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Cosa diciamo quando diciamo Occidente?

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Cosa diciamo quando diciamo Occidente?

Fulvio Cammarano * – 25.05.2022

da “MENTEPOLITICA”

Putin parata

Tra le diverse motivazioni con cui Putin e il suo gruppo dirigente hanno voluto giustificare l’invasione russa dell’Ucraina, una delle più esplicite è quella che si richiama alla necessità di contrastare l’Occidente, non solo in quanto concreta minaccia militare (“L’Occidente stava preparando una invasione dei nostri territori”, ha detto Putin durante la parata del 9 maggio), ma anche, se non soprattutto, in quanto espressione di una cultura deteriore impegnata nell’opera di dissolvimento della Russia, attraverso l’accerchiamento militare e la distruzione dei suoi valori. “L’Occidente – ha sostenuto Putin – sta tentando di spaccare la società russa e distruggere la Russia dall’interno”. Non è, dunque, un caso che ad assurgere ad un livello chiave nell’ambito della comunicazione di guerra sia stato il Patriarca di Mosca, Kirill il quale ha legittimato l’aggressione in nome di valori e tradizioni russofile antioccidentali. Per Kirill è in corso una lotta della virtù contro gli immorali modelli di vita espressi dall’Occidente.

La vaghezza del concetto di Occidente, a metà strada tra modello culturale e realtà geopolitica, risulta molto utile, in ambito polemico, per individuare colpevoli senza indicarne nomi e cognomi. L’Occidente, per Putin, è in primo luogo tutto ciò che promana dagli Stati Uniti e dalle realtà considerate legate al carro di Washington, vale a dire la Nato e l’Unione Europea. Quel termine, tuttavia, possiede un significato più profondo e più insidioso, che riguarda molto da vicino la Russia, “impero” da sempre ritenuto terreno di confine tra Occidente e Oriente, una sorta di “Giano bifronte”, come venne sostenuto già nel 1911 allo Universal Races Congress di Londra, un Paese dove i due elementi ostili si mescolavano. È evidente che, per Putin, adoperare la comunicazione con l’obiettivo di amplificare l’antioccidentalismo, rappresenta una esplicita scelta politica per sostenere ideologicamente un conflitto altrimenti destinato ad assumere solo le sembianze di una nuda e cruda guerra di conquista. Non si creda, tuttavia, che tale argomentazione, quella del contrasto ai valori dilaganti dell’Occidente, sia nuova. Nel 1914, allo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Impero tedesco, per giustificare le ragioni del conflitto con Francia e Gran Bretagna fece ricorso allo stesso argomento oggi utilizzato da Putin, individuando nell’Occidente (allora alleato, non senza un certo livello di imbarazzo, con l’autocrazia zarista), il proprio nemico culturale: Francia, Inghilterra e, poi, Stati Uniti erano da considerarsi nemici irriducibili perché stavano cercando di imporre i valori disgregatori occidentali, vale a dire il particolarismo e  l’individualismo egoista, fonti di perenne frammentazione conflittuale. A questa cultura, gli intellettuali tedeschi contrapponevano quella dell’autoritarismo che si identificava con l’attaccamento alla comunità, al dovere. “L’idea inglese di libertà – scriveva il filosofo tedesco Ernst Troeltsch – affonda le sue radici nell’individualismo della pietà puritana. L’idea francese è una creazione della borghesia che si erge contro i poteri della monarchia e della Chiesa e fonda l’affermazione dei suoi interessi sulla scienza dei Lumi. L’idea americana di libertà ha attinto a queste due fonti. L’idea tedesca invece risiede nell’inversione del rapporto dell’individuo e degli interessi privati con lo Stato”.  Venne persino coniato uno slogan, “eroi (tedeschi) contro mercanti (inglesi)”. Oggi, a più di un secolo di distanza, tocca alla Russia ripetere quegli stessi argomenti. Cosa collega la Germania guglielmina del 1914 alla Russia putiniana?  Lo stesso identico disprezzo per la cultura del costituzionalismo liberale, per i sistemi di democrazia parlamentare. Occidente, dunque, al di là di un significato “etnico-geografico” che non esiste più (anche gli orientalissimi giapponesi, per fare solo un esempio, sono a tutti gli effetti occidentali), andrebbe inteso come categoria che identifica Paesi e comunità fondate sul rischioso e per nulla tranquillizzante “disordine” prodotto dal pluralismo conflittuale, continuamente alimentato dalle dinamiche politiche e sociali delle (molto) imperfette democrazie pluraliste. L’Occidente è, dunque, quell’orizzonte entro cui in qualunque sistema politico gli individui e i loro diritti rimangono la pietra angolare di un modo di intendere le comunità senza la quale la devozione alla nazione rappresenta solo il paravento per soprusi e ingiustizia. Detto in parole povere, oggi la parola Occidente, che da sempre infastidisce autocrati e dittatori o aspiranti tali, dovrebbe diventare sinonimo di un metodo di governo, quello praticato dai sistemi in cui libertà individuali e diritti civili non sono solo formalmente garantiti, ma anche resi effettivi nella pratica quotidiana. Per tale motivo nel momento in cui, nel bel mezzo di una spaventosa guerra europea, il concetto di Occidente è tornato ad affacciarsi nel dibattito politico e intellettuale, dovremmo evitare di utilizzarlo sovrapponendolo a quello di altre realtà, come la Nato, ma anche l’Unione europea. Per essere occidentali non basta richiamarsi a tradizioni e geografia e, dunque, non basta credersi tali per diritto acquisito: ci siamo talmente abituati a parlare delle radici dell’Occidente che abbiamo finito per dimenticare le pratiche che gli danno senso.

* Ordinario di Storia Contemporanea – Università di Bologna

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