Se vuoi la pace prepara la pace
a cura della redazione della Rivista “Tempi di fraternità”
Per la terza volta consecutiva dedichiamo
l’editoriale alla pace.
Non
era nelle nostre intenzioni ma la
guerra che continua con i suoi tragici
e inquietanti eventi e anche la
critica di un nostro abbonato giunta in redazione
(vedi pag. 21), ci spingono in questa direzione,
sperando di fare un servizio utile a
tutti i nostri lettori e a noi stessi, che continuiamo
a confrontarci con questo argomento
divisivo e dirimente come pochi altri.
Come diceva Freud, l’umanità da sempre
ha dovuto confrontarsi tra le pulsioni di morte
(thanatos) e le forze vitali (eros), e la sua
evoluzione, come quella del singolo, consiste
appunto nella lotta per sconfiggere le pulsioni
mortifere. Si tratta in sostanza di un cammino
di civiltà evidentemente tutt’altro che
compiuto.
Ognuno di noi ha avuto un rapporto con la
guerra sulla base della propria età: attraverso
l’esperienza personale oppure attraverso i racconti
di coloro che l’hanno vissuta direttamente.
Gli esiti disastrosi, in termini di morti, delle
due guerre mondiali del novecento, i racconti
dei morti e delle sofferenze patite, con
l’enorme sproporzione tra vittime civili e vittime
militari, hanno costituito uno spazio molto
importante nell’immaginario collettivo, tanto
che ormai la coscienza collettiva percepisce
la guerra come crimine, prima di ogni singolo
atto criminoso. Eppure la coazione a ripetere
continua, anche in quest’occasione, e
desta ancora stupore e angoscia il coinvolgimento
massiccio della popolazione civile impotente,
con morte e sofferenza di bambini,
vecchi, donne e uomini dei due fronti. I servizi
dei giornalisti inviati sul campo descrivono
quotidianamente l’orrore di questa guerra. Che
cosa c’entrano i vecchi e i bambini?
PUTIN E OCCIDENTE:
VINCERE E VINCEREMO!
Forse per questa ragione pensavamo ingenuamente
che non ci sarebbero state altre guerre,
almeno nel nostro vecchio continente, ma
ci siamo purtroppo sbagliati. La guerra, scoppiata
il 24 febbraio scorso con l’invasione
dell’Ucraina da parte della Federazione russa,
ce lo sta ampiamente dimostrando. Perché è
successo? Pur riconoscendo l’importanza della
sindrome di accerchiamento patita da Putin,
le violenze e le discriminazioni inferte ai
russofoni nonché le numerose provocazioni da
parte della Nato nei confronti della Russia, non
riusciamo a concepire l’attacco russo all’Ucraina
solo in questa chiave, ma ritorniamo
a quanto alcuni di noi hanno conosciuto nella
giovinezza riguardo alla volontà di rifondare
una Unione Sovietica – versione 2.0 (invasione
dell’Ungheria, della Cecoslovacchia,
condizionamento pesante della Polonia, la cui
invasione fu evitata solo dal “colpo di Stato”
di Jaruzelski). E non riusciamo, di contro, a
comprendere questo improvviso interesse dell’Occidente
che non era stato manifestato, per
lo meno a questo livello, per i fatti del 2014
sempre in Ucraina, nel Donbass, cui molti analisti
fanno risalire l’inizio della guerra. Inoltre,
a proposito di teoria neo-sovietica, non si capisce
la differenza di reazione occidentale tra
l’invasione dell’Ucraina, e quella nei confronti
degli interventi bellici in Cecenia, con la distruzione
di Groznyj, in Nagorno-Karabakh e,
in ultimo, delle ingerenze politiche in Bielorussia: tutto
fa pensare che ci siano in ballo ben altri interessi economici
(materie prime, energia, prodotti alimentari, …).
Così come indigna la totale indifferenza, se non l’ammirazione,
verso le numerose invasioni degli ultimi
trent’anni da parte dell’Occidente (l’Iraq, il Libano, l’Afghanistan,
Gaza, la Libia, l’ex Jugoslavia), senza contare
il disinteresse ormai consolidato per tutte le altre
guerre ormai endemiche, come Yemen, Eritrea, Etiopia,
Sudan, Congo, Centro America e così via.
In sostanza, smentendo spudoratamente le enunciazioni
di principio sfociate nelle carte dell’Onu, si continua
a cercare di risolvere le controversie internazionali
con l’uso della forza, nonostante gli esiti deludenti sperimentati,
come si diceva la scorsa volta. Evidentemente
esiste, non solo a livello di governi, ma nelle profondità
dell’animo umano, la convinzione che la vittoria
possa sempre portare dei vantaggi al vincitore e la sconfitta
una perdita. “Fa parte della cultura di guerra l’idea
che l’uomo si realizza soltanto quando riesce a trionfare.
L’uomo si realizza anche quando è sconfitto. La
sconfitta come momento solo apparentemente negativo
fa parte della cultura della pace” (Ernesto Balducci ne
“Il cerchio si chiude”).
È mai possibile che le controversie tra Stati siano ancora
regolate dalla forza bruta delle guerre e delle distruzioni?
La storia pare non insegnare niente, la storia
piuttosto sembra essere storia di guerre, quale principale
strumento di relazione tra popoli, tra esseri umani.
La guerra è il fallimento della ragione di fronte alla violenza
e, al tempo stesso, è noto che rispondere alla violenza
con la violenza aumenta il rischio di guerra.
È frustrante vedere che le logiche di potere si ripetono
uguali a sé stesse negli anni e nei secoli. Come se
fossimo inseriti in un ciclo vizioso che, di fronte a problemi
sempre più complessi, ha sempre le stesse risposte:
rapporti di forza, armi, violenza. E la nonviolenza,
che pure avrebbe “armi” di interposizione
molto importanti, viene vista, più che come utopia,
come illusione. Se si parla di pace si è dei poveri illusi.
“È come svuotare il mare con un cucchiaino!”, ti dicono.
Qualcuno pensa che fermare “i signori della guerra”
lo si debba fare per forza con le armi. Certo è che i
“mercanti di armi” fanno soldi a palate! Guai a parlare
di diplomazia, di mediazione. Ti prendono per scemo.
L’italiano medio dunque, di fatto, è guerrafondaio? I
sondaggi più recenti però fanno sperare del contrario.
La posizione della maggioranza della popolazione
mondiale (o meglio dei loro governi – Cina, India, maggioranza
dei Paesi Africani) sulla guerra in Ucraina è
diversa rispetto a quella dei Paesi Occidentali. Che si
fa? Esportiamo anche lì la nostra democrazia con la certezza
che la verità sia dalla nostra parte o finalmente si
potrà pensare a iniziative diplomatiche di dialogo e, in
qualche forma, di cooperazione? In India c’è stata la
visita della Commissaria europea Ursula von der Leyen
per colloqui con il governo locale. L’India importa l’80%
degli armamenti dalla Russia, e questo la pone, secondo
noi occidentali, in una posizione ambigua in merito
al conflitto in corso. Quale la proposta della Commissaria?
“Ma le armi ve le possiamo dare noi”! Magari
con forti sconti…
Oggi nell’Europa occidentale (compresa la Germania
dove i grünen, che tanta speranza avevano suscitato, si
rivelano più bellicisti di tutto il governo) si respira
un’aria favorevole ad un sostanziale riarmo per interessi
di strategia politica immediata, con investimenti molto
importanti nel mercato delle armi, invertendo la rotta
che sembrava portare verso il blocco della produzione
e del commercio delle armi e alla riconversione dell’industria
bellica stessa. E anche noi italiani siamo sulla
stessa linea. Così facendo, l’articolo 11 della nostra
Costituzione, con il suo ripudio della guerra, viene nei
fatti depotenziato e umiliato, mentre la ragione e il diritto
sono condizioni sempre aperte alla pace e possono
quindi essere credibili e concrete alternative alla guerra.
