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La Gestazione Per Altri: visioni prismatiche

La gestazione per altri consiste essenzialmente in un accordo contrattuale dove una donna si impegna portare a termine la gravidanza per un bambino che diventerà poi il figlio dei cosiddetti genitori designati. In forme diverse è legale in alcuni Stati del mondo ma soprattutto, pur riguardando un esiguo numero di individui, muove intorno a sé dibattiti, animosità, accuse contrapposte. Credo possa essere costruttivo considerare la questione non tanto chiedendoci cosa ne pensiamo ma con quali idee la pensiamo. Il sociologo Z. Bauman raccomanda di distinguere le idee a cui pensiamo da quelle con le quali pensiamo, che sono come il paio di occhiali con cui guardiamo alle cose e alle altre idee. Guardare un fenomeno con diverse idee crea un effetto prismatico in cui il fenomeno stesso appare con differenti (e talvolta contrastanti, come vedremo) caratteristiche e dimensioni.

Il primo spunto da cui voglio partire per questa esplorazione è un concetto che viene espresso ripetutamente da molti: la gestazione per altri è un modo (per alcuni l’unico, si dice) per realizzare un desiderio di genitorialità. Dunque c’è un desiderio, che cozza contro limiti medici o biologici, ma che merita di trionfare; e, ovvio, si deve cercare di arrivare a questo trionfo. In principio erat desiderium, si potrebbe dire. Qualcuno lo ha detto meglio:

«Il diritto di scegliere la propria vita e il pressante dovere di diventare se stessi pongono l’individualità in una condizione di continuo movimento. […] la contrapposizione tra il permesso e il vietato tramonta per far spazio a una contrapposizione lacerante tra il possibile e l’impossibile

(A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, Einaudi Torino 1999)

L’individuo del terzo millennio, per Ehrenberg, è apparentemente emancipato dai divieti ma lacerato dalla frattura tra il possibile e l’impossibile. Nella corsa affannosa a realizzare sé stesso, lo scontro con l’impossibile è traumatico, genera rigetto, porta alla depressione. E che dire di questo specifico desiderio, quello della genitorialità? 

“La nostra è un’epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore, e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno, il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire.

(Z. Bauman, Amore liquido, Laterza Roma – Bari 2007)

Dunque abbiamo l’imperativo del desiderio, abbiamo la promessa dei piaceri genitoriali, ai quali possiamo aggiungere l’imperativo della tecnica: 

Si deve fare tutto ciò che è (tecnicamente) possibile

(U. Galimberti, Psiche e techne: l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999)

Dunque la gestazione per altri, se guardata attraverso i tre concetti precedenti, appare come un atto d’amore che può essere perfettamente inscrivibile tra i diritti civili, nella forma di diritto alla felicità e alla autorealizzazione, sotto l’egida del primato del desiderio e dell’autodeterminazione individuale.

Non manca chi pensa ci si debba domandare se non vi siano limiti all’impulso umano a varcare ogni soglia biologica e materiale, che per estensione, dai greci, definiamo Hybris, di solito tradotto con tracotanza. Ma questa, oggi, appare una domanda puramente retorica che non merita la ricerca di una risposta; il paradigma del divieto è ormai obsoleto, e di fronte al Totem dell’autorealizzazione e dell’imperativo della Tecnica opporre divieti è come contrastare la pirateria informatica con spade e lance.

La seconda angolazione dalla quale osservare la GPA è quella degli altri due protagonisti, la cosiddetta madre surrogata e il nascituro. Per quanto non trovi tutti concordi, sembra avere un certo consenso l’affermazione che

«…la surrogata non è una madre, né si sente tale

(da una testimonianza web)

Dicendo  che la surrogata non è una madre, quale significato diamo alla parola “madre”? La riproduzione dei mammiferi in termini evolutivi è la più recente e la più complessa. Essa comporta una mole ingente di scambi a tutti livelli fino a scambi cellulari (il cosiddetto microchimerismo materno-fetale). Anche dopo il parto proseguono comunicazioni regolative e auto-regolative affinate dall’evoluzione per il miglior adattamento del piccolo. È possibile comprendere, alla luce di questo, in che modo una donna che porta a termine una gravidanza non sia una madre? E in base a quale sapere è possibile affermare che non si senta tale? Chi lo afferma e in nome di chi? 

«Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, «questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno». «Bisogna vedere», disse Alice, «se lei può dare tanti significati diversi alle parole». «Bisogna vedere», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda… è tutto qua»

L. Carroll, Attraverso lo specchio

Non c’è dunque forse l’esercizio di un potere nello stabilire che la “surrogata” si senta in un certo modo, e che percepisca se stessa in un modo piuttosto che in un altro? È possibile sostenere che la donna porta a termine una gravidanza sentendo “non suo” ciò che avviene nel suo corpo?

Il neonato è indubbiamente il protagonista favorito, o meglio, il meno consapevole. Appena entrato nel mondo si trova in braccia sicure e desiderose, anche se incapaci di dargli il latte materno (ma questo avviene anche in altre circostanze, ogniqualvolta la madre non lo allatti al seno), e per lui quelle braccia sono madre, padre, tutto. Non sa, o quantomeno non realizza consapevolmente di essere stato staccato dal corpo che lo ha cresciuto e nutrito per nove mesi. Ovviamente il neonato ha gli strumenti che l’evoluzione ha dato ai mammiferi, strumenti per potersi comunque attaccare e sviluppare come nuovo individuo con le persone che, per così dire, lo hanno “commissionato”. 

Guardata con gli occhi dell’evoluzione, la riproduzione di un mammifero, la gestazione per altri appare sotto una luce diversa: 

Una forma di abbandono programmato,
sul versante del bambino.

Un uso meccanico del corpo femminile,
sul versante della donna.

L’enigma dunque resta:

a seconda delle idee con le quali la pensiamo, la gestazione per altri appare essere tante cose, un atto d’amore, un diritto civile, ma anche un uso meccanico del corpo femminile, un abbandono programmato, un atto di potere. 

Questo esiguo territorio, calpestato da un piccolo numero di coppie nel mondo, è conteso tra due visioni della vita e dell’umanità:

…se il desiderio e l’autorealizzazione siano tutto, e il vile corpo nulla, solo un cieco meccanismo da assoggettare, o se invece il corpo e la biologia siano gli unici generatori di vita, di differenza, e di identità. Se la libertà consista nel sentirsi corpo e cellule, o nel piegare il corpo al volere della fantasia e del desiderio.

Sono queste le facce del prisma attraverso cui guardiamo i diversi aspetti della GPA, come di altri fenomeni del nostro tempo.

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