel “braccio della morte”. Questo suo impegno teso a umanizzare le spaventose condizioni di vita di questi esseri umani è stato da lei raccontato in un libro il cui titolo (Dead man walking) è stato ripreso da un film di grande successo, alimentando una campagna  abolizionista americana che sta lentamente raggiungendo i suoi effetti.

Questi episodi sparsi tra ‘800 e ‘900 hanno in comune la diffusione di un rifiuto della pena capitale nella cultura europea per motivi religiosi da un lato e di convinzione umanitaria dall’altro. I motivi religiosi dei cristiani si sono fondati sull’insegnamento dell’ebreo Gesù predicatore del perdono e della non resistenza al male, morto per una condanna capitale ingiusta  e adorato come dio. Questo carattere originario iscritto nei testi evangelici ne ha accompagnato nei secoli la tradizione. Ma diventato il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero romano e poi quella dei popoli germanici, con l’ascesa al potere del vescovo di Roma si ebbe l’esercizio di un potere papale che portò con sé l’accettazione del sistema legale delle pene ivi inclusa quella capitale. Questo tipo di pena conosce oggi una contestazione radicale da parte di movimenti e gruppi di opinione e una  tendenziale regressione negli Stati di cultura europea e di tradizione religiosa cristiana ma resta tuttavia diffusamente praticata nel mondo in paesi di tradizione cristiana e di altre culture. .

    Qual è il rapporto storico e quello presente nel mondo tra la pena capitale e la dottrina ufficiale delle chiese cristiane? Nell’ultima versione di un mio libro comparsa da Harvard due anni fa il titolo “Crime and Forgiveness” riprende letteralmente quello della versione italiana – “Delitto e perdono” . Il titolo evoca e corregge il titolo del grande libro di Fjodor Dostoevskij, Delitto e castigo (1866). Come tutti sanno, nell’opera di Dostoevskij l’assassino è lo studente Raskolnikov che compie il delitto uccidendo con una scure l’anziana strozzina come atto necessario –  mosso dalla convinzione che sia giusto uccidere se è necessario procurarsi i mezzi necessari per spezzare la schiavitù della miseria e aprirsi la strada per diventare il grande uomo che c’è dentro di sé – diventare Napoleone. Ma alla fine si arrende, la lettura di una pagina del vangelo di Giovanni da parte di Sonia lo converte. Cercherà il riscatto nel lungo processo di una punizione.  Si potrebbe forse riconoscere in  lui la riprova della tesi espressa da Bartolo da Sassoferrato col principio «Qui delinquit amat poenam» su cui ha richiamato l’attenzione Mario Sbriccoli in un saggio importante. Resta difficile misurare quanto questo meccanismo dell’interiorizzazione della norma funzioni nel tempo lungo.  Una cosa è certa: il sofferto cristianesimo di Dostoevskij era ben diverso da quello della Chiesa cattolica, colpevole secondo lui di avere adottato il duro realismo del Grande Inquisitore: l’umanità non è stata redenta dai miracoli di Gesù.

Anche nel mio libro si parla di condannati a morte che sono convinti da cristiani dediti all’aiuto a chi muore a presentarsi al patibolo pentiti dei loro delitti e a dare agli spettatori il modello del proprio pentimento e l’impulso al ben fare. Il senso del titolo è che il cristianesimo della Chiesa occidentale in realtà più che diffondere il principio del perdono delle offese, ha offerto una legittimazione sostanziale all’uso della pena capitale. E questo in due modi: sul piano teorico con la tesi paolina del potere come ordinato da Dio,per cui se il potere decide di toglierti la vita per punirti tu devi accettarlo come  voluto da Dio. A questo principio dottrinale la teologia ha aggiunto una messa a punto fondamentale: a partire dalla “Summa theologica” di S.Tommaso d’Aquino la legittimità della pena di morte è stata fondata sulla necessità di tutelare il “bonum commune” minacciato da malfattori e assassini. Sul piano non formale della teologia ma reale e sostanziale il legame tra potere spirituale e potere temporale si è reso evidente  con l’alleanza concreta della benedizione religiosa dell’esecuzione capitale. Qui al condannato che si preparava a morire la Chiesa  ha offerto la possibilità di salvare eternamente la sua anima accettando la pena, quand’anche ingiusta, come punizione per i suoi peccati. Così la legge biblica del taglione e la durezza estrema delle punizioni dell’antico diritto germanico hanno reso la pena di morte un momento importante dell’addomesticamento della società grazie all’approvazione ecclesiastica prima e poi alla lenta e progressiva elaborazione di   riti di perdono dell’anima associati al rituale dell’esecuzione che approdarono alla costruzione tardo-medievale di un rito pubblico dell’esecuzione come  teatro della trasformazione del condannato in martire. Si trattò nella  realtà storica di un processo lungo e  ricco di svolte e contrasti .

