Per non oltrepassare +1,5°C, bisogna cambiare (anche) il sistema alimentare
Di Sofia Belardinelli
Tutte le attività umane hanno un impatto sull’ambiente, ma alcune più di altre. Alcune, inoltre, rispondono a bisogni essenziali, motivo per cui una loro regolamentazione in vista di un bilanciamento con le esigenze di tutela ambientale rappresenta un dilemma apparentemente irrisolvibili. È il caso dell’industria alimentare: in conseguenza dell’aumento demografico (oggi siamo 8 miliardi, e diventeremo 10 miliardi entro il 2100, secondo le proiezioni) e del generale miglioramento delle condizioni economiche della popolazione mondiale, il settore è in costante crescita. Tuttavia, a questo corrisponde un pari aumento dell’impatto ambientale, riscontrabile tanto in termini di emissioni climalteranti, quanto in termini di inquinamento e di riduzione della biodiversità. Il settore alimentare, dunque, contribuisce all’aggravarsi di tutte le componenti della “triplice crisi globale”, marchio distintivo della nostra epoca.
Un’analisi pubblicata sulla rivista Nature Climate Change offre una stima dettagliata e aggiornata dei costi ambientali dell’industria alimentare contemporanea, e calcola le ricadute positive dell’implementazione su scala globale di misure di mitigazione efficaci, basate sull’applicazione di tecnologie e soluzioni già esistenti.
È risaputo che il settore alimentare, nella sua totalità, contribuisce per circa il 30% ogni anno all’emissione di gas climalteranti su scala globale. Secondo i calcoli delle quattro scienziate del clima che hanno firmato l’articolo comparso su Nature Climate Change, questa percentuale corrisponderebbe ad un aumento delle temperature medie globali di quasi un ulteriore grado centigrado (precisamente, tra +0,7° e +0,9°C, a seconda dei tassi di incremento della popolazione) rispetto al +1°C già registrato nel 2022. In altri termini, il solo contributo dell’industria alimentare sarebbe sufficiente a farci superare ampiamente il limite di +1,5°C che i Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi hanno concordato nel 2015.
Business-as-usual: un disastro annunciato
Inoltre, le direttrici di cambiamento lungo le quali il settore si sta sviluppando non presagiscono nulla di buono dal punto di vista della salute ambientale. La popolazione mondiale continua ad aumentare e a migliorare le proprie condizioni di vita: a questa tendenza le aziende produttrici di alimenti rispondono accrescendo la produzione ben oltre le reali necessità di sostentamento della popolazione, e prediligendo cibi facili da consumare e, dunque, spesso lavorati o ultra-lavorati. Ciò ha gravi ricadute tanto sulla salute ambientale (la produzione di cibi ultra-processati è più inquinante ed energivora) quanto sulla salute umana: si pensi alla nuova pandemia di malattie non trasmissibili, direttamente legate alle abitudini alimentari, come obesità, diabete, malattie cardiovascolari.
Per esporre la questione con maggiore chiarezza, le autrici hanno realizzato una valutazione particolarmente dettagliata dell’impatto sul clima di diversi tipi di cibo, individuando 12 categorie, e del contributo di ognuna di queste non solo in termini di CO2eq, ma calcolando singolarmente tre dei più potenti gas climalteranti rilasciati dall’industria alimentare: anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e protossido di azoto (N2O).
Questi tre gas, infatti, non influiscono sul clima allo stesso modo. Il metano, ad esempio, ha un potere di riscaldamento circa 100 volte superiore a quello dell’anidride carbonica ma, a differenza di quest’ultima, rimane in atmosfera per soli dieci anni; il protossido di azoto, circa 250 volte più potente dell’anidride carbonica, rimane invece sospeso in atmosfera per circa un secolo, proprio come quest’ultima. Chiaramente, queste differenze hanno un impatto notevole sulle proiezioni climatiche: gli scenari che prendono in considerazione un periodo di cento anni, ad esempio, sottostimano in larga misura l’impatto del metano.
Del previsto aggravamento del riscaldamento globale causato dai sistemi alimentari – affermano le autrici della ricerca – circa il 60% dipende direttamente dal metano, mentre la CO2 e l’N2O causano il restante 40% pressappoco in parti uguali. Ridurre in modo sostanziale le emissioni di metano, dunque, porterebbe a una riduzione significativa delle emissioni globali con benefici visibili anche a breve termine, mentre le conseguenze della riduzione di CO2 e N2O risulterebbero evidenti in un periodo di tempo più lungo.
Delle dodici categorie alimentari individuate dalle ricercatrici, le più inquinanti sono le solite note, con un’aggiunta forse inaspettata: in ordine di impatto climatico, vi sono la carne rossa (manzo e maiale), la carne bianca, i latticini e il riso. Alle prime tre categorie va attribuita più della metà dell’ulteriore riscaldamento atteso, sia guardando al 2030 che al 2100; dal riso, uno dei cereali di più largo consumo a livello mondiale, dipende ben il 19% del riscaldamento atteso per il 2100.
