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Non viviamo di solo pane

  • di

Attualità, Il Regno rivista

La vita nei boschi

Mariapia Veladiano

Certo che non di solo pane viviamo, ma se non ci ricordiamo periodicamente il suo valore, ci perdiamo, eccome se ci perdiamo. Non è scontato il pane – la manna è caduta dal cielo solo una volta nella storia –, ma ha bisogno di una terra sana e rispettata, di acqua pulita, di aria che non uccida, e allora sì, il pane ce l’abbiamo. La pandemia e il cambiamento climatico ci hanno precipitato in una crisi alimentare inattesa e l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura ci raccontano di 130 milioni di persone in più che si trovano a soffrire la fame, quasi 1 miliardo sui 7 e mezzo che popolano la terra.

E viene in mente Henry D. Thoreau, il suo Walden, ovvero la vita nei boschi (Mondadori 1977, con il saggio «La disobbedienza civile») perché il primo dei 18 capitoli che costruiscono l’esperienza del giovane Thoreau, è un canto alla sobrietà, alla riscoperta dell’essenzialità, perché «il progresso dei secoli ha influito assai scarsamente sulle leggi fondamentali della vita umana e, probabilmente, i nostri scheletri non si distinguono affatto da quelli dei nostri predecessori» (57). E alla fine «Nessuna creatura bruta ha altri bisogni oltre a cibo e rifugio» – «None of the brute creation requires more than food and shelter» (ivi).

«Shelter», ovvero rifugio. Rifugio come per gli animali, come un bisogno di protezione, quel che basta a sentirsi al sicuro. E la casa-rifugio è tanto più sicura, lo apprendiamo subito, quanto più è povera. Appena si riempie, ci fa preoccupare per i ladri, la manutenzione, la pulizia. Ancora la sobrietà. Ci attraversa gli occhi l’immagine dei gigli del campo, che non filano e non tessono, o l’accumulatore di beni, che vuole costruire granai più grandi ma muore nella notte. Non sa il bene della vita.

È molto interessante che in questo percorso di riscoperta dell’essenziale abbia una grande parte proprio il pane. Henry Thoreau impara a farsi il pane, dopo aver provato, sbagliato, studiato antichi processi di panificazione e trovato la ricetta giusta per il tempo e il luogo, di fare il «pane buono, dolce e sano, che è sostegno della vita» (106). Nel rifugio si fa il pane. Anche noi lo abbiamo riscoperto nella pandemia, dicono.

E poi c’è il paradiso della natura. La casa che si è costruito, una capanna, il rifugio, era sul fianco di una collina, al limitare di un bosco grande, in mezzo a una foresta di «giovani pini resinosi e di noci americani», vicino al lago, nel cortile crescevano fragole, more, erica, un ciliegio nano, i tartufi. Le larghe foglie «piumate» del sommaco si distendevano e ogni tanto si spezzavano con un piccolo suono, trascinate dal loro stesso peso, ma prima, «in agosto, le grandi masse di bacche che, quando erano in fiore, avevano attirato molte api selvatiche, gradualmente assumevano il loro scintillante e vellutato color violaceo» (157).

Un paradiso. Ed ecco un’altra buonissima ragione per rileggere Thoreau, giovane quando si ritira sul lago Walden, impetuoso, sincero, confuso, determinato, pronto a mettere in campo un sapere notevole, cita Darwin, che all’epoca (Walden viene pubblicato nel 1854) ancora non aveva scritto L’origine delle specie, ma probabilmente Thoreau aveva letto i diari del viaggio sul Beagle e da curioso eclettico ne aveva compreso l’interesse.

Il fascino del libro è nell’infinito espandersi dei sensi. I colori dei fiori, degli alberi, osservazione minuta di quel che vediamo distrattamente e non sappiamo osservare più. E poi i suoni, c’è un capitolo sui suoni, tante osservazioni sul treno, il fischio attraverso i boschi, i vagoni pesanti che ritmano sui binari. Ma soprattutto i suoni della natura, sembra di conoscerli, dal passero che trilla sul noce ai caprimulghi che d’estate, dopo che era passato il treno della sera, regolarmente «cantavano per mezz’ora le loro orazioni, seduti su un ceppo accanto alla porta, o sopra il colmo del tetto» (166).

Visitare laghi come pietre preziose incastonate sulla superficie della terra (cf. 242), camminare «nello sperone d’arco di un arcobaleno, che ricopriva lo strato inferiore dell’atmosfera, tingendo l’erba e le foglie là attorno» (243), prevedere un destino vegetariano per la specie umana, «smettere di mangiare animali, nello stesso modo che le tribù selvagge hanno smesso di mangiarsi l’un l’altra quando vennero a contatto con le più civili» (259).

Un passar leggero sulla terra. Se siamo parte di un mondo bellissimo, amico, conosciuto, di cui riconosco i suoni e i colori e gli abitanti, siamo al riparo, di nuovo il riparo, dalla tentazione più grande, quella di sentirci Dio, sciolti, ab-soluti dal legame con le cose, e diventiamo davvero custodi del bene comune. Non c’è Dio nel mondo di Thoreau, ma ci ricorda il nostro posto di creature.

È solo, Thoreau, come gli eremiti, gli anacoreti. Lo scrive: «Trovavo salutare restare solo la maggior parte del tempo» (178). Per due anni e due mesi, poi torna e vive una vita più comune, ma in una radicalità che diventa testimonianza, già era andato in galera per non aver pagato la tassa che finanziava le spese militari, diremmo oggi, poi scrive La disobbedienza civile, il saggio in cui teorizza l’obiezione civile alle leggi pur approvate dalla maggioranza, se non rispettano i diritti fondamentali dell’uomo. Era il 1849.

Walden è una bella rilettura, ha 176 anni e li dimostra poco poco, solo rughe di espressione, un po’ sornione: Ve l’avevo detto, mi avete corteggiato, ammirato, invidiato, esaltato, ma ascoltato poco poco. Forse però c’è ancora tempo.

Tipo Riletture

Tema Cultura e società

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