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La dote per i 18enni è un’idea che circola da tempo tra le élite social-democratiche europee

Autore : Roberto Frega, direttore delCentre national de la recherche scientifique  di Parigi (CNRS) Fonte: Huffingthon Post

La proposta recentemente avanzata da Letta di istituire una dote di 10.000 euro per i diciottenni finanziata attraverso una tassa sulle eredità superiori ai 5 milioni di euro non è il frutto né di un’intempestiva provocazione né un fulmine a ciel sereno, ma un’idea che circola da tempo tra le élite social-democratiche europee. Nulla di rivoluzionario, ma certo una proposta forte per contrastare l’aumento della diseguaglianza. La proposta di Letta riprende nell’essenziale quella presentata recentemente dal Forum per le diseguaglianze promosso e presieduto da Fabrizio Barca.

L’idea originaria viene però da più lontano: è stata elaborata da Thomas Piketty, uno degli economisti europei oggi più ascoltati e di cui vale la pena ricordare brevemente il contenuto e la portata. Piketty è noto per aver detto e dimostrato una cosa semplice dalle conseguenze sociali molto destabilizzanti: la rendita del capitale negli ultimi due secoli è stata stabile al 5%. Se i redditi da lavoro crescono a un tasso inferiore al 5% annuo, che è quello che di fatto in Europa accade da almeno tre decenni, il divario tra redditi da capitale e da lavoro è destinato a crescere anno dopo anno. Il capitale fruttifica e si accresce non (o non solo) per le virtù imprenditoriali e l’accettazione del rischio, ma per il semplice fatto che la sua redditività media è più alta di quella del lavoro.

Si tratta, dunque, di una pura e semplice rendita senza meriti particolari. Ecco che i poveri, che di capitale non ne hanno o ne hanno molto poco, si troveranno anno dopo anno a essere più poveri e sempre più privi di risorse da poter trasferire ai figli per poter progettare la propria vita.

Piketty, in modo molto più radicale di Letta e Barca, propone una dote di 120.000 euro da versare a ogni cittadino al compimento del venticinquesimo anno di età. Il finanziamento di questa dote verrebbe coperto da un mix tra tassa sulla proprietà e tassa di successione. Piketty non è un economista particolarmente radicale: non è un trotzkysta e crede nel capitalismo come sistema produttivo capace di creare ricchezza. Anche se può parere esorbitante, la sua proposta è in fondo ragionevole e misurata, se l’obiettivo è quello non di eliminare le diseguaglianze, ma semplicemente di fare in modo che quelle di partenza non siano tali da impedire ad una fascia sempre crescente di popolazione di poter almeno provare a farcela.

Se 120.000 euro vi sembrano troppi, provate a pensare qual è la dotazione di base di un ragazzo che ha avuto la fortuna di nascere in una famiglia che appartiene al 10% dei ceti più ricchi. Senza contare il capitale simbolico fatto di istruzione domestica, contatti sociali preziosi, opportunità culturali che già di per sé è senza prezzo, il giovane o la giovane in questione ha l’opportunità di iscriversi ad un’università di sua scelta. Pur restando nell’ambito di università pubbliche, il costo tra retta e vita fuori casa per cinque anni ammonta ad almeno 100.000 euro. Per un’università privata, magari all’estero, parliamo di cifre che vanno dai 200.000 ai 500.000 euro. Solo per laurearsi. Poi la dotazione sarà completata almeno da un appartamento dove vivere, auto, e quasi sempre la possibilità di beneficiare gratuitamente delle proprietà famigliari (case al mare e in montagna) per le vacanze.

Questa dotazione di 500.000-700.000 euro metterà il ragazzo o ragazza in questione in una posizione di assoluto privilegio, ottenuto unicamente grazie al differenziale di rendita tra capitale e lavoro. Il suo omologo appartenente al 20% dei ceti economicamente più svantaggiati non avrà beneficiato del capitale simbolico familiare, sarà riuscito ad andare all’università solo se questa è vicina a casa, e il giorno in cui deciderà di lasciare la casa dei genitori dovrà prelevare da un modesto stipendio il costo dell’affitto, e della rata di acquisto dell’auto.

Con un livello di diseguaglianza che ha raggiunto anche in Europa livelli mai visti in un secolo, con quasi 2 milioni di famiglie italiane che vivono al di sotto della soglia assoluta di povertà e che sono dunque totalmente incapaci di offrire ai loro figli opportunità non dico pari ma almeno dignitose per costruirsi un percorso di vita, i 120.000 euro proposti da Piketty costituiscono un punto di partenza credibile: potrebbero essere spesi per un progetto di vita e lavoro coerente e credibile.

L’erogazione potrebbe essere accompagnata da un percorso consulenziale, per esempio nei Centri per l’impiego, dove i giovani sarebbero aiutati a progettare il loro percorso di vita: scelta dell’università, pianificazione di un budget su 5 anni comprensivo di costi di vitto e alloggio. Si tratterebbe di un’opportunità incredibile di crescita e maturazione i cui vantaggi non andrebbero solo ai singoli ma a tutta la società. Le imprese italiane infatti continuano a lamentare la mancanza di personale qualificato, e quale miglior modo di elevare il livello generale dell’istruzione e delle competenze in un paese in cui il numero di giovani che si laureano continua ad essere tra i più bassi dei paesi sviluppati?

Abbiamo detto 120.000 euro. Questa la proposta di Piketty. Cosa chiede Letta? 10.000 euro. Una cifra modesta, forse troppo, che tuttavia è stata vista come una domanda eccessiva. È il segno di quanto il nostro Paese fatichi ancora ad affrontare il tema drammatico della diseguaglianza, e soprattutto fatichi ad accettare l’idea che la promozione intellettuale e materiale delle classi più svantaggiate non è solo un dovere di giustizia, è anche la cosa più intelligente da fare per rendere la nostra economia più competitiva. La dote ai giovani non è un regalo, è un investimento che un Paese illuminato fa su se stesso.

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