 E’nella struttura ecclesiastica dell’impero medievale  che si pone il problema di come interpretare il principio paolino del riconoscere nel diritto di punire del sovrano la volontà di Dio. Nell’antica pratica penale dei popoli germanici il condannato era un sacrificio umano offerto agli dei che aveva offeso. Il suo corpo veniva abbandonato con altre carogne , “sepolto coi cani”, come attesta Reginone di Prum . Così alla condanna a morte il potere laico chiederà alla Chiesa di sommare l’esclusione del condannato dai sacramenti suscitando talvolta la protesta da parte ecclesiastica,  come accadde al sinodo di Reims del 630. L’ esclusione durerà a lungo perché ancora nel ‘300 è col re di Francia che si ha uno scontro da parte papale perché il sovrano si accredita poteri sacrali e non vuole che colui che lui condanna si veda perdonato nella vita eterna.

 Di fatto, è nelle città italiane rette a comune sotto la protezione del vescovo che si avvia la pratica di concedere al condannato la confessione. La testimonianza visiva più  efficace è quella offerta da  Dante nel canto XIX dell’inferno quando si mostra piegato verso il suolo per ascoltare papa Niccolò III: “Io stava come’l frate che cofessa/ lo perfido assessin, che poi ch’è fitto/ richiama lui perché la pena cessa”

La confessione di un peccato dimenticato si può fare anche mentre si sta per essere infilato per la testa nella terra. E l’episodio già ricordato che ebbe a protagonista   santa Caterina da Siena, è un caso estremo di quel movimento dal basso che portò donne e uomini del popolo a associarsi alle esecuzioni per confortare il condannato e chiederne il pentimento e la confessione come condizione perché il suo corpo non finisca con quelli delle carogne animali ma trovi custodia in terra benedetta. Vi si esprime una affermazione della vita civile per sconfiggere la paura del ritorno degli spiriti dannati. Da qui si svilupperà un processo che renderà istituzionale la presenza religiosa del confessore e dei membri delle confraternite di giustizia come realtà tipicamente italiana capace però di trovare diffusione e nuove forme fuori d’Italia e anche fuori d’Europa.

Questa è anche l’epoca della Rivoluzione papale, com’è stata definita l’affermazione del papato come  vicedio, titolare per delega divina della somma dei poteri sulla terra.  A partire dai decreti di Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV , il sistema di controllo sociale si basa sull’obbligatorietà della confessione per tutti i cristiani: un tribunale della coscienza  a cui si associa  quello dell’Inquisizione contro eretici e streghe. E anche il rituale  delle esecuzioni capitali assume grande importanza come strumento di controllo sociale e religioso. Al centro della giustizia mondana come della giustizia religiosa si colloca l’obbedienza alla Chiesa come potere e la trasparenza del cristiano come suddito, al quale si chiede la volontà di obbedire e di credere quello che crede la santa madre chiesa. E’ il sistema dei tribunali  della coscienza che troverà la sua piena espressione a metà ‘500  con l’obbligo del penitente di rivelare e denunziare i sospetti di eresia .

Con la Riforma protestante il sistema delle pene, amputato della fede nel Purgatorio, trova nella variante del pietismo e nella dottrina della fede che salva lo stimolo per forme di conforto ai condannati molto simili a quelle del cattolicesimo. Ma anche nella società puritana installata in America, dove il codice penale fu ricavato direttamente dalle leggi mosaiche dell’Esodo, l’esecuzione capitale divenne un rito a forte componente religiosa cristiana.

