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Lavoro e vocazione

  • di

di Manfredi Lanza*

Lavoro e vocazione

Dal 1948 l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 della Costituzione). Il «lavoro» è configurato come un diritto / dovere del cittadino. Uscendo dagli schemi astratti e dal pregiudizio linguistico-concettuale in politichese, il diritto al lavoro è tutt’altro che garantito dallo Stato e dai pubblici poteri. La disoccupazione, in particolare giovanile, ha proporzioni ragguardevoli nel nostro paese da quando è stata proclamata la Repubblica; al giorno d’oggi, più che mai. Sotto tale profilo lo Stato è in grave difetto e debito nei confronti della cittadinanza: si può dire che neghi o non consenta in concreto quanto solennemente proclama e promette nel suo stesso atto costitutivo e che, così facendo, dimostri la propria sostanziale scarsa credibilità e consistenza ossia, di fatto, in larga misura si auto invalidi.

Per il cittadino, il lavoro – che non risulta essere un diritto automatico alla sussistenza e alla dignità civile – si presenta soprattutto come un dovere, diciamo pure un obbligo. «Chi non vuole lavorare, non mangi», aveva già sentenziato, duemila anni fa, l’apostolo san Paolo. Solo il lavoro dà accesso al denaro e, in un mondo basato sul mercato, ogni merce, ogni bene, ha un prezzo: costano, anzitutto, il cibo, e così pure il vestiario, la casa, i mezzi di trasporto, per non parlare di beni voluttuari e di conforto. Solo la disponibilità di denaro consente di vivere e far vivere la famiglia. Ma, se disporre di denaro è quindi un obbligo, più che un diritto è un obbligo anche il lavoro. Nella stragrande maggioranza dei casi, nella nostra società cosiddetta democratica, uno non si sceglie il proprio lavoro, la propria occupazione, ma si accontenta di quella che gli capita a tiro, quella in cui riesce a infilarsi, ben felice dall’averne rimediata una.

Il lavoro si configura come «mestiere» se manuale, d’esecuzione, artigianale; è una «professione» se implica un impegno genericamente intellettivo. L’agricoltore, l’operaio, l’artigiano, l’impiegato nel terziario, fanno un mestiere. L’avvocato e il giudice, il notaio, il medico, l’ingegnere, il giornalista, sono professionisti, esercitano cosiddette professioni.

Tutt’altra cosa, esulante dall’ambito del «lavoro» e che la Costituzione non contempla, è la vocazione. Tradizionalmente si è dato per scontato fosse vocazione il sacerdozio. Più concretamente è vocazione il volontariato sociale. Ma lo sono altresì la ricerca scientifica, filosofica e, in sostanza, l’arte: nella loro apparente superfluità, attività, queste, le più utili, preziose e significative per il progredire dell’umanità.

In passato l’arte, in particolare l’arte figurativa, era un artigianato di alto livello. L’artista operava su commissione. Il pittore non dipingeva a capriccio quel che gli pareva, ma operava contro compenso in denaro da parte di committenti, chiese e conventi, enti pubblici o autorevoli e ricchi signori, che gli sollecitavano raffigurazioni «sacre» o di pubblici eventi, epocali battaglie e vittorie, oppure ritratti celebrativi. In pittura, i committenti dettavano persino le caratteristiche cui il dipinto doveva attenersi.

L’arte figurativa ha iniziato ad emanciparsi parzialmente con il Rinascimento e a ridosso del medesimo, grazie a protagonisti d’eccezione quali Leonardo e Michelangelo, ma ha raggiunto una propria autentica autonomia solo nello scorcio del Settecento (Turner), poi dell’Ottocento (impressionismo, macchiaiolismo) e tanto più quanto più si è accentuata la sua indipendenza dal mercato. Van Gogh e Modigliani, due delle figure più eminenti della pittura otto-novecentesca, non hanno venduto in vita neppure una tela. Cézanne viveva dei proventi della proprietà agricola ereditata in Provenza dal padre e ha venduto pochissimo. Oggi, i tre summenzionati sono considerati maestri di prima grandezza e nessuno si azzarderebbe a definirli hobbisti o pittori della domenica: i loro dipinti sono valutati in centinaia di migliaia di dollari. Ma al tempo loro, se il terzo viveva di rendita grazie alla campagna, i due primi facevano la fame ed erano giudicati stravaganti perditempo, poveracci fuori di testa.

*:già funzionario del Parlamento europeo

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