Queste stime, inoltre, assumono che, da qui al 2100, le abitudini alimentari non si modifichino in modo radicale. Le proiezioni più recenti, tuttavia, suggeriscono uno scenario ben diverso: ci si aspetta che la domanda di carne bovina aumenti addirittura del 90% e che il consumo di prodotti animali aumenti del 70% entro fine secolo. Ciò dipende dal fatto che il generale aumento dei redditi amplia la platea di consumatori che hanno accesso a prodotti più costosi, come quelli di origine animale. Al di là delle questioni sociologiche, tuttavia, questo porta a un risultato chiaro: la stima proposta nell’articolo – avvertono le ricercatrici – potrebbe essere decisamente conservativa.
Quattro aree d’intervento
Nonostante tutto, invertire questa traiettoria non è impossibile: le tecnologie per ridurre le emissioni derivanti dai sistemi di produzione alimentare esistono, e possono risultare efficaci se applicate in modo esteso tanto alle pratiche di produzione quanto a quelle di consumo. Sono quattro i settori chiave sui quali intervenire, secondo le studiose.
Innanzitutto, è necessario migliorare l’efficienza della produzione, intervenendo in particolare sui quattro settori più inquinanti (carne rossa, latticini, riso e carne bianca): ciò significa ridurre significativamente le emissioni di metano derivanti dai processi digestivi dei bovini, di metano e protossido di azoto causate dal letame, quelle di protossido di azoto dovute all’uso di fertilizzanti impiegati per la produzione di mangimi. La riduzione di queste emissioni potrebbe ammontare al 35% di CO2eq per la carne rossa, al 30% per i latticini e al 10% per la carne bianca. Le emissioni di metano derivanti dalla coltivazione di riso, d’altra parte, potrebbero essere persino dimezzate. Queste misure, da sole, permetterebbero di evitare 0,2°C di aumento delle temperature medie annuali entro il 2100, circa un quarto del riscaldamento atteso.
Un risultato simile si potrebbe ottenere se si realizzasse una completa decarbonizzazione del settore alimentare entro il 2050, come previsto per raggiungere gli obiettivi internazionali di mitigazione della crisi climatica. Tale decarbonizzazione, infatti, eviterebbe un aumento di 0,15°C.
Una terza, importantissima area d’intervento riguarda le abitudini alimentari dei consumatori di tutto il mondo. Come abbiamo visto, si prevede un massiccio aumento del consumo di carne e altri prodotti di origine animale: questo avrebbe conseguenze negative tanto sul piano ambientale, quanto sulla salute umana. La soluzione – già profilata dalla famosa commissione di ricerca EAT Lancet – è piuttosto semplice: si tratta di adottare una dieta sana, con un consumo minimo di carne e latticini, un moderato consumo di pesce, e un sostanziale aumento del consumo di prodotti vegetali. «Abbiamo riscontrato che se tali cambiamenti nella dieta venissero adottati su scala globale, il riscaldamento causato dal consumo di cibo sarebbe ridotto di un ulteriore 0,19°C entro la fine del secolo [rispetto all’aumento previsto]», scrivono le autrici. Bisogna poi tenere in considerazione che, al di là delle medie globali, la riduzione del consumo di prodotti animali registrerebbe evidenti differenze regionali: mentre il cosiddetto nord globale, di cui fanno parte i maggiori consumatori al mondo di prodotti animali, riducesse i propri standard di consumo, paesi in via di sviluppo come l’India e l’Etiopia potrebbero addirittura aumentare il proprio consumo pro capite senza “pesare” sul bilancio globale di emissioni.
Infine, è importante agire per limitare in modo sostanziale le perdite e gli sprechi lungo tutta la filiera, dalla produzione, al trasporto, al consumo. Ciò permetterebbe di ridurre di un ulteriore 4% l’aumento delle temperature previsto per fine secolo.
L’insieme di queste misure comporterebbe una riduzione dell’ulteriore riscaldamento previsto per la fine del XXI secolo del 55%, cioè di circa mezzo grado.
Il problema è chiaro, i mezzi per affrontarlo sono a disposizione. Eppure, evidenziano le autrici della ricerca, solo un terzo (50 su 148) dei Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi menziona, nelle Nationally Determined Contributions (NDCs: il resoconto periodico degli impegni – decisi autonomamente – per raggiungere i 17 obiettivi dell’Accordo), delle misure di mitigazione per l’impatto degli allevamenti intensivi, e solo uno su cinque (25 su 148) include misure di mitigazione per le coltivazioni di riso.
Analisi come questa mostrano fino a che punto l’attuale sistema di produzione e consumo del cibo sia insostenibile: sostentare una popolazione in rapida crescita e cercare di ridurre i rischi climatici del futuro non sono due obiettivi compatibili, nelle condizioni attuali. Le opzioni di mitigazione sono numerose, devono solo essere messe in atto.