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Intervista su Benedetto XVI: il mondo moderno, se vuole mantenere i valori civili che lo costituiscono, non può che ricorrere al sostegno della Chiesa?

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 Intervista a Daniele Menozzi*, di Luca Kocci, Il Manifesto 3.1.2023

Tra i tanti, quale è stato l’aspetto assolutamente centrale del pontificato di Benedetto XVI, la “stella polare” che lo ha sempre orientato?

Sulla base dei suoi interventi pubblici (poi le carte d’archivio potranno meglio chiarire i suoi orientamenti più personali) direi la convinzione, ereditata dalla cultura intransigente ottocentesca, che la fede cristiana, così come si è strutturata in seguito all’incontro con la cultura greco-romana, ha prodotto la civiltà e ne costituisce l’insostituibile fondamento. Di qui la linea di tutto il pontificato: la tesi che il mondo moderno, se vuole mantenere i valori civili che lo costituiscono, non può che ricorrere al sostegno della Chiesa, unica autentica depositaria e interprete della legge naturale, valida per tutti, sempre e in ogni luogo.

L’atto che invece ha caratterizzato il suo pontificato è stato quello delle dimissioni. Oggi, a dieci anni di distanza, quale significato possiamo attribuirgli?

Un atto di grande lucidità e responsabilità. Il papa si è reso conto che la sua linea di governo non ha retto alla prova dei fatti. All’epoca della post-modernità la riproposizione del progetto di una Chiesa che interviene nella società per fissare le norme, universalmente valide, della convivenza civile, finiva solo per allontanare ulteriormente gli uomini dal cattolicesimo. Benedetto XVI ha capito che, per assicurare il futuro della Chiesa nel mondo moderno, occorreva un radicale mutamento. Il trauma della sua rinuncia al pontificato lo ha reso possibile.

Resterà un atto straordinario, oppure diventerà scelta realmente possibile per i pontefici, dopo che per secoli non è stata di fatto contemplata? (le dichiarazioni di papa Francesco sembrerebbero andare in questa direzione).

Se letto sul breve periodo l’atto delle dimissioni è legato alle straordinarietà della crisi del cattolicesimo nel tempo presente; ma ha una valenza di lungo periodo: dopo gli sforzi di sacralizzazione del papato che percorrono i secoli dell’età moderna e contemporanea, la rinuncia di Benedetto XVI interrompe questo processo e avvia un percorso di desacralizzazione del ministero papale. Diversi atti di Francesco lo hanno ulteriormente sviluppato. È perciò ragionevole ipotizzare che la rinuncia al papato diventerà una prassi abituale: vale per tutti i vescovi in comunione con il vescovo di Roma: perché non dovrebbe valere anche per il vescovo di Roma?

Mi pare che nelle ricostruzioni e analisi di questi giorni si tenda a rimuovere i 25 anni di Ratzinger alla guida della Congregazione per la dottrina della fede. Ma fra queste “due vite” di Benedetto XVI – “guardiano” dell’ortodossia e poi papa – c’è una frattura oppure vanno lette in continuità?

Difficile sottrarsi all’impressione che nell’informazione sulla scomparsa del papa emerito non si sia solo fatto il giusto spazio al cordoglio per una personalità di rilievo del nostro tempo, ma si sia voluto produrre una lettura celebrativa della sua figura. Si sono infatti accuratamente accantonati tutti gli aspetti che pure avevano suscitato perplessità e discussioni non solo quando Ratzinger ha guidato la Congregazione per la dottrina della fede, ma anche nella sua gestione della funzione papale. Comunque nel suo percorso biografico non si registra una frattura, anche se la diversità responsabilità dei ruoli svolti ha comportato diverse modulazioni nella sua azione di governo.

In quei 25 anni la libera ricerca scientifica, soprattutto quella teologica – a partire dalla Tdl –, è stata imbrigliata e imbavagliata, con una serie di severi provvedimenti disciplinari che hanno colpito teologi e anche vescovi ai quattro angoli del mondo. Perché? (se l’affermazione è corretta)

La risposta è complessa. Vi è naturalmente un dato immediato: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ritenuto che la presenza di una linea alternativa a quella che avevano scelto minasse la compattezza della Chiesa e ne indebolisse il ruolo. Dunque la condanna è stata la via giudicata necessaria per garantire efficacia alla loro azione di governo. Ma vi è anche un più profondo dato culturale. La maturazione teologica di Ratzinger è avvenuta negli anni Cinquanta del Novecento, quando la Chiesa si riteneva pensabile solo come un monolite di cui è garante l’autorità del papa.  Per quanto fosse profonda e raffinata, questa teologia non poteva che ritenere una minaccia inaccettabile alla verità stessa della fede quella libertà e quel pluralismo che si sono profilate dopo il Vaticano II come componente ineliminabile della ricerca di una verità che ha nelle Scritture e non nella monolitica autorità ecclesiastica il suo punto di riferimento centrale. Se Francesco insiste sulla figura della Chiesa come poliedro è perché la sua cultura teologica è maturata dopo il Concilio.

A questo proposito mi colpisce molto quello che Benedetto XVI ha scritto nel suo “testamento spirituale”, quando sostiene che i risultati apparentemente «inconfutabili» della scienza – in particolare scienze naturali, ricerca storica e teologia – sono tutti crollati al cospetto della verità della fede. Sembra quasi l’affermazione di un rifiuto di ogni ricerca che non sia guidata e diretta dalla Chiesa…

Resta in ordine al rapporto tra scienza e fede un nodo che la cultura teologica della prima metà del Novecento, in cui Ratzinger è totalmente immerso, ha risolto sulla base della semplicistica condanna del modernismo. Allora la Chiesa reagì con le censure alla concezione che le conquiste delle scienze naturali e umane non potevano mai toccare la fede cristiana, perché questa si poneva su un piano del tutto diverso. Ne era ragione il timore che la perdita dei sussidi che il cristianesimo aveva per secoli tratto dalla cultura portasse alla sua rovina. La Chiesa affermò così la superiorità ontologica della fede rispetto alle scienze. I risultati della ricerca scientifica, necessariamente relativi a approssimativi, non potevano che portare conferma ad una verità che sola era assoluta. Il prezzo pagato per questa impostazione è stato altissimo: la crisi del cattolicesimo ha qui una delle sue ragioni. Continuare a riproporla è la testimonianza della coerenza rispetto alla propria formazione.

Si è molto parlato degli “incidenti di percorso” di Benedetto XVI durante il suo pontificato, dal discorso di Ratisbona alla liberalizzazione del rito tridentino, compreso l’iniziale ripristino della preghiera del venerdì santo per i “perfidi ebrei”. Si è trattato realmente di scivoloni, poi prontamente corretti, oppure delle spie di un modo di concepire la Chiesa e il mondo?

Mi limito alla reintroduzione del rito latino, perché qui le informazioni accumulate dagli studi sono precise e incontestabili. Da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Ratzinger ha ripetutamente incoraggiato quella “riforma della riforma liturgica” che gli ambienti tradizionalisti auspicavano. Diventato papa si è mosso in piena continuità con questa impostazione. Ha infatti assunto la singolare decisione di proclamare l’esistenza nella pubblica preghiera della Chiesa latina di un rito ordinario (quello basato sulla riforma di Paolo VI) e di un rito straordinario (quello basato sul cosiddetto messale di san Pio V). Di quest’ultimo – dove non solo la preghiera per gli ebrei del Venerdì santo, ma numerosi passi di altre preghiere non sono perfettamente coerenti con i documenti del Vaticano II – il papa auspicava la diffusione. Gli interventi di Francesco non hanno cancellato la misura, ma ne hanno eliminato la portata politica: i vescovi possono concedere il rito straordinario solo dopo essersi accertati che non è un pretesto per contestare i risultati del Concilio Vaticano II.

Assisteremo presto alla canonizzazione di Benedetto XVI come è stato per quasi tutti i papi del ‘900?

Sembra che negli ultimi decenni il papato abbia deciso di autocelebrarsi portando sugli altari la maggior parte dei papi novecenteschi. Alla base di questa impostazione c’è un’ambiguità che risale alla canonizzazione di Pio X ad opera di Pio XII: si santificano le virtù del semplice credente, ma con l’inevitabile sottinteso che il riconoscimento canonico ricade poi anche sull’esercizio della funzione papale del nuovo santo. Ad esempio, celebrare san Pio X significa anche esaltare le modalità di una repressione antimodernista che non è propriamente un esempio di virtù cristiane, di cui quel pontefice, sul piano personale, ha pure dato prova.  Si può allora auspicare che la controversa gestione del ministero petrino da parte di Benedetto XVI aiuti a scogliere l’ambiguità di questo nodo lasciato in eredità da un pesante passato.

* professore emerito di Storia Contemporanea nella Scuola Normale Superiore di Pisa

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