COMMENTO DI GUIDO ARMELLINI*
“IL VOLTO DELL’ALTRO FRA PROSSIMITÀ E LONTANANZA”
Sotto il titolo evocativo Identità sospese Davide Peretti Poggi
espone un ciclo di dipinti dedicato alla raffigurazione di volti
umani. Si impongono allo sguardo alcune caratteristiche formali
comuni: l’ingrandimento delle dimensioni naturali, la
drammaticità dei chiaroscuri, l’emersione dei lineamenti da sfondi
densamente colorati, la tattile pastosità della materia in tensione
con l’uso del non-finito nella delineazione dei contorni, una
tendenza ora più ora meno pronunciata verso la monocromia. I
soggetti sono esseri umani ben individuati, diversi per età, per
etnia, per sesso. Hanno sguardi intensi e assorti, che non cercano
gli occhi dello spettatore ma sembrano perduti nel vuoto, o
concentrati su pensieri intimi o indefinite visioni interiori. Colpisce,
in contrasto coi canoni del gusto corrente, la totale assenza di
ammiccamenti concettuali, di giochi surreali, di forzature
espressionistiche. Siamo di fronte a una figurazione
singolarmente sobria, aliena da trovate o effetti che, sollecitando
una facile complicità nel pubblico, ne esibiscano vistosamente
l’”attualità”.
La scommessa di Davide Peretti Poggi è più radicale, più
ardua. Viene dopo l’eclissi del volto umano nell’arte del
Novecento, dopo le scarnificazioni e gli sfiguramenti di Fautrier, di
Giacometti, di Bacon. Ne ha riconosciuto e assimilato i significati
e le ragioni, e cerca di andare oltre, puntando ostinatamente sugli
strumenti artigianali della pittura e guardando alla storia,
compresa quelle delle avanguardie, con uno sguardo prospettico,
che è lo speculare opposto dei pompierismi e dei citazionismi
postmoderni. La sfida è duplice: da un lato l’affermazione di una
continuità con l’arte del passato che non sia pura e semplice
restaurazione; dall’altro la fede nella capacità della pittura di
restituire integrità e persino una qualche forma di sacralità
all’immagine dell’essere umano, riscattandola dalla reificazione e
dalla degradazione a cui è sottoposta nel nostro tempo.
Un poderoso e ponderoso precedente in questa direzione si
può considerare un pittore al cento per cento come Lucian Freud,
che ha dedicato tutta la sua opera all’immanenza della figura
umana, reinventata nella sua fisicità carnale con straripante
abilità tecnica e avida potenza mimetica. Ma la strada battuta da
Peretti Poggi – che in qualche sua opera anteriore può
richiamare, sia pure a distanza, questo precedente – è in un certo
senso opposta. