Due popoli due Stati. L’utopia più ragionevole
di Paolo Naso
in “Confronti” del settembre 2024
Tregua? Sì? No? Fino a quando? Quanto risolutiva? Mentre si discute delle ultime possibili svolte diplomatiche, a quasi un anno dagli attentati del 7 ottobre e della reazione israeliana, è più che evidente che la crisi mediorientale abbia raggiunto un abisso morale e politico con rari precedenti.
Il coinvolgimento dell’Iran, l’estensione del teatro di guerra al Libano e una ulteriore radicalizzazione dei contendenti, tale da impedire ogni prospettive di pace, sono qualcosa di più concreto che semplici rischi e definiscono uno scenario senza vinti né vincitori ma con migliaia di vittime e milioni di sconfitti, sia tra gli israeliani che i palestinesi: i primi costretti a vivere insicuri sotto l’incubo di attentati e attacchi militari; i secondi, umiliati da decenni di occupazione e negazione di fondamentali diritti umani, privati di quello Stato che le risoluzione dell’Onu prevedono dal 1948 ma che, in realtà, è rimasto un ingannevole miraggio.
In questo quadro la prospettiva dei “due popoli per due Stati”, che ha definito la rotta di tutti i processi di pace regolarmente falliti nel tempo, ha perso ulteriore consistenza e consenso. Già prima del 7 ottobre lo confermavano i dati di un doppio sondaggio condotto dai ricercatori indipendenti del Pew Research Center di Washington secondo i quali, rispetto a dieci anni prima, questa formula ha perso consenso sia tra gli arabi israeliani (-33%) che tra gli ebrei israeliani (-14%).
Quanto alla popolazione palestinese del West Bank e di Gaza, secondo l’agenzia palestinese Policy and Survey Research (www.pcpsr.org), poco meno del 20% crede ancora in una via negoziale e pacifica; circa 30% ha fiducia in una lotta popolare che escluda gli atti terroristici; il 53% confida nella prosecuzione della lotta armata. La stessa agenzia conferma che due terzi della popolazione di Gaza esprime un giudizio positivo sugli attentati del 7 ottobre che avrebbero avuto il merito di rimettere la “questione palestinese” al centro dell’agenda internazionale. Il sondaggio mostra anche il crollo della popolarità di Abu Abbas e dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
Forti di questi dati, osservatori e circuiti di attivisti decretano la morte della formula strategica “due popoli, due Stati”, giudicata irrealistica e deleteria per il popolo palestinese, pericolosa e minacciosa per gli ebrei israeliani.
Il giudizio si basa su tre dati di fatto: il primo è il fallimento degli Accordi di Oslo del 1993, costruiti proprio sull’architettura dei “due popoli, due Stati”, che proverebbe che da parte israeliana non c’è alcuna seria intenzione di arrivare a un accordo definitivo sullo status di territori ormai permanentemente e stabilmente “occupati”.
Inoltre, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e la costruzione del muro che rinchiude centinaia di migliaia di palestinesi in una prigione a cielo aperto hanno privato la Cisgiordania della continuità territoriale e pertanto lo Stato palestinese sarebbe il simbolo di uno spazio “a coriandoli”, in sé insignificante e difficilmente governabile.
La difficoltà a immaginare un collegamento tra Cisgiordania e Gaza rafforza questo argomento. Infine, anche grazie alla copertura degli Stati Uniti, Israele ha rafforzato il suo apparato militare e dato vita a programmi di occupazione in aperto contrasto con le norme internazionali, senza che questo producesse significative sanzioni o una qualche efficace reazione da parte dell’Occidente, Unione Europea o Stati Uniti.
Da qui il riemergere di idee e progetti che intenderebbero seppellire per sempre l’architettura “due popoli, due Stati” per rilanciare altre proposte. La prima, sempre più popolare in campo palestinese, è quella della “resistenza fino alla vittoria” che, per quanto possa apparire irrealistica quanto ingenua, continua a convincere – questo dicono i sondaggi – almeno metà della popolazione palestinese, oggi più di ieri pronta ad affidarsi al fondamentalismo di Hamas ed alle sue strategie militari e terroristiche.
