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“CESSATE IL FUOCO”

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Riceviamo e pubblichiamo l’intervento al Convegno “CESSATE IL FUOCO Giustizia per la Palestina” tenutosi a Roma, alla Casa Internazionale delle Donne il 18 novembre 2023

di Raniero La Valle

A Gaza non si sta svolgendo una tragedia locale, come tante che hanno devastato la vita di molti popoli, ma un evento di carattere epocale, che si apre a significati e forse a conseguenze di portata universale.

Intanto si deve dire che la guerra in corso non è una guerra, perché chiamarla così sarebbe una diffamazione perfino della guerra. Quei neonati allineati come fagottini fuori delle incubatrici per finire tra i detriti, gli ospedali e le chiese distrutte, 11.470 persone, tra cui 4.707 bambini, 3.155 donne e 668 anziani uccisi finora, l’intera Striscia ridotta a macerie e percossa per giorni e giorni, con premeditazione, non sono una guerra, ma una vendetta, come nemmeno nelle tragedie, una tremenda vendetta. Né questa guerra è come di norma è una guerra, il cui fine non è di uccidere: l’uccidere è il costo della guerra, il suo inevitabile strumento, non il suo fine che è invece la ragione per cui si fa la guerra, l’oggetto per cui si combatte, anche al costo della vita, tanto è vero che i morti non combattenti sono considerati “danni collaterali”, non voluti. Qui invece lo scopo è di uccidere, con la motivazione che si è stati uccisi; e il tipo di guerra fa sì che l’uccisione sia indiscriminata: quella dei palestinesi in quanto tutt’uno con Hamas o in quanto definiti scudi umani di Hamas, e quella degli operatori sanitari e dei funzionari delle ONG e dell’ONU in quanto indistinguibili dai palestinesi; e per il dopo Netanyahu la promessa elettorale dei candidati alla successione è di uccidere tutti gli attentatori di Hamas. Così Hamas è diventata la parola in codice che copre tutta la strage. Né si può dire, come si dice per le donne stuprate o uccise, che se la sono cercata. Se la causa che si invoca per giustificare la guerra è l’indiscusso diritto di Israele a difendersi, esso non può stare nell’uccidere i futuri nemici, fin dalle incubatrici e dal ventre delle madri; è vero che oggi, ad armi nucleari cariche, si anticipa la difesa mutandola in prevenzione, ma non una prevenzione come questa, più precoce di quella di Erode.

Riguardo al futuro, la rivendicazione dei coloni è quella di arrivare fino a insediamenti per 2 o 3 milioni di persone in Cisgiordania e nel contempo di ritornare a Gaza; per una loro esponente, Daniella Weiss,  di cui Barbara Spinelli ha riferito un’intervista al New Yorker dell’11 novembre, lo Stato d’Israele dovrebbe estendersi dall’Eufrate al Nilo, e i palestinesi non dovrebbero esserci più, finire tutti nel Sinai, in Egitto, in Turchia, anzi per il ministro delle finanze Bezalel Smotrich che lo aveva detto a Parigi, non sono mai esistiti, il popolo palestinese sarebbe una «finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista; dunque, causa finita.

La vera novità è che tutto ciò avviene sotto gli occhi di tutti, non in un bagliore improvviso, come per un’atomica, ma in una lungo, ripetitivo srotolarsi del tempo, giorno per giorno, ora per ora, nella generale assuefazione e nella condiscendenza dei più; le atrocità di Gaza godono di una sorta di Washington consensus, come se fosse tutto normale, come se Israele non potesse essere che così, come se la guerra fosse per statuto così, come se il terrorismo, che è la guerra dei poveri e dei senza Stato, non ci fosse alcun modo di dissuaderlo, di demotivarlo, di farne cadere le ragion. E in tal modo non c’è solo il danno emergente, ma c’è la pietà umana cessante, e avanza una nuova cultura, che non è più quella del patto degli uomini di vivere insieme, di non uccidersi a vicenda, di riconoscersi in un unico mondo di nazioni unite, se non addirittura di “fratres omnes”, ma è quella del vecchio stato selvaggio dell’ “homo homini lupus”.

La verità è che nella cosiddetta guerra di Gaza è in corso un processo che rivela una crisi totale dello stato di cose presenti, una sorta di Delenda Carthago, che non si può non prendere in carico, non si può non tentare di indirizzare verso un corso diverso, e non solo per Israele.

