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Populismo, democrazia partecipativa e questione del fabbisogno energetico

Autore: Manfredi Lanza

Da diversi anni è divenuto d’uso corrente il termine «populismo», per lo più con intento polemico e dispregiativo. Peccato sia, etimologicamente parlando, un quasi sinonimo di «democrazia».

A suo tempo, in Francia, Segolène Royal aveva diffuso e propagandato l’espressione «democrazia partecipativa». All’ideale rivoluzionario di una democrazia dal basso cui si rifà, in sostanza, questa formula socialista, i conservatori hanno da sempre opposto il principio di una «democrazia rappresentativa», formale, di facciata e quasi solo di bandiera, che lasci ampio spazio di decisione autonoma alle classi dirigenti.

È la vexata quaestio della democrazia diretta o indiretta, un tempo sollevata per giustificare la seconda, la democrazia indiretta, e fondarne il prestigio quale forma di sostituzione della democrazia diretta, la quale teoricamente incanterebbe, ma che l’esperienza aveva in varie occasioni storiche dimostrato impraticabile, nonché potenziale vettore di effetti perversi (valga per tutti l’esempio della Commune parigina del 1871).

Il presunto ideale utopico è stato per tutta la borghesia otto e novecentesca quello della «democrazia» in senso pieno e assoluto, ma si era riscontrato che essa, come tale, era inattuabile, in pratica una mera e fallace vue de l’esprit. Pertanto si ripiegava sulla democrazia indiretta, una «democrazia» di separazione dei poteri (giudiziario, legislativo, governativo) e di presunto controllo popolare mediante lo specchio per le allodole di elezioni di massa periodiche ed eventuali diritti referendari, il tutto controllabile e pilotato dai più abili tramite la propaganda.

Va da sé che questa cosiddetta «democrazia», di cui taluni si illudono, altri suggeriscono ipocritamente che sarebbe destinata a progredire verso un radioso sole dell’avvenire, è ben lungi dal configurare il «potere sovrano del popolo» e si traduce sostanzialmente in manipolazione costante dell’opinione pubblica, onde ottenerne acquiescenza e plauso, in buona sostanza onde sfruttarla.

Le politiche più incisive, nei nostri Stati cosiddetti democratici, sono sottratte in toto non solo al controllo, ma persino alla vista, alla conoscenza del pubblico: troppo importanti per essere abbandonate alla furia e al capriccio popolare. Non è stato affatto superato nel Duemila lo spirito paternalistico in virtù del quale le folle vanno tenute a bada, guidate ed educate. Da chi? Ovviamente dalle pseudo élite delle classi dirigenti, «illuminate».

Non si è consultato il popolo, in Occidente, per sopprimere la pena di morte; né per costituire l’Unione europea; né per impiantare centrali nucleari. Si è ben consapevoli che referendum popolari su tematiche del genere darebbero esiti indesiderati. Alcune maldestre iniziative sfuggite di mano, quali, ad esempio, il referendum francese voluto a suo tempo da Chirac sull’Europa e quello inglese di Cameron sulla brexit lo hanno dimostrato. Quindi la regola vuole si proceda in barba all’opinione pubblica, con l’alibi di una propria missione superiore da battistrada e timonieri salvifici.

Senonché il pubblico scopre che gli si è mentito in frangenti gravi, quali, ad esempio incidenti in centrali nucleari e contaminazioni di regioni da irradianti di origine atomica. È venuto a galla che la politica non sempre è leale, né sempre ha  le mani pulite. Si è inneggiato per decenni al progresso industriale ed ecco che ci ritroviamo con un problema mondiale di riscaldamento climatico tale da mettere in prospettiva a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana. 

Gli si è mentito alla grande, al cittadino lambda. E le competenze, la perizia degli esperti, non sembrano all’altezza dei rischi presi con tanta disinvoltura (leggi: irresponsabilità e certezza di farla sempre franca) da coloro che si arrogano il diritto di contare più degli altri. Mentono e sono incapaci i politici, mentono e sono insufficientemente capaci gli specialisti e gli industriali. Quindi, perché fidarsi? Fidarsi ciecamente – ci si accorge, forse troppo tardi – è da fanciulli, da sciocchi o da pazzi.

In materia di approvvigionamento energetico, certamente si pone la questione delle fonti: rischi e vantaggi del nucleare, possibilità o meno di far l’economia del ricorso al nucleare, corrispondenza o meno delle risorse pulite alternative al nostro fabbisogno, dal punto di vista produttivo e quantitativo. Ma la questione preliminare è se si voglia o meno proseguire per la strada intrapresa dello sviluppo economico e dei consumi a oltranza.

Anzitutto (non accessoriamente, collateralmente, bensì principalmente) occorre stabilire quale sia il nostro programma di civiltà, quale modello di società si intenda portare avanti. Sembra si sia molto esagerato nella ricerca di un benessere materiale con il corredo della licenziosità e del disorientamento etico. 

Occorre drasticamente contrastare gli sprechi di energia e gli abusi di consumo. Ciò non rappresenta un semplice sforzo complementare e marginale, ma una svolta epocale nell’organizzazione della vita civile. Indurrebbe una riduzione significativa del fabbisogno energetico, che oltretutto bisognerebbe tendere a mantenere il più possibile entro paletti stabili, evitando dilatazioni e imballamenti.

È pacifico che energie dolci non sono in grado di assorbire le nostre odierne, e tanto meno le future, richieste di energia nella misura in cui intendiamo continuare a vivere spendendo, spandendo e sperperando. Anzi, è da chiedersi se in quest’ordine di idee un programma energetico credibile possa venire realmente immaginato, essendo facile prevedere che il crescendo esponenziale del fabbisogno conduca in tempi relativamente ravvicinati ad un punto di rottura insanabile. Ma è sulla base di un fabbisogno ridotto alle sue dimensioni naturali e ragionevoli che andrebbe invece verificato quanto le energie quali l’idroelettrica, la solare e l’eolica, o altre consimili, possano soddisfare la legittima domanda di un’umanità ricondotta nell’alveo della normale moderazione.

Va trovato o ritrovato un equilibrio tra il piegare la natura alle nostre esigenze e il piegare noi stessi alle esigenze della natura. Il che significa saggezza contrapposta all’avventatezza, equilibrio contrapposto alla faciloneria di un ottimismo pregiudiziale; implica recupero del senso etico, nonché affermazione della prevalenza del riflettere e dell’etica sulla frenesia dei consumi. 

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