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Epatite E: attenzione a carni crude o poco cotte

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Epatite E, attenzione a carni crude o poco cotte

di Monica Panetto, Quotidiano sanità

Ogni anno si stimano circa 20 milioni di infezioni da virus dell’epatite E in tutto il mondo, di cui circa 3,3 milioni di casi sintomatici. L’Organizzazione mondiale della Sanità calcola che la patologia abbia causato circa 44.000 decessi nel 2015 (pari al 3,3% della mortalità dovuta a epatite virale). Si tratta di una malattia più comune nei Paesi a basso e medio reddito con livelli igienici inadeguati, ma anche in quelli industrializzati si è visto  negli ultimi anni un aumento dei contagi, non più correlati a viaggi in zone endemiche, ma a una circolazione autoctona del virus. Dell’argomento abbiamo parlato con Alessio M.G. Aghemo, segretario dell’Associazione italiana per lo studio del fegato e professore di gastroenterologia alla Humanitas University. 

In questi mesi, nell’ambito della rubrica In SaluteIl Bo Live ha dedicato un’intera rassegna alle epatiti virali: abbiamo parlato di epatite A con Anna Rita Ciccaglione, direttrice del reparto di Epatiti virali e malattie da oncovirus e retrovirus del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità; di epatite B con Patrizia Burra, segretario generale della Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva. Di epatite C abbiamo discusso invece con Maria Elena Tosti, responsabile Seieva e Loreta Kondili; di epatite D con Pietro Lampertico del Policlinico di Milano.   

Intervista completa ad Alessio M.G. Aghemo, segretario dell’Associazione italiana per lo studio del fegato. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar

Epatite E: a quali sintomi prestare attenzione

L’epatite E è un’infiammazione del fegato causata dal virus Hev (Hepatitis E virus), che ha un periodo di incubazione che va da 15 a 64 giorni. “La persona – sottolinea Aghemo – sviluppa stanchezza, ittero, e un rialzo dei valori epatici significativo, fino a 10-20 volte i valori normali, che si associano a un impatto importante sulla qualità di vita del malato: chi contrae la patologia non riesce a svolgere le attività quotidiane, né ad alzarsi dal letto, e in alcuni casi questo stato può progredire fino alla morte per insufficienza epatica”. Anche se raramente e in circostanze specifiche.

La diagnosi di epatite E può avvenire in modo occasionale, rilevando un aumento dei valori epatici in seguito a un prelievo, oppure in seguito alla comparsa dei sintomi, con un test anticorpale. Alessio Aghemo evidenzia in generale un problema di sottonotifica della patologia, che dipende in molti casi da una conoscenza limitata del quadro morboso. Viene spesso considerata una malattia a carico quasi esclusivo dei viaggiatori provenienti da zone endemiche e dunque la ricerca del virus non viene effettuata in molti dei casi in cui invece dovrebbe esserlo. 

dati del Sistema epidemiologico integrato dell’epatite virale acuta (Seieva) mostrano infatti che, dal 2007 al 2018, “solo nel 38% dei casi di epatite acuta, negativi alla ricerca dei virus A, B e C (casi possibili di epatite E), viene effettuata la ricerca delle IgM anti epatite E. Quando questi casi vengono testati, si ottiene una positività in oltre il 75% dei casi. La percentuale di casi possibili testati sta comunque crescendo e nel 2018 è superiore al 60%”.

Come si trasmette

Come si è detto, l’epatite E è presente in tutto il mondo, specie nei Paesi a basso e medio reddito con accesso limitato ad acqua, servizi igienici e sanitari essenziali. Nei Paesi industrializzati la maggior parte delle infezioni riguarda persone di ritorno da zone in cui circola il virus, anche se negli ultimi anni si è assistito a un aumento dei casi autoctoni.

Nei Paesi a basso e medio reddito, riferisce l’Organizzazione mondiale della Sanità, si possono manifestare sia casi sporadici che focolai. Di solito i focolai sono causati da contaminazione fecale delle forniture di acqua potabile e possono interessare da diverse centinaia a diverse migliaia di persone. Alcuni di questi si sono verificati in aree di conflitto e di emergenza umanitaria, come le zone di guerra, i campi per i rifugiati o gli sfollati interni, dove i servizi igienici e l’approvvigionamento idrico sicuro pongono sfide particolari. Si ritiene che pure i casi sporadici siano legati alla contaminazione dell’acqua, anche se su scala minore. Nelle aree ad alta endemicità della malattia, l’infezione sintomatica è più comune nei giovani adulti di età compresa tra 15 e 40 anni.