La domanda è che fare. Tanto più dobbiamo chiedercelo, perché non c’è solo la Delenda Carthago della Palestina e di Gaza, ma c’è una Delenda Carthago che riguarda la Terra tutta intera, per la devastazione climatica e ambientale che va avanti indisturbata, mentre noi pensiamo ad altro e non facciamo che combatterci, sicché tra guerre, rumore di guerre e rivolta della Natura stiamo veramente andando verso un abisso. Perciò torna più che mai di attualità un’affermazione fatta dai nostri amici della sinistra cristiana all’alba della Repubblica (non ricordo se si trattasse di Rodano, di Felice Balbo o Ossicini), secondo cui ci si trovava a dover affrontare “problemi sconosciuti ad altre età”. Proprio di questo oggi si tratta: non è solo questione della pace intesa come sospensione della guerra o negazione della violenza, ma della pace come alternativa di sistema, cioè come di un vero e proprio sistema di pace inteso come rovesciamento e successione rispetto al sistema di guerra o alla guerra come sistema.

Dunque, la domanda è: perché Gaza? E perché ci sta sfuggendo di mano il mondo?  Perché la Delenda Carthago della Terra, dov’è il responsabile di questi delitti in cerca d’autore?

Dello scempio di Gaza senza dubbio è responsabile e autore lo Stato d’Israele. Questo è però il compendio e l’intreccio di quattro identità diverse, che la “Legge fondamentale” approvata dalla Knesset il 19 luglio 2018 unisce in un unico soggetto. La prima componente è l’ordinamento, che viene istituito come Stato etnico, come è sancito nel titolo stesso della Legge fondamentale. “Israele, Stato Nazione del Popolo Ebraico”.  La seconda componente è il popolo ebraico come tale. Infatti  viene sancito  che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico” (e amen per gli arabi palestinesi, i beduini, i drusi, i circassi); mentre la competenza dello Stato è estesa anche al popolo ebreo della Diaspora, sia per garantirne la sicurezza quando membri del popolo ebraico siano “in pericolo o in cattività a causa della loro ebraicità o cittadinanza”, sia per “rafforzare l’affinità” fra lo Stato d’Israele e i membri del popolo ebraico, sia “per preservare il patrimonio culturale, storico e religioso del popolo ebraico fra gli ebrei della Diaspora”. La terza componente è la religione. di Israele che è la fonte da cui tutto deriva, sia l’assioma che “la Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato”, sia che “lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione”, sia che “Gerusalemme, integra e unita, è la capitale di Israele”, sia che “lo Shabbat e le festività di Israele sono i giorni di riposto fissati per lo Stato”. E la quarta componente è il messianismo, in forza del quale “lo Stato di Israele è aperto all’immigrazione ebraica ed al ritorno degli esuli”, e “considera lo sviluppo di insediamenti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento”.

Dunque c’è un ordinamento, che è lo Stato, un popolo, che è il popolo ebreo, una religione, che è la sua patria e la fonte del suo potere, un messianismo, che è il possedere la Terra e goderne i frutti pacificamente e per sempre.

È questo Stato che, come tutti ripetono, esercita il suo diritto di autodifesa a Gaza. È lo Stato, come si presenta nella sua attuale figura storica concreta. non il sionismo perché ci sono molti sionismi; contrastare lo Stato di Israele non vuol dire di per sé contrapporsi al sionismo.

Senonché le azioni compiute da questo Stato non sono attribuibili né al popolo ebreo come tale, né alla religione d’Israele, né al messianismo della fede. E nemmeno al solo Netaniahu, come tutti invece dicono mentre gli lasciano fare ogni cosa, tanto poi lo mandano via, a sgravio di ogni coscienza. Gli autori non sono questi.