Un argomento a corollario di questa tesi è che da parte israeliana si reagisce con la stessa logica, e quindi la carta “militare” è pienamente legittima ed anzi necessaria per raggiungere il risultato di
una Palestina finalmente libera, spesso rappresentata in carte geografiche che le attribuiscono un territorio che va dal mare al Giordano e che “cancellano” lo Stato di Israele.
La forza di questa ipotesi è direttamente proporzionale alla debolezza politica – e per molti aspetti anche morale, dati i numerosi scandali finanziari e il carattere paternalistico e clientelare del governo della Cisgiordania – dell’Anp, giudicata responsabile di un fallimento strategico che si misura anche con la gravità di una crisi sociale ed economica sempre più acuta.
Naturalmente, l’ipotesi “due popoli, due Stati” è avversata dalla Destra israeliana che ipotizza un azzeramento delle infrastrutture della società e delle istituzioni dei palestinesi, ridotti a una massa di profughi in balia delle decisioni israeliane e della benevolenza di alcuni Stati arabi. Un chiaro segnale della plausibilità di questa ipotesi è il voto a maggioranza del 18 luglio scorso, con il quale la Knesset [il parlamento monocamerale di Israele] ha sancito che l’ipotesi di uno Stato palestinese, “minaccia esistenziale per Israele”, non è in alcun modo nell’orizzonte politico dell’attuale maggioranza del governo Netanyahu.
Paradossalmente, l’ipotesi del superamento dell’opzione “due popoli, due Stati” incontra un favore crescente soprattutto in alcuni ambienti della Sinistra radicale che hanno fatto propria la soluzione dello “Stato binazionale per due popoli”: una entità politica unica, laica, che riconosca pari legittimità a ebrei e palestinesi. Vanno in questa direzione gli appelli di One Democratic State Campaign, un network che ha come figura di riferimento lo storico e attivista israeliano Ilan Pappé, che dopo una condanna vive in Gran Bretagna.
Il paradosso è che questa ipotesi – non nuova, al punto che negli anni Sessanta l’aveva perseguita la stessa Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) – viene messa in campo nel momento della massima radicalizzazione politica e religiosa tra l’islamismo jihadista di Hamas e il fondamentalismo militarizzato della Destra israeliana, quella al governo e quella, sempre più influente, che si organizza negli insediamenti in Cisgiordania.
E così, se per qualcuno lo “Stato binazionale per due popoli” è una appassionante profezia, a livello popolare appare una provocazione politica – una ricetta per una eterna e virulenta guerra civile – che scatena reazioni indignate perfettamente bipartisan.
Israeliani e palestinesi, oggi, hanno bisogno di risposte urgenti e immediate: gli ostaggi ancora in mano ad Hamas attestano il fallimento della strategia della tabula rasa di Gaza adottata da Netanyahu; il prezzo di vittime e distruzioni pagato dai palestinesi non associati a Hamas – spesso anzi vittime innocenti di un regime dispotico e militarizzato che domina la Striscia dal 2007 – va oltre ogni sostenibile soglia di sopportazione e umanità. Di fronte ai rischi di escalation serve almeno una direzione di marcia, una stella polare sulla quale orientare urgenti strategie di protezione e soccorso per la popolazione palestinese e di rassicurazione di quella israeliana. Pur carica di incognite e di giganteschi ostacoli, l’opzione “due popoli, due Stati” indica un percorso. Lungo, doloroso, carico di rinunce per gli uni e gli altri, ma ad oggi quello politicamente più realistico e sostenibile. La storia ci insegna che i muri si possono abbattere, i confini si possono rivedere, gli insediamenti si possono spostare o indennizzare, la comunità internazionale può svolgere un ruolo di garanzia e mediazione.
La pace ha un prezzo altissimo, ma è sempre più basso di quello, disumano e immorale, della guerra.
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