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Gli inquinanti invisibili della mente – Parte II

(la prima parte di questo articolo si trova qui)

Nella prima parte di questo articolo ho definito “sociosfera” il complesso insieme di processi grazie ai quali un individuo forma dentro di sé una serie di modelli su cosa sia un essere umano, la società, il lavoro, le relazioni, il successo, l’amore, l’amicizia, il valore delle persone ecc., e sviluppa motivazioni specifiche verso questo o quell’aspetto. La sociosfera dunque orienta le nostre azioni, le nostre aspirazioni, le nostre scelte di piccolo e grande calibro. Ho poi proposto l’idea che la sociosfera, al pari dell’ambiente fisico, oggi registri un notevole livello di inquinamento, e mi sono messo alla ricerca di segni di questo fenomeno. In questa seconda parte termino questa elencazione e propongo alcune conclusioni.

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La terza area di inquinanti culturali riguarda l’autonomia, il legame, la libertà e si dipana tra due poli che potremmo chiamare dipendenza e indipendenza; l’equilibrio è fortissimamente sbilanciato verso l’indipendenza, mentre la dipendenza è vista come un disvalore, senza quasi nessuna differenziazione tra dipendenze funzionali, disfunzionali o patologiche, e nemmeno tra dipendenze lavorative, amorose, sessuali, da sostanze o altro. Ciò implica che grazie anche a una intersecazione con l’asse “piacere vs evitamento passioni tristi” l’individuo sia in costante monitoraggio degli effetti che legami e ogni altra forma di vincolo esercitano su di lui e questo alimenta generalmente una indifferenziata e quindi irragionevole aspettativa che, liberandosi dai vincoli, il benessere psichico aumenti. A margine va ricordato che le ricerche degli ultimi decenni concordano sul fatto che è vero semmai il contrario, ovvero che i legami (al netto di quelli patologici, evidentemente) sono un fattore positivo di salute e benessere psichico. Grazie agli inquinanti di cui stiamo parlando, l’individuo tende invece ad avvertire il legame principalmente come vincolo e come limitazione all’autonomia ed è più propenso a soffrirne che a goderne.

Nelle scelte di vita, quindi, e soprattutto in quelle amorose, si tende a privilegiare ogni forma di vincolo leggero, flessibile, reversibile, in definitiva un vincolo snaturato dalle sue caratteristiche essenziali e semantiche. Agli amori dichiarati si preferiscono legami fluidi o presunti tali. Anche nell’educazione dei bambini la pressione verso l’autonomia è fortissimamente enfatizzata, e spesso inopportunamente rispetto all’età dei figli troppo piccoli.

Quello che in definitiva si delinea in questa rete di rappresentazioni è un individuo tristemente autosufficiente, che vive in una relativa infelicità priva di vincoli. In questo scenario si intreccia anche un’altra dimensione, quella dello statuto dell’Altro (essere umano); negli ambiti del legame l’Altro comincia già a essere percepito più come problema che come risorsa, e il fatto di provare bisogno o brama per un’altra persona aumenta il rischio di percepirla come una persecuzione piuttosto che come una fonte di felicità e realizzazione. Lo statuto dell’Altro non si limita però alla dimensione del legame e tende a debordare anche nell’area della socialità allargata e perfino della politica. Si percepisce in ogni ambito comunicativo una diffusa voglia di espulsione e epurazione dell’altro, il crescente bisogno di capri espiatori e di nemici, con la convinzione che il mondo sarebbe un luogo migliore senza questa o quella categoria di persone. Lo vediamo tristemente nelle chat di gruppi classe dai dieci ai tredici, quattordici anni, piene di “devi morire”, “sparisci”, “fai schifo”…

Tornando a situazioni più soft: si preferisce un altro “numeroso ma leggero”, si preferisce la grande tavolata di amici nel dehor lungo le vie del centro storico piuttosto che l’amicizia intensa e confidenziale, nell’aspettativa che “tanti ma leggeri” possano bilanciare la funzione di “pochi ma pesanti”. Prolifera quindi la ricerca di un’amicalità adolescenziale, quando non addirittura infantile, confinata spesso nel gruppo sessualmente segregato, dove i bambini giocano con i bambini e le bambine giocano con le bambine. Questa ricerca funge da anestetico e fornisce rassicurazione che si possa soddisfare il bisogno umano dell’altro da sé senza entrare in vincoli limitanti.

Accade però che questa gratuità assolutizzata e irrealistica non possa essere sviluppata oltre misura e non possa in definitiva colmare bisogni relazionali che nell’essere umano sono più fortemente sostenuti da motivazioni ancestrali. Ecco allora comparire una radicalizzazione di altro genere, dove l’anestesia dal dolore della dipendenza viene perseguita con altri mezzi, ovvero la costruzione di legami intensissimi, simbiotici, fusionali, oppure legami assoluti con partner per loro natura impossibilitati a immettere nel legame una quota significativa di dolore: il partner tipico di questo tipo di legame è tipicamente un neonato o un cane. Il polo della dipendenza in questo tipo di legami è completamente sbilanciato nell’altro, il che sembra affrancare l’adulto dal vivere la sua quota di dolore e di dipendenza. Solo le esperienze concrete di vita faranno capire amaramente quanto ciò possa essere illusorio.