Solo nel ‘700 illuminista le confraternite di giustizia perdono la loro importanza politica e sociale. Manca la fede nel purgatorio e nell’esistenza dell’altro mondo,  si diffonde il modello del “morire all’inglese” come scrisse allora Alessandro Verri a suo fratello Pietro, cioè mostrandosi forti e lucidi nel discorso alla folla dall’alto del patibolo . Il che non impedisce che a lungo resti vivo il ricordo di quelle tradizioni e che ancora in pieno ‘800 le antiche confraterrnite continuino a riunirsi per esercitarsi nell’arte di convincere il condannato a morire cristianamente. E’ questo l’aspetto assunto nella società dal cattolicesimo propagato dalla Chiesa che dal Vaticano sorveglia e condanna chi osa sostenere le idee di Beccaria.  

        Il legame tra religione e pena capitale è provato non solo dal suo successo di lunga durata, ma dal suo stesso epilogo. Questo modo di far morire è entrato in  crisi solo quando si è cominciato a non credere più all’immortalità dell’anima umana. Non per questo è venuta meno la pratica dell’uccisione legale che se continua a ritrarsi dalle culture occidentali si è invece mantenuta e rafforzata in culture non cristiane – Cina, paesi musulmani. Di fatto ha assunto forme più crudeli e si è diffusa ancor più nel mondo.  E intanto non per questo la Chiesa ha cambiato opinione sulla legittimità di tale pena. Quella che è scomparsa è la partecipazione collettiva all’esecuzione nella forma della fraternità col morituro fondata sulla fede nella vita eterna e sull’idea di un Dio giusto.

Da quel modello medievale la Chiesa cattolica si è distaccata con difficoltà. La pena di morte ai suoi occhi ha conservato a  lungo la sua intoccabile legittimità. E ancora in tempi recenti questa dottrina ufficiale è stata sancita formalmente dal Catechismo della Chiesa cattolica  varato da Papa san Giovanni Paolo II. Fino a tempi recenti vi si leggeva la conferma della liceità di ricorrere all’assassinio come mezzo di difesa contro una ingiusta aggressione. Lo ha ricordato il settimanale cattolico inglese “The Tablet” recensendo l’edizione americana del volume dello scrivente “Delitto e perdono” qui più volte citato[15]. , Il recensore ha sottolineato  il paradossale rapporto tra un cristianesimo come religione della misericordia e del perdono e una chiesa che per duemila anni non solo ha tollerato la pena di morte ma ha dato il suo appoggio alle pene capitali inflitte dai poteri statali.

    Naturalmente la preoccupazione del settimanale cattolico riguarda la Chiesa che rischia di comparire  come una fautrice attiva della pena capitale non solo sul piano pratico per il ricorso al patibolo nel suo stato  ma anche su quello teorico – la dichiarazione di liceità – e infine su quello della costruzione del rituale pubblico per creare l’immagine del  criminale come peccatore pentito e salvato, destinato alla vita eterna, invocato dalla folla come un santo.

 Questa tradizione del perdono del criminale è stata lunghissima e non  ha riguardato solo la scenografia pubblica dell’esecuzione capitale ma ha invaso anche il luogo della confessione sacramentale. Come osservò fra Paolo Sarpi nei capitoli aggiunti alla relazione di John Sandys sulla religione italiana, il confessore aveva il potere di assolvere nel segreto del colloquio col penitente  non solo dai peccati ma anche dai delitti. E questo è stato solo un aspetto dell’intreccio inestricabile tra Chiesa e società civile, tra potere politico e potere religioso. Come mostra la storia  dei nessi formali e sostanziali tra la scomunica “latae sententiae” e il “crimen lesae maiestatis”, i due poteri hanno proceduto in stretta simbiosi, nel senso che l’invenzione della scomunica contro l’eretico ha aperto la strada a quella del reato politico per eccellenza.   L’importanza e la lunga durata di questa alleanza che la Chiesa ha mantenuto viva per per molti secoli appare adesso in una fase in cui  il sistema sembra giunto all’appuntamento finale ma la frattura scuote la cristianità in modo radicale.  La svolta decisiva è stata data dal pontefice regnante, il gesuita Jorge Bergoglio, diventato papa col nome di Francesco. La novità di questo pontificato si è resa evidente in molti modi, fino al punto di creare forti tensioni nel mondo cattolico. Il nuovo pontefice ha suscitato  grande scalpore  quando ha dichiarato di credere in Dio, ma che «Dio non è cattolico»[16] E, a proposito della pena di morte, ha  espresso più volte la sua opinione, molto critica.  . In un documento  del 20 marzo 2015[17] si era espresso senza mezzi termini sia contro la pena di morte sia contro quella dell’ergastolo. E sulla pena capitale aveva citato un passo  da “L’idiota”di Dostoevskij : «Uccidere chi ha ucciso è un castigo incomparabilmente più grande del crimine stesso. L’assassinio in virtù di una sentenza è più spaventoso dell’assassinio che commette un criminale».