Per questi aspetti è utile riprendere in mano l’Enciclica
“Pacem in terris” di Giovanni XXIII di 59 anni fa.
INVIARE ARMI ALL’UCRAINA
E FARE PACE?
Nelle ultime settimane è emerso un importante e interessante
dibattito su cosa fare rispetto all’invio di armi
all’Ucraina nell’ambito delle forze politiche, degli intellettuali
e nel campo ecclesiale, in Italia e non solo. È
giusto mandare armi perché l’Ucraina possa difendersi?
Oppure no? E, in caso negativo, che cosa fare per
fermare la guerra? Proviamo a entrare nel merito anche
per tentare di rispondere alla domanda, più ardua, quella
del nostro lettore: “Come rispondiamo agli ucraini
invasi, bombardati, uccisi quando ci dicono: vanno bene
le sanzioni, gli appelli al confronto, ma dateci anche
armi per difenderci?”.
In ambito NATO la posizione è favorevole all’invio e
di conseguenza i vari governi hanno deciso di inviare
armi sempre più pesanti in Ucraina e di incrementare il
livello della spesa per la cosiddetta difesa. È difficile,
per noi cittadine e cittadini normali, capire la differenza
sostanziale tra armi di “difesa” e di “offesa”.
Perché inviare armi all’Ucraina?
Lo si può fare per due motivi distinti. Il primo è perché
possa difendersi da un’odiosa aggressione. La seconda,
per combattere la Russia e far cadere Putin. Probabilmente,
il motivo vero è il secondo perché, se fosse
per difendere un aggredito da un aggressore, l’avremmo
fatto anche con la Siria, con lo Yemen, con i palestinesi,
con i curdi. Perciò, con gli Stati Uniti come capofila,
stiamo sostenendo una guerra per procura, come
per molte altre guerre. Stiamo usando l’Ucraina per
combattere la Russia di Putin. Se all’inizio si poteva
tollerare, se non consentire, l’invio di queste armi per
aiutare i combattenti ucraini invasi, ora che paiono evidenti
sia la forza dell’esercito ucraino, sia il vero obiettivo
della Nato (sconfiggere la Russia per detronizzare
Putin), come si può sostenere una posizione del genere?
È cobelligeranza vera e propria!
E ancora, di più, sul piano ideale. Non possiamo tirar
fuori il miracolo come un coniglio dal cappello solo
quando ci fa comodo. L’utopia, cioè il miracolo (transustanziazione,
incarnazione, rivelazione, creazione,
ecc.), o funziona sempre o dobbiamo non tirarla in ballo
mai. L’Apocalisse, parlando della caduta di Babilonia,
simbolo di tutti gli imperi della storia, e del sorgere
della Gerusalemme celeste (cc. 18 e 21), non esprime
una profezia sul futuro ma una filosofia di vita valida
per interpretare il presente. Le armi non appartengono
al mondo del miracolo ma al mondo della menzogna
(dell’inganno, dell’illusione, come strumenti del potere,
che è esso stesso illusione). L’obiezione all’uso delle
armi non è una scelta facoltativa, ma una condizione
per preservare la vita sulla terra, come la conoscenza
e la cura dei viventi, ambiente compreso (vedi i
danni della guerra all’ambiente, a pag. 24).
Ma queste osservazioni, che parrebbero inoppugnabili
all’uomo che si pone come essere morale, non soddisfano
ancora la domanda sul “che fare” per arrivare
alla pace. Se i pacifisti in tempo di pace si fossero preparati
adeguatamente, una risposta di massa non violenta
poteva essere messa in atto con forti probabilità
di successo all’inizio del conflitto. Il movimento pacifista
però, dopo la mattanza perpetrata a Genova, ha
faticato a risollevarsi, e anche nel resto d’Europa le
delusioni hanno tarpato le ali di troppe persone, facilitando
il compito alle forze belliciste che ora dispiegano
tutto il loro potenziale distruttivo. Ciò non di meno
crediamo che una risposta pacifica possa ancora trovarsi
a condizione di uscire dal pantano in cui siamo
caduti. A proposito, stupisce la scarsa reazione, se non
l’acquiescenza, di fronte all’incredibile risposta del segretario
della Nato alla timida apertura di Zelens’kyj
riguardo alla Crimea. Lui ha risposto: “Non se ne parla”.