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La combinazione di questi, che abbiamo definito “inquinanti socioculturali”, delinea un individuo vagamente superomistico: brillante, competitivo, performativo, fisicamente prestante, automotivato, intraprendente, orientato al successo, autonomo e autosufficiente, che si accompagna agli altri solo per libero, gratuito piacere. Già a fine XX secolo A. Ehrenberg nel suo illuminante e anticipatore “La fatica di essere sé stessi” scriveva: 

«La misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità ma dall’iniziativa. E qui sta uno dei mutamenti decisivi delle nostre forme di vita, dal momento che queste nuove forme di regolazione non sono una scelta privata di ognu­no di noi ma una regola comune, valida per tutti, pena l’emarginazione.»

In questi due decenni il processo già individuato allora non ha fatto che accelerare e invadere nuovi campi dell’esistenza. L’individuo prestante si trova a confrontarsi con norme di natura nuova: non più il divieto e il limite, ma la prescrizione di modi di essere, di prestazioni, di capacità motivazionali interne, insomma si compie pienamente il passaggio da “comportati rettamente” a “pensa, senti, sii giusto”. Negli stessi anni prendeva piede la “teoria” (in realtà era più che altro una sintesi giornalistica), definita Intelligenza Emotiva: una nuova frontiera dove prescrivere all’individuo qualità, tratti di personalità, perfino emozioni. In questo processo le maniere in cui una persona può sperimentarsi come sbagliata si moltiplicano caleidoscopicamente: nella vecchia morale borghese si poteva sbagliare solo con le azioni, ora invece un soggetto si può sentire sbagliato per ciò che sente, per ciò che pensa, per le motivazioni che ha o viceversa di cui difetta, per le forme del proprio corpo o del proprio viso, perché non è abbastanza socievole, o brillante, o popolare, intraprendente ecc.

Come già preconizzato da Ehrenberg, l’individuo non è più tormentato da ciò che non gli è permesso fare, ma da ciò che non è in grado di fare. Il conflitto della trasgressione si è trasformato nel dramma (depressivo) dell’insufficienza e della inadeguatezza. Uno scenario del genere anche l’unicità della persona cambia statuto: da mero dato di fatto diviene imperativo, prescrizione, valore assoluto. Bisogna essere unici o perire. Come tutte le cose assurte a valori l’unicità è accompagnata dall’angoscia del suo opposto, la banalità e l’omologazione.

Conclusioni 

Quali sono in ultima analisi gli effetti possibili di questo inquinamento della sociosfera sulla salute mentale, e in generale sulle capacità della nostra società di riprodurre individui in grado di abitarla e viverla? Effetti molto diversi da individuo a individuo, in quanto vanno a sommarsi con la stratificazione di altre condizioni a maggiore variabilità, come le predisposizioni genetiche e congenite, le modalità di accudimento, lo stile di attaccamento, lo stile educativo ricevuto, le esperienze in età evolutiva e oltre, il livello economico e socioculturale della famiglia di origine… sommandosi a questa lunga (e incompleta) serie di fattori, gli inquinanti della sociosfera, al pari di quelli ambientali, non hanno certo un ruolo protettivo, ma al contrario contribuiscono a enfatizzare vulnerabilità preesistenti, rischiando di moltiplicarne gli effetti.

Che fare? Sappiamo quanto sia lungo e difficile riuscire a bandire sostanze nocive, e come il principio di precauzione venga ormai utilizzato in modo capovolto: “fin quando non ci sono evidenze certe che una sostanza è nociva essa deve restare in uso”, e, infine, come sia costellata di ostacoli la via per ottenere queste evidenze. Nel caso degli inquinanti della sociosfera la situazione è simile qualitativamente, ma terribilmente più confusa e dunque disperante: non è pensabile attuare forme di prevenzione in questo campo, ma ciò nonostante credo sia necessario conoscere l’argomento, e farne un oggetto di discorso, e di controinformazione, ogniqualvolta se ne presenti l’occasione.

Bibliografia essenziale

BENASAYAG, M., SCHMIT, G., 2004, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano

EHRENBERG, A., 1999, La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino

LIOTTI, G., FASSONE, G., MONTICELLI, F., 2017, L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali. Teoria, ricerca, clinica, Raffaello Cortina, Milano

PANKSEPP, J., BIVEN, L., 2014, Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina, Milano

PANKSEPP, J., DAVIS, K. I., 2020, I fondamenti emotivi della personalità. Un approccio neurobiologico ed evoluzionistico, Raffaello Cortina, Milano

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