  Papa Francesco, nel fare questa dichiarazione,  era certamente consapevole di quello che sulla pena di morte si leggeva nel Catechismo della Chiesa cattolica varato da Papa Wojtyla. Ha atteso qualche anno e poi ha proceduto  sulla via della correzione dottrinale di un predecessore così’ ingombrante e così diverso. L’11 ottobre 2017 rivolgendosi ai partecipanti all’incontro promosso dal Consiglio pontificio per la nuova evangelizzazione si coprì per così dire  le spalle con due citazioni: l’una tratta dal  discorso di apertura del Concilio Vaticano II dove papa san Giovanni XXXIII, aveva spiegato  che il compito della Chiesa non era solo quello di custodire il patrimonio della verità ma  anche quello di andare avanti dedicandosi a rispondere alle nuove esigenze della società che cambia; l’altra ripresa  dal testo con cui papa san Giovanni Paolo II aveva presentato il Catechismo della Chiesa cattolica. Ma il punto era chiaro: la pena di morte, di cui non si taceva l’impiego storico anche nello Stato Pontificio, non doveva trovare legittimazione nella dottrina cristiana dell’amore.  E così si è giunti al rescritto papale consegnato l’11 maggio 2018 al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede dove si legge il nuovo testo che ha sostituito il precedente paragrafo 2267 del Catechismo. Qui, dopo un preambolo sulla lunga durata in passato della convinzione che il ricorso alla di morte fosse “accettabile” («Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune»), si passa all’affermazione che nel presente la maturata coscienza della dignità della persona umana non lo rende più tollerabile. E si   conclude con queste parole: «Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona,  e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo»[18].

   Le premesse di una svolta così importante vanno ricercate in tendenze non recenti della cultura cattolica, come il “personalismo” di Emmanuel Mounier maturato in quella cultura francese dove l’antropologo Marcel Mauss aveva affrontato la storia del concetto di persona come frutto della definizione dell’immortalità dell’anima individuale  con la bolla Apostolici Regiminis al Concilio Lateranense V nel 1513[19]. Ma l’avvio di una svolta rispetto al cattolicesimo fatto di conservazione di assetti di potere del passato era avvenuto con papa Roncalli e  l’indirizzo da lui dato al nuovo concilio. Qui si era preso atto del fallimento della strategia del   ricorso al perdono per le anime in cambio dell’accettazione della pena di morte da parte dei condannati.

C’è però un dato di realtà che l’esperienza della pandemia del Covid-19 ci ha imposto: quello della cancellazione dei rapporti diretti, dei contatti di persona con l’altro, specialmente con l’altro malato e morente. Unici mediatori e rappresentanti dei vivi col morente sono diventati i medici. Ora, proprio nella postfazione  del mio libro io avevo azzardato una previsione di un futuro di questo tipo. Prendendo occasione dalla scoperta che nella lettura del DNA si potevano prevedere le affezioni iscritte nel nostro patrimonio biologico ereditario fino a conoscere data e causa di morte avevo immaginato un passaggio di  tutta l’umanità dallo stato attuale in cui ciascuno vive sentendosi immortale a quello della conoscenza scientifica generalizzata di data e cause della propria morte fine. Una umanità di consapevoli condannati avrebbe preso così il posto di quella che per ora è limitata ai casi di coloro che apprendono dal medico una condanna iscritta nel nome di una malattia incurabile e sono informati di quanta vita hanno davanti a sé. Ecco che la scienza è destinata a prendere  il posto della religione e il medico è colui che dovrà  sostituirsi al confortatore cristiano.  Ma l’esplosione della pandemia attuale ha anticipato i  tempi. Di fatto nei reparti di emergenza al posto del confortatore cristiano si è collocato il medico. E’ questa figura che aspetta di essere dotata della cultura e della sensibilità umana necessarie per parlare al morituro e dare corpo per lui a quanto di bello e di buono c’è stato nell’aver potuto vivere.

di Adriano Prosperi, professore emerito nella Scuola Superiore Normale di Pisa, membro dell’Accademia dei Lincei


[1] Erich Auerbach, Mimesis, Il realismo nell’arte occidentale, trad.it. Einaudi, Torino 1950, vol. 2,p.300.

