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Prospettive terapeutiche nell’artrite reumatoide

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Terapie per l’artrite reumatoide: raccomandazioni e prospettive

Abstract 


Il paradigma di trattamento dell’artrite reumatoide (AR) è cambiato notevolmente negli ultimi trent’anni con lo sviluppo di nuovi farmaci che permettono un controllo maggiore dell’attività della malattia ed un miglioramento degli outcome. In particolare, la strategia nota come treat to target vuole ottenere una minore attività della malattia e richiede frequenti misure di tale attività durante le visite cliniche e adeguamenti/titolazioni della terapia per raggiungere l’obiettivo. Sebbene questa strategia sia stata ampiamente applicata negli ultimi dieci anni, esistono ancora bisogni clinici insoddisfatti dal momento che una sostanziale porzione di pazienti risulta refrattaria alle terapie attuali o sviluppa gravi reazioni avverse. Da qui, grazie anche alle ulteriori scoperte sulla immunopatogenesi dell’AR nasce la necessità di nuove terapie più efficaci e sicure.


Il trattamento dell’AR dovrebbe iniziare subito dopo aver ottenuto la diagnosi, con il duplice obiettivo di migliorare sia i risultati clinici che la prognosi a lungo termine.[1]

L’artrite reumatoide (AR) è una condizione cronica infiammatoria che causa danni alle articolazioni e aumenta morbilità e mortalità attraverso complicanze sistemiche.[1] È una delle malattie autoimmuni più comuni ed è caratterizzata da sinovite cronica che coinvolge principalmente le piccole articolazioni, colpendo fino all’1% della popolazione mondiale.[2] Il danno alle articolazioni può iniziare da qualche settimana a qualche mese prima dell’esordio dei sintomi, e la progressione radiologica può presentarsi nei primi due anni della malattia.[1] Una lunga durata dei sintomi è associata a progressione radiologica e ad una minore probabilità di remissione completa.[1] Per questo motivo il trattamento dell’AR dovrebbe iniziare subito dopo aver ottenuto la diagnosi, con il duplice obiettivo di migliorare sia i risultati clinici che la prognosi a lungo termine.[1]

Alcune delle principali raccomandazioni dalle linee guida ACR 2021

La terapia iniziale preferita raccomandata dalle linee guida dell’ACR (American College of Rheumatology) – ma anche dell’ELAR (European League Against Rheumatism) – è la monoterapia con csDMARD (conventional synthetic disease-modifying antirheumatic drugs).[1] In questo caso, il metotrexato (MTX) in monoterapia è fortemente raccomandato, in pazienti naive con attività della malattia da moderata ad alta, rispetto a idrossiclorochina o sulfasalazina, bDMARD (biologic DMARD) o tsDMARD (targeted synthetic DMARD) e rispetto alla combinazione con non-TNF inibitori, bDMARD o tsDMARD.[3] Il MTX ha molti vantaggi e provata efficacia clinica, sicurezza e basso costo.[1] Inoltre, ha mostrato efficacia sia nell’AR di lunga durata sia nell’artrite infiammatoria precoce non differenziata, rendendolo una ragionevole scelta iniziale.[1] Infatti, sebbene alcuni studi abbiano dimostrato una maggiore efficacia clinica e radiologica dall’uso di una monoterapia con bDMARD (etanercept) o di una combinazione di un biologico con il metotrexato (es. adalimumab + MTX nello studio PREMIER, etanercept + MTX nello studio COMET) o della triplice terapia come trattamenti iniziali per l’AR rispetto al MTX da solo, altri studi come il TEAR mostrano che outcome a lungo termine non sono impattati dalla scelta del MTX come terapia iniziale e con successiva escalation del trattamento a seconda dell’attività della malattia.[1] Le linee guida raccomandano la monoterapia con MTX perché gli alti rischi di una terapia di combinazione –  il numero dei farmaci, la tossicità ed i costi più alti – superano le evidenze di moderata qualità che suggeriscono dei miglioramenti più evidenti nell’attività della patologia associati alle combinazioni con altri csDMARD o TNF-i.[3] Resta il fatto che sia una raccomandazione “condizionata” in quanto ci sono casi, ad esempio di pazienti con fattori prognostici peggiori, in cui si può dare priorità ad un inizio più rapido dell’azione farmacologica e ad una probabilità superiore di miglioramento con la terapia di combinazione TNF-i + MTX.[3]