Attenzione a carni crude o poco cotte

In Italia il contagio con liquido contaminato è molto infrequente. Si è assistito tuttavia a un aumento dei casi di epatite E in Europa, Italia compresa, correlato al fatto che alcuni animali, specie il maiale e il cinghiale, sono cronicamente infettati dal virus, dunque consumarne la carne cruda o poco cotta può costituire veicolo di contagio. “Questo accade soprattutto in Paesi come l’Inghilterra, la Germania, la Svizzera, dove ci sono prodotti alimentari realizzati con maiale praticamente crudo, basti pensare alla pasta di salame, un famoso prodotto che si usa in Svizzera”.

E in Italia qual è la situazione? “Recenti studi dimostrano che in alcune zone il 5-15% dei maiali sono contaminati dal virus dell’epatite E, quindi l’attenzione deve rimanere alta”. Va detto che nel nostro Paese si tende a non mangiare carne di maiale cruda: gli insaccati hanno in genere un periodo di stagionatura che preserva da possibili contagi. “Vanno evitate quelle forme di salumi crudi spalmabili tipiche di alcune zone. Le regioni centrali dell’Italia, dunque le Marche, l’Abruzzo, il Lazio, presentano il numero maggiore di casi di epatite E, proprio perché qui vengono impiegati prodotti di questo tipo: un esempio è il ciauscolo”. 

Per le ragioni esposte, se un tempo l’epatite E era ritenuta una malattia associata esclusivamente ai viaggi, negli ultimi anni in Europa si osserva una tendenza diversa. In Italia per esempio nei primi sei mesi del 2022, stando ai dati Seieva (bollettino 11), i nuovi casi sono 16: i pazienti non hanno riferito di aver effettuato viaggi in zone endemiche, e dunque con buona probabilità hanno acquisito l’infezione nel nostro Paese. Il 55% di chi ha contratto la malattia riferisce infatti di aver consumato carne di maiale, prevalentemente insaccati, il 18% carne di cinghiale.

Terapie, donne in gravidanza e immunocompromessi

La maggior parte dei pazienti che sviluppano epatite E acuta non ha bisogno di terapie, perché guarisce spontaneamente e risolve l’infezione. “In alcuni casi però – spiega Aghemo –, nelle donne gravide ad esempio e negli immunocompromessi, la malattia può manifestarsi in forma molto grave e diventare cronica, senza una guarigione spontanea come avviene invece negli altri casi”. Le donne in gravidanza affette da epatite E, in particolare quelle al secondo o terzo trimestre, sono a maggior rischio di insufficienza epatica acuta, perdita del feto e mortalità. Fino al 20-25% delle donne incinte può morire se si ammala di epatite E nel terzo trimestre. L’alta letalità riscontrata in questa popolazione al momento sembra essere tuttavia associata solo ai genotipi 1 e 2 tipici delle aree in via di sviluppo. 

“La terapia si basa sulla Ribavirina, un antivirale che veniva utilizzato per l’epatite C e ancora per alcune malattie respiratorie virali; si prende per bocca per un periodo di circa tre mesi ed è in grado di bloccare la replicazione del virus. Ci sono poi degli antivirali che hanno dato però dei risultati non concludenti ed esiste anche un vaccino contro l’epatite E, autorizzato solo in alcune zone del mondo, come la Cina; non è approvato in Italia né dall’Organizzazione mondiale della Sanità, anche se si potrebbe considerare il suo utilizzo in caso di epidemie nei Paesi in via di sviluppo”. Su questa linea, nel marzo 2022 Medici senza frontiere e il ministero della Sanità del Sudan hanno lanciato la prima campagna di vaccinazione contro l’epatite E nel campo sfollati di Bentiu, nello Stato di Unity. Si tratta del primo utilizzo in assoluto dell’unico vaccino attualmente disponibile contro l’epatite E, l’Hecolin. 

Se si guarda ai dati italiani, i casi di mortalità sono aneddotici. “I casi di epatite E sono in aumento fino al 2020, dal 2020 in poi a causa della pandemia da Covid-19 le segnalazioni di nuovi casi sono forse un po’ meno precise. Di questi casi, che sono circa 80-100 all’anno segnalati nel nostro Paese, il tasso di mortalità è bassissimo: si tratta di casi sporadici in pazienti già con preesistenti gravi malattie o, non in Italia, nelle donne in gravidanza che, come si è detto, hanno un elevato rischio di mortalità”. 

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