[2] «…Et il prendra mon âme, et je prendrai son Dieu» (Victor Hugo, Le dernier jour d’un condamné, édition présentée , établie et annotée par Roger Borderie, Paris, Gallimard, 2000, chapitre XXX, pp.104-107, v. p. 107.

[3] «Il fut humble avec le prêtre, doux avec l’autre. Il ne refusa ni son âme, ni son corps»(Victor Hugo, Il condannato a morte Claude Gueux, a cura di Paolo Fontana, Moby Dick Cooperativa Tratti, Faenza 1996, p.60.

[4] Sulle arti di ben morire cfr Roger Chartier, Les arts de mourir 1450-1600, in “Annales ESC”,31 (1976)  .

[5] Cfr dello scrivente Crime and Forgiveness. Christianizing Execution in Medieval Europe, trad. Jeremy Carden, Harvard Univ. Press, 2020, pp.142-143.

[6]Su cui si rinvia a  Crime and Forgiveness. Christianizing Execution in Medieval Europe. .

[7] Joseph Philère, La consolation des prisonniers et des criminels condamnés à mort…, Lion 1658. Sulla confraternita di Lione cfr Crime and Forgiveness. Christianizing Execution in Medieval Europe, pp.413-16.

[8] Cfr Victor Brombert, Victor Hugo e il romanzo visionario,trad.it. Il Mulino, Bologna 1987, p. 49n.

[9] «Autrefois…l’echafoud n’était qu’une frontière du ciel»(Hugo, Le dernier jour,p.171.

[10] Cfr. sulla vicenda Marco P. Geri, Il magistero di un criminalista di foro. Giovanni Carmignani “avvocato professore di Leggi”, ETS, Pisa 2015, cap. Carmignani all’Indice, pp..145ss. Sulla figura e sull’opera di Carmignani esiste una vasta letteratura in cui si segnalano lavori di Mario Sbriccoli e Mario Montorzi.

[11] Il testo, conservato nell’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, è riportato parzialmente nel volume di Marco P. Geri, Il magistero, p. 146.

[12] Mi permetto di rinviare al mio contributo su Carrara e la pena capitale,  in Francesco Carrara nel primo centenario della morte, Atti del convegno internazionale, ed.Giuffré,Milano 1991,pp.399-409.

[13] Aldo Mazzacane, “voce” Carrara Francesco”, in Dizionario biografico degli italiani, vol.20, Roma 1977.

[14] Cfr Crime and Forgiveness,pp. 492-95.

[15]« Prosperi begins with an undeniable paradox. Christianity is a religion founded upon mercy and forgiveness, with Christ’s sufferings on the Cross central to its message of salvation. Yet for nearly 2,000 years, the Christian Church has not only tolerated but actively supported the death penalties that secular authorities impose. It has done so, in the words of the Catholic catechism, even as late as 1997, believing that execution might be the “only possible way of effectively defending human lives against the unjust aggressor».(The Tablet19_26Dec20.jpg>)».

Christmas double issue

[16] Così in un dialogo col fondatore del quotidiano “La Repubblica” Eugenio Scalfari, uscito su La Repubblica del 1°ottobre  2013. Tra le fonti gesuitiche di questa affermazione c’è il cardinale Carlo Maria Martini (v.Carlo Ginzburg, «Non esiste un Dio cattolico», in id., La lettera uccide, Adelphi, Milano pp. 213-219; v. p. 213).

[17]Lettera al presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte, consultabile on line , copyright della Libreria editrice vaticana.

[18] Il testo è stato pubblicato nel bollettino della Sala stampa della Santa Sede il 1° agosto 2018.

[19] Marcel Mauss, La nozione di persona. Una categoria dello spirito, trad. it., Morcelliana, Brescia 2013.

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