Nei pazienti naive con attività della malattia da moderata ad alta, inoltre, le linee guida raccomandano condizionatamente di iniziare la terapia con csDMARD senza glucocorticoidi a breve termine (< 3 mesi) o, qualora questi siano necessari per alleviare i sintomi prima che i DMARD facciano effetto, il loro uso dovrebbe essere limitato alla più basa dose efficace e per il più breve tempo possibile, in quanto la tossicità associata all’utilizzo dei glucocorticoidi è stata giudicata superiore ai benefici potenziali.[3] I glucocorticoidi a lungo termine (> 3 mesi) sono invece fortemente sconsigliati.[3]

Nei pazienti che non sono stati precedentemente trattati con bDMARD o tsDMARD è fortemente raccomandato l’approccio treat to target, un metodo sistematico che prevede monitoraggio frequente dell’attività della patologia mediante strumenti validati e cambiamenti nel trattamento che minimizzino l’attività della malattia, così da raggiungere un obiettivo predefinito come una minore attività della malattia o la remissione.[3] Questa raccomandazione si applica all’ottimizzazione della dose di MTX ed alla successiva aggiunta di DMARD, se richiesta.[3] Ciò deriva dalla riconosciuta importanza del monitoraggio sistematico e dell’adattamento della terapia al fine di minimizzare l’infiammazione e prevenire il danno alle articolazioni, così come altre sequele a lungo termine incluse malattie cardiovascolari e osteoporosi.[3]

In pazienti in cui, nonostante le dosi massimali di MTX, non si sia raggiunto l’obiettivo, le linee guida ACR raccomandano in modo condizionale l’aggiunta di un bDMARD o tsDMARD rispetto ad una triplice terapia con sulfasalazina e idrossiclorochina [3], non tanto per una questione di inferiorità della triplice, quanto per fattori come il tasso di interruzione del trattamento che risultano più alti.[1] Restano casi in cui la triplice terapia può essere preferita, come in ambienti con inferiori risorse o in pazienti con specifiche comorbilità per i quali questo approccio può significare un rischio minore di effetti collaterali.[3]

Nuove prospettive

Gli ultimi decenni sono stati testimoni di enormi innovazioni nella terapia dell’AR.[2] Da un lato, sono stati identificati e sviluppati numeri sempre maggiori di potenziali bersagli farmacologici, come cellule, citochine, pathway di segnale e regolatori epigenetici.[2] Dall’altro lato, la strategia treat to target è stata fortemente sostenuta nella pratica clinica, guidando verso risultati sempre migliori per i pazienti con AR.[2]

Comunque, nonostante l’avvento di nuovi agenti biologici, l’aumento di eventi avversi, come le infezioni opportunistiche, preclude loro un’applicazione più ampia nella pratica clinica.[2] Caso emblematico è quello degli inibitori della Janus chinasi (JAK), per i quali l’EMA ne ha raccomandato l’indicazione in pazienti a rischio (età pari o superiore a 65 anni, aumentato rischio di gravi problemi cardiovascolari, ecc) solo se non sono disponibili alternative terapeutiche adeguate.[4] Inoltre, una sostanziale porzione di pazienti diviene resistente (o ha una limitata efficacia) agli attuali trattamenti.[2] Da qui, la necessità di terapie più efficaci e sicure per l’AR e, tra queste, spicca, ad esempio, l’immunoterapia cellulare.[2] Diversi studi preclinici e clinici hanno verificato l’efficacia e la sicurezza delle MSC (cellule staminali mesenchimali) nell’AR.[2] In aggiunta, anche terapie con cellule T regolatorie adottive (Treg) e cellule CAR-T (chimeric antigen receptor T cells) stanno mostrando le loro potenziali applicazioni in una varietà di malattie autoimmuni, inclusa l’AR.[2]

Ad ogni modo, sono richieste ancora approfondite ricerche precliniche e cliniche per poter applicare terapie cell-based nella pratica clinica, dal momento che tali nuove strategie terapeutiche devono ancora affrontare molteplici sfide.[2]

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