L’errore, se non l’apostasia, è proprio quello dell’attuale Israele che si definisce come uno Stato ebraico. Che sia uno Stato come l’ha definito Hobbes, e come poi gli Stati si sono configurati nella modernità, non c’è dubbio. È lo Stato Leviatano, il mostro con i denti di ferro, che nasce dalla paura, reagisce all’uccisione a cui tutti sono soggetti nello stato selvaggio, per dare sicurezza e in cambio pretendere obbedienza; è lo Stato che si fa uomo collettivo, che si fa macchina, che è sovrano su tutto, e non riconosce alcun altro al di sopra di sé; ed è lo Stato che si erge quale Dio mortale, come esplicitamente lo chiama Hobbes per distinguerlo dal Dio della fede, sicché all’ homo homini lupus si sostituisce l’homo homini deus. Non ci potrebbe essere altra realtà più lontana ed opposta alla fede di Israele, al rapporto del popolo ebreo con il suo vero Dio, con la sua vera legge o Torah come la si voglia chiamare, alle sue vere Scritture messianiche. Non è possibile che dal ceppo dell’ebraismo, da cui sono venuti fuori i grandi Profeti, i Salmisti, lo stesso Gesù, per non parlare dei grandi rabbini, testimoni e sapienti che sono a loro seguiti nel tempo fino ad oggi, da Rabbi Akiva a Ben Azzai, ad Arthur Green a Yehuda Elkana, a Scholem,  Herzog, Jacob Taubes, Bruno Segre, e innumerevoli altri,  possano derivare comportamenti come quelli a cui si stanno abbandonando lo Stato e l’esercito di Israele a Gaza, così come nella colonizzazione della Cisgiordania. Anche a voler ammettere una interpretazione fondamentalista e letterale della Bibbia, non si può far risalire al Dio unico di Israele l’avallo della carneficina in corso. Non si capirebbe altrimenti il rapporto d’amore oggi ristabilito tra ebrei e cristiani, le “amicizie ebraico-cristiane”, la Dichiarazione “Nostra Aetate” del Concilio Vaticano II, il trasporto con cui papa Wojtyla ha definito gli Ebrei “i nostri fratelli maggiori”, né il dolore di molti sinceri cattolici oggi, che non riconoscono più, in tutto ciò, l’Israele che amano.

Tanto meno si può attribuire al messianismo la causa di questa indiscriminata azione militare di Israele. Se l’errore di tanta teologia cattolica è stato quello di aver fatto del messianismo una categoria escatologica rimandata a un imprecisato futuro, tanto da meritarsi l’accusa di “alienazione”, di “disperdere il tesoro nei cieli”, nell’ebraismo rabbinico la promessa messianica si sarebbe dovuta realizzare nella storia,  ma non per opera umana; non si doveva “incalzare il Messia”. L’idea era che la redenzione non è un evento ma un processo, non è una rivoluzione, ma uno sviluppo. La spiegazione della nascita dello Stato di Israele che gli studenti stranieri di ebraico si sono sentiti dare dal direttore sionista della scuola di Gerusalemme, “Il Messia non è venuto, e allora siamo venuti noi”, è inammissibile. Il “fai da te messianico” appartiene a una riduzione razionalistica della fede di Israele. E infatti una gran parte delle guide religiose e dei sapienti d’Israele era contraria a una forzatura politica del messianismo e alla istituzione di uno Stato; si temeva una catastrofe e venivano invocati i “tre giuramenti” che secondo il Midrash e il Talmud Dio avrebbe fatto fare al popolo ebreo, tra cui quello di “non salire sul muro” dell’esilio e di “non forzare la fine”. Perciò Gershom Sholem ha definito la vita ebraica come una vita vissuta nel differimento, e tre Maestri del Talmud hanno detto: che venga il Messia ma io non voglio vederlo. È stata la Scioà a mettere in crisi questa idea del rinvio: si può ricordare Menachem Begin, il “terrorista” che fece saltare l’ambasciata inglese a Roma in via XX settembre, e diverrà poi Primo Ministro di Israele, che disse: “Mai più gli Ebrei deboli e senza potere”.  Ed è impossibile considerare le colonie in Cisgiordania come una realizzazione messianica[1].

Ancor meno si possono addebitare le scelte della politica israeliana al popolo ebreo come tale. Se questo avviene è per aver fatto di Israele uno Stato etnico, lo stesso errore che fanno la Meloni e i suoi ministri quando parlano in termini di “sostituzione etnica”. Ma così si riproduce il razzismo, e proprio la Shoà ci dice che dal ripudio del razzismo non si può tornare indietro; perciò i rigurgiti di antisemitismo sono inconcepibili.

Per queste ragioni si può dire che la vera fonte dell’antisemitismo viene oggi dallo Stato di Israele. Il vero antisionista è lui.

Tutto ciò considerato siamo sfidati a comprendere ciò che veramente accade, e che deve guidarci nelle nostre scelte politiche non solo per Israele e la Palestina, ma anche per lo scontro che è in atto oggi nel mondo, per il messianismo americano, e per la devastazione della Terra.

Io credo che il vero buco nero nel quale si annida la catastrofe, sia la concezione dello Stato soprattutto quando l’assoluto della sovranità dello Stato, si salda con altri valori concepiti come assoluti, quali ad esempio le religioni, la nazione, il popolo, e magari anche la democrazia o il libero mercato. Il connubio tra l’assoluto di questi valori e l’assoluto del potere, genera mostri.

Questo vuol forse dire rinunziare allo Stato, destituirlo, per cui la soluzione sarebbe l’anarchia, o l’estinzione dello Stato? E vorrebbe dire transigere sull’ignominia di chi vuol abolire lo Stato di Israele? Certamente non è così. Lo Stato è a un grado avanzato della civiltà, mette gli uomini insieme, dovrebbe rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la pienezza della vita.  Ma è quando divinizza se stesso, che diventa un mostro, il Leviatano, che non riconosce alcun altro potere al di sopra di sé, per cui l’Altro è il Nemico, e, come dice René Girard i nemici sono speculari, l’uno è il doppio dell’altro; e il prodotto di questi Leviatani che si credono onnipotenti e sono in lotta tra loro è la guerra, è l’economia che uccide, è la società dello scarto, produce lo scacco del clima, il disastro ecologico, e non si cura della fine della specie.

La soluzione non è certo quella di negare lo Stato, ma di rifondarlo come nuovo, e questo vale anche per lo Stato di Israele. E nemmeno si devono abrogare i valori che gli sono più o meno strettamente congiunti. Occorre sanare il loro rapporto, renderlo vitale, reciprocamente liberante. Non si può chiedere agli Ebrei dello Stato di Israele di abbandonare il giudaismo, ma si può chiedere loro di non voler istituire lo Stato solo degli Ebrei, anzi di gloriarsi delle sue diverse storie, della varietà delle culture e delle lingue; si può chiedere loro di dar ragione di una fede che non fa proseliti ma genera altre fedi, di testimoniare il Messia che non viene ora, ma che ne prepara ed annunzia altri prima di lui.

Non si può offrire agli Ebrei la soluzione tutta occidentale del laicismo di Stato, per cui uno Stato vale l’altro, se ne possono fare due o tre in Israele, in Cisgiordania, a Gaza, purché ci sia un potere e un’armata che tenga tutto sotto controllo. Nemmeno si può chiedere allo Stato ebraico di passare all’ateismo, che è il non detto della secolarizzazione, o di sposare il post-teismo, che è il non detto dell’ateismo.  Tanto meno di passare al cristianesimo, problema chiuso 2000 anni fa, che sarebbe il non detto del proselitismo, che papa Francesco definisce come “una solenne sciocchezza”. E invece l’Europa dovrebbe offrire la cornice e lo spazio unitario nel quale si sdrammatizzi il conflitto israelo-palestinese come è caduta in Europa la linea Maginot.

E non solo in Europa, ma per il mondo tutto, la soluzione sta nello scioglimento dei nodi degli ibridismi religiosi, degli Stati confessionali e degli ateismi di Stato, degli Stati etici e degli Stati messianici, del nuovo secolo americano e dello scontro di civiltà, della competizione strategica e della ragion di Stato.

Per la Palestina, se non è più possibile la soluzione dei due Stati a causa dei fatti compiuti che l’hanno preclusa, bisogna mettere all’opera l’invenzione giuridica, pensare il nuovo, far sì che “nuove strutture dell’immaginario prendano vita in Terra Santa”, come scrive Marco Alloni (su “Il Fatto”). Si può pensare a un solo Stato, con una sovranità condivisa, due popoli sulla stessa terra, due ordinamenti autonomi ma conciliati, tre religioni ciascuna con le sue ermeneutiche, e molte fedi in dialogo, capaci di letture non fondamentaliste dei testi sacri, che si tratti delle Scritture bibliche, evangeliche, vediche o coraniche.

Qualcuno ha cominciato a farlo, ci sono dei costi e dei dolori, ma è questa l’alternativa al nichilismo, alle lotte iconoclaste, alla desertificazione della Terra, alla Delenda Carthago che distrugge anzitutto se stessi.

[1] Si trova la documentazione completa di tutto ciò nell’opera di Aviezer Ravitzky, premio Israele per la ricerca filosofica, “La fine svelata e lo Stato degli Ebrei”, e in Gershom Scholem, “Concetti fondamentali dell’ebraismo” (ambedue Marietti editore).

Roma, 18 novembre 2023

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