Che cosa c’entra la Nato dal momento che l’Ucraina
non ne fa parte? Non solo: anche se ne facesse parte,
la Nato è un organismo sovranazionale, e nessun
segretario può arrogarsi il diritto di parlare per uno
Stato membro. Dal che si può capire quale libertà possano
avere i membri della Nato, specie un Paese indebitato
e storicamente dipendente come l’Italia (a proposito
della conclamata e rivendicata libertà di autodeterminazione
dell’Ucraina).
Ma, al di là di tutto ciò, la pace si potrebbe perseguire
se ci fosse buona volontà da ambo le parti, come continua
a chiedere il Papa. Come? Lo dicono da tempo molti
analisti non allineati: aprendo un negoziato sotto l’egida
dell’ONU tra Russia, Ucraina e Unione Europea (i
diretti interessati, visto che la guerra si fa in Europa,
come sempre, non negli USA!) dove ciascuno cede all’altro
qualcosa. E, parallelamente, aprire una trattativa
coinvolgendo gli attori citati insieme a Stati Uniti e Nato
da una parte, e anche la Cina dall’altra, per realizzare
un disarmo graduale concordato e controllato.
L’Unione Sovietica fu messa in ginocchio ed economicamente
dissanguata dalla politica di corsa agli armamenti
avviata da Reagan. Memore dell’esperienza sovietica
Putin, che fatica a reggere l’impatto delle spese
militari sul bilancio a detrimento di altri settori dell’economia,
che languono e abbisognano di forti risorse da
investire, potrebbe venire a patti con i suoi nemici.
Questo potrebbe paradossalmente essere facilitato dalla
incontestabile supremazia bellica americana che attualmente
investe in armamenti circa dieci volte più della
Russia, mentre la Cina potrebbe aderire anche considerando
il suo core business imperniato sul commercio
internazionale che, con il protrarsi della guerra, sarebbe
gravemente danneggiato. E, per converso, gli Stati
Uniti potrebbero evitare che la Russia e la Cina si alleino
definitivamente a suo svantaggio.
L’Europa infine, ponendosi come entità di pace, potrebbe
trovare nuovo prestigio e trarre vantaggio sul piano
delle risorse energetiche, dell’occupazione, dell’accoglienza
dei profughi che, alla lunga, potrebbe diventare
impopolare e troppo onerosa ed evitare di dipendere
in toto dagli Stati Uniti. L’Italia, in particolare, dovrebbe
fare delle istanze di pace il proprio vanto, e iniziare
a incarnare anche nella politica economica, insieme
con gli altri Paesi mediterranei, la cultura della collaborazione
solidale verso il Medio Oriente promuovendo
l’“economia civile” non predatoria, alternativa
al neoliberismo dominante. Win win come dicono i giovani
d’oggi! Il realismo che viene dalla cultura di pace
è meno realistico di quello dei bellicisti?
Comunque la si pensi siamo contenti di essere in compagnia
di Papa Francesco nella difesa dei valori della
nonviolenza e della pace e dire un NO deciso alla guerra,
perché la guerra è un male in sé, perché la violenza
richiama sempre violenza. La diplomazia ha già perso
troppo tempo e sembra impreparata a intervenire efficacemente,
paralizzata da veti reciproci, ma non può
restare in attesa degli esiti dello scontro armato, pena il
fallimento. Mettiamo in campo e diamo credibilità alla
via diplomatica per giungere ad una pace negoziata
duratura: tregua, ricomposizione del conflitto, disarmo.
Ci ricordiamo ancora di Padre Balducci quando affermava
che “se vuoi la pace prepara la pace”: un insegnamento
che richiama la responsabilità di tutte le donne
e di tutti gli uomini di buona volontà.