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Da Parigi a Glasgow: alcuni elementi di riflessione

Raffaella Gherardi * 

Fonte : mente politica

Per una politica che fa del presente e anzi del “qui e adesso” la sua dimensione fondamentale i sei anni che ci separano dagli Accordi di Parigi sul clima nell’ambito di COP 21 rappresentano sicuramente un tempo biblico. Non fosse che tante volte essi sono stati chiamati in causa (in primo luogo per richiamare gli impegni allora sottoscritti e non mantenuti) nell’ambito del recente G20 di Roma e di COP 26 tuttora in corso a Glasgow, essi sarebbero rimasti un vago ricordo anche per i media, non certo desiderosi, così come la grande politica su scala planetaria, di fare della questione dell’ambiente e del riscaldamento globale la questione per eccellenza cui orientare la opinione pubblica. Se la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite del 2015 aveva ricevuto un positivo e  forte impatto mediatico (e in tal senso aveva giocato un ruolo importante la presenza attiva, nell’ambito delle varie leadership mondiali,  di una potenza come gli Stati Uniti dell’allora Presidente Obama che non avevano certo brillato in precedenza, per usare un eufemismo, per sensibilità ambientalista), l’anno successivo l’appuntamento di COP 22 a Marrakech, indirizzato a tracciare un primo bilancio dei primi passi degli Accordi parigini da parte dei paesi firmatari, si era svolto in tutt’altra atmosfera, dato che si era tenuto in perfetta corrispondenza temporale con le elezioni presidenziali americane che avevano decretato l’ascesa alla Presidenza di Trump, il quale ultimo aveva più volte ribadito nel corso della sua campagna elettorale l’intenzione di uscire dagli Accordi suddetti (promessa effettivamente e ben presto mantenuta in seguito). Per quanto concerne poi le successive annuali Conferenze delle Parti delle Nazioni Unite, da COP 23 tenutasi a Bonn sotto la presidenza delle isole Fiji, a COP 24 di Katowice fino a COP 25 di Madrid a presidenza cilena, i media di tutto il mondo hanno brillato per carenza di notizie in proposito. Il silenzio pressoché generale era già di per sé indicativo della scarsa volontà manifestata da molti paesi contraenti di adottare in concreto misure per dare effettiva attuazione agli impegni sottoscritti a Parigi e della difficoltà di arrivare a tracciare una road map condivisa in proposito. A conclusione di COP 25 (dicembre 2019) il Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, di fronte alla situazione di vero e proprio stallo verificatosi a causa dei veti incrociati di vari paesi partecipanti, non esitò addirittura a definire i risultati della stessa Conferenza come vera e propria perdita di un’importante opportunità da parte dell’intera comunità internazionale nell’affrontare la crisi dei cambiamenti climatici. L’appuntamento veniva allora rinviato al novembre del 2020 alla successiva Conferenza di Glasgow, momento in cui all’interno di COP 26 si sarebbe dovuto assolutamente fare il punto sullo stato di salute o meno degli Accordi di Parigi e specificamente sulle diverse problematicità e criticità verificatesi negli anni successivi, quanto alla loro effettiva attuazione.  Quel che ne è seguito è a tutti noto, dato che l’annus horribilis dell’esplosione della pandemia covid 19 non solo ha costretto al rinvio di un anno di COP 26 ma ne ha anche duramente modificato lo scenario generale, innanzitutto a seguito dei pesantissimi contraccolpi su scala planetaria della stessa pandemia, dei problemi che essa ha fatto violentemente esplodere anche dal punto di vista dell’ambiente. E fin dai primi mesi del 2021 in effetti, l’attenzione in casa nostra e altrove per l’appuntamento di COP 26 e per i lavori ad essa preparatori è stata incomparabilmente diversa e assai più alta rispetto a quella che la politica e i media avevano dato alle annuali Conferenze mondiali sul clima del dopo Parigi, divenendo punto di riferimento delle dichiarazioni programmatiche di molti importanti esponenti politici di Stati (da Biden a Johnson ecc.), istituzioni e organizzazioni internazionali e regionali (Unione Europea in testa). Per quanto riguarda specificamente il nostro paese, la Presidenza italiana del G20 e la partnership giocata insieme con il Regno Unito nell’organizzazione di COP 26 hanno fatto sì che l’attenzione da parte del Governo, di uomini politici a vario livello e dei media sia stata e sia molto forte; in particolare in relazione alla discussione sui temi ambientali e alle proposte maturate in proposito nel summit del G20 tenutosi a Roma (30-31 ottobre), configuratosi come una sorta di volano e immediato passaggio del testimone verso COP 26. Non è certo questa la sede in cui prendere in esame il documento conclusivo del G20 o le proposte che finora sono venute nell’ambito di COP 26 per lumeggiare possibili segni di speranza o invece di disperazione di fronte alle possibilità stesse di un cambiamento della politica che dovrebbe darsi carico nei fatti, a livello globale e da parte di paesi aventi interessi assai differenti,  di mutamenti di indirizzo che consentano perlomeno di evitare l’assai vicino  punto di non ritorno della crisi ambientale in atto. Quel che appare ora, a un primo sguardo, per quanto riguarda i protagonisti che i media stessi si preoccupano di porre in risalto,  è lo scenario seguente: da una parte i grandi della politica, dei governi e delle istituzioni internazionali, che faticano oltremodo a definire obiettivi e compromessi (nel senso alto del termine) che permettano finalmente di individuare più da vicino impegni concreti a partire dagli Accordi di Parigi e oltre; dall’altra movimenti ambientalisti che (primo fra tutti quello dei Freidays for future che vede l’attiva partecipazione di molti giovani in tutto il mondo negli ultimi anni) che manifestano tutta la loro indignazione contro una politica che, livello globale, non è in grado di riconvertire immediatamente le proprie scelte alla luce della crisi climatico-ambientale in atto e delle sue cause scatenanti, mettendo a rischio l’esistenza stessa delle generazioni future.  

 Se e come possa essere possibile arrivare a una sorta di patto di responsabilizzazione collettiva e individuale che permetta davvero di caricare di nuovo significato programmi e orientamenti di governi, partiti, istituzioni, così come le specifiche scelte di vita degli individui stessi, resta l’ineludibile scommessa in campo. Se molti dei vari leader politici volessero per primi dare un esempio smettendola una volta per tutte di pensare alla politica come a qualcosa in cui ci si debba obbligatoriamente dividere fra amici e nemici e in cui vince chi è più bravo a gridare facili slogan (tenendosi sempre pronti a cambiarli il giorno dopo)…forse sarebbe già un primo importante passo….

* Già ordinario di Storia delle dottrine politiche – Università di Bologna

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