Introduzione
Ogni persona fin dai primi anni di vita è esposta a messaggi, a comportamenti, modelli, rappresentazioni e comunicazioni che lentamente e dinamicamente si stratificano nelle rappresentazioni interiorizzate. Ogni individuo forma dentro di sé una serie di modelli su cosa sia un essere umano, la società, il lavoro, le relazioni, il successo, l’amore, l’amicizia, il valore delle persone, in definitiva su qualunque aspetto della vita e della società, e sviluppa (o viceversa perde) motivazioni specifiche verso questo o quell’aspetto. L’interazione di questi modelli tra di loro e con le situazioni di vita in cui ciascuno di noi si viene a trovare orienta le nostre azioni, le nostre aspirazioni, le nostre scelte di piccolo e grande calibro. Il singolo non è dunque un tessuto passivo sul quale si posano le rappresentazioni esterne, ma ne è un incubatore attivo in continua trasformazione, anche se naturalmente in questa creazione attiva non può che servirsi delle rappresentazioni e dei modelli con i quali ha interagito lungo l’arco di vita, intrecciandoli con le proprie motivazioni di base, queste sì strutturalmente simili per ogni umano, come ci insegnano gli studi sui sistemi motivazionali e sulle emozioni primarie.
Questo insieme complesso di processi è stato concettualizzato in diversi modi nel tempo e principalmente in sociologia e in psicologia sociale, e tuttora non può dirsi univocamente definito; per gli scopi di questo articolo è sufficiente basarsi sugli aspetti di sostanziale accordo tra le varie teorie, e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Per comodità linguistica e per analogia con l’ambiente fisico (atmosfera, terreno, acque, ecc.) userò arbitrariamente in questo articolo il termine “sociosfera” per indicare i processi testè descritti.
Possiamo valutare la presenza di metalli pesanti, interferenti endocrini, e ogni altro genere di inquinanti nell’ambiente esaminando i tessuti e il sangue di campioni di popolazione. Non è altrettanto semplice valutare quanto è inquinata la sociosfera e cosa rilasci nelle menti degli individui, ma pur tuttavia vorrei qui esporre le ragioni che mi portano a ritenere che, al pari della salute del pianeta, si trovi in sofferenza anche la salute della sociosfera, Premesso che non è certo possibile rilevare questa condizione con precisione, intendo servirmi di alcuni indicatori sia sul versante individuale che su quello delle comunicazioni sociali per tracciare una mappa, necessariamente solo qualitativa, della situazione. Si tratta naturalmente di indicatori estremamente empirici: il mio principale riferimento deriva dalla grossa mole di testimonianze che emergono dal lavoro di psicologo, dove le metodologie più avanzate di area cognitivo-comportamentale permettono forse più di altre l’emergere di rappresentazioni, di schemi, di insiemi di regole implicite che orientano e spesso condizionano le azioni e le scelte personali. Il secondo osservatorio, che funge da conferma e controllo di quanto emerso in sede individuale, è costituito dall’osservazione di diversi ambiti della società:
- le tematiche più “calde” che emergono nei principali social network
- i “casi” giornalistici
- le strategie e le comunicazioni pubblicitarie
- le statistiche su comportamenti, consumi, svaghi e scelte, nonché la loro evoluzione.
Si tratta, come si vede, di un campo potenzialmente vastissimo, ma cercherò di delinearne gli aspetti principali in una mappa che sia sufficientemente leggibile, e a questo scopo la suddivido in tre aree:
- Area 1: piacere vs evitamento delle passioni tristi
- Area 2: eccellenza, competizione e confronto
- Area 3: autonomia, legami vs autosufficienza
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La prima area, trasversale a tutte le altre, è polarizzata sull’asse che va dal piacere all’evitamento delle cosiddette passioni tristi. Questa, come del resto le altre, non è un’area genuinamente patologica, ma al contrario mantiene radici nella piena normalità; essa tuttavia è esposta a un inquinamento crescente che ne ipertrofizza alcune dimensioni fino a renderle incompatibili con una buona organizzazione dell’individuo e delle scelte di vita.
Quando questa modalità diventa disfunzionale ci troviamo di fronte a un individuo che opera un costante e puntuale monitoraggio del proprio posizionarsi lungo l’asse piacere/dispiacere utilizzando questo valore come criterio guida per le azioni da intraprendere o da interrompere. La comparsa di qualsivoglia emozione negativa sul proprio cammino finisce con l’avere lo stesso significato del gatto nero che attraversa la strada per la persona superstiziosa: implica un immediato cambio di strada, o almeno suscita dubbi, incertezze, ripensamenti e ruminazioni.
In linea più generale l’affacciarsi sulla scena di emozioni negative, e in particolare quelle ormai diffusamente chiamate passioni tristi, viene interpretato come segnale che ci sia qualcosa di sbagliato in sé stessi, che debbano essere in qualche modo apportati correttivi alla propria persona, alla propria vita e/o alle proprie relazioni. Come si vede, non si tratta di un assunto del tutto sbagliato, ma è la rigidità e la modalità a breve termine con cui funziona a renderlo problematico: in assenza di uno span temporale più lungo che evidenzi il valore di una meta, anche al prezzo di sforzi e sofferenze, la fatica del viaggio finisce col togliere valore alla meta, a prescindere da quanto importante sia.
Il fenomeno coinvolge perfino il piacere: motivatore ineffabile dell’intero genere umano, quando si trova in questo contesto inquinato diviene misura di tutte le cose fino a inficiare eventualmente ogni sforzo che possa poi in un secondo tempo condurre a un piacere più grande. In altri termini il piacere deve essere facile, o cessa di essere piacere.
Per ciò che riguarda più da vicino le passioni tristi, esse non sembrano più essere né un degno argomento di conversazione né un vissuto con diritto di cittadinanza: chi prova passioni tristi considera questa esperienza come intrinsecamente sbagliata, causa di vergogna, emozioni da sopprimere e nascondere con ogni mezzo inclusi comportamenti disfunzionali, abuso di sostanze, insomma con ogni mezzo.
Vediamo all’opera questo fenomeno nella paradossale ostentazione di vissuti felici combattivi o ludici da parte di persone che hanno sperimentato eventi di vita infausti. Il comportamento forse più tipico e diffuso è quello della persona che dopo l’interruzione dolorosa di una relazione di coppia inserisce sui suoi profili social foto che la ritraggono in locali pieni di persone entusiaste, mentre ostenta atteggiamenti di grande divertimento e libertà. Anche nella clinica spesso ci si trova di fronte a una domanda appiattita sulla richiesta di “non provare” emozioni in definitiva coerenti con eventi di vita sfavorevoli intervenuti in precedenza, come se il fatto di provarle fosse in qualche modo sbagliato o patologico.
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Il secondo inquinante si colloca nell’area dell’eccellenza, della competizione, dell’orientamento al risultato. I comportamenti orientati a una meta sono vecchi come l’umanità ma ancora una volta in presenza di una situazione inquinata assistiamo a una radicalizzazione estrema i suoi significati. Assistiamo in questo ambito a una attenzione pressoché esclusiva all’eccellenza dei risultati, ignorando ogni altra caratteristica dell’azione umana. Si agisce per eccellere, si agisce per essere migliori di altri, per vincere, mentre lo sforzo per fare bene qualcosa o semplicemente a regola d’arte sembra diventare una inutile e noiosa attività. Se mi si concede una metafora medica, è come se tutta l’attenzione sociale fosse puntata su un singolo chirurgo straordinario che compie imprese di assoluta eccellenza, trascurando completamente di curare la presenza di una buona chirurgia di base diffusa sul territorio. Così il giovane che pensa al proprio futuro lavorativo non pensa, ad esempio, di diventare un buon artigiano o un buon professionista in un qualche ambito, ma sogna di creare una startup che lo renderà milionario. Quasi come se non valesse la pena muovere un dito per qualcosa di meno.
La seconda conseguenza di questa situazione è che va perduto il piacere e il valore di fare le cose bene, lasciando come unico orizzonte l’ansia di farle meglio di qualcun altro. In questo modo l’ansia da prestazione diventa male sociale quando non addirittura malattia professionale; la mia esperienza nella scuola mi dice che si tratta già oggi di uno dei principali effetti “teratogeni” della scuola stessa. Anche la scala semantica che va da cooperazione a competizione si inclina pericolosamente lanciando in alto la competizione e lasciando la cooperazione a terra. Come vedremo anche in altre aree, anticipo che qui anche lo statuto dell’altro essere umano tende a cambiare: l’altro si configura principalmente come competitor, come persona a cui fare le scarpe, prima di ogni altra considerazione.
L’inquinamento “da eccellenza” invade anche la sfera del corpo e del sé corporeo: è ben noto da anni che le spese per la cura dell’aspetto sono in costante aumento (non più in ambito prevalentemente femmminile, ma trasversale ai generi), è forse meno noto quanto sia diffusa la vergogna del proprio corpo, l’accigliato guardarsi allo specchio senza piacersi, il che dà inizio a un faticoso rimuginare sul lavoro da fare per modificare i “difetti” su cui l’occhio resta incollato. Con una curiosa traslazione semantica le “insicurezze” non sono più una caratteristica psicologica, ma letteralmente coincidono con i (presunti) difetti fisici: “le mie insicurezze sono le cosce grosse, la pancetta, la sproporzione delle spalle, il naso lungo…” e così via.
È divenuto assiomatico che sia necessario piacersi, per poter stare (bene) in società, e in definitiva ovunque. Ecco allora compiersi defatiganti esercizi per correggere il corpo e i suoi difetti, con la pancia ai primi posti tra i nemici, e non per nulla gli addominali vanno per la maggiore. La scelta di abiti, i tatuaggi, le acconciature, e le crescenti spese per chirurgia estetica completano la gamma delle fatiche per lenire la vergogna del corpo, accanto, naturalmente, alle immancabili diete, campo nel quale sempre più persone agiscono senza esclusione di colpi, senza preoccupazioni per la salute, con l’unico scopo di potersi presentare in società ripuliti del grasso in eccesso e ornati della giusta muscolatura.
Soprattutto nelle generazioni più giovani perfino la scelta del partner risente di modelli estetici elevati, e sembra avere un valore crescente presentarsi in situazioni sociali con un (o una) partner da copertina. Ovviamente nemmeno questo è un fenomeno ignoto né tantomeno nuovo, ma è la pervasiva cogenza con cui si impone, il modo in cui orienta e condiziona le scelte a testimoniare il crescente inquinamento dei modelli e delle rappresentazioni sociali. Si arriva alla vergogna di farsi vedere in giro con partner “bruttini”, e senza imbarazzo si considera la grande bellezza un valido motivo per non lasciare una persona che peraltro non si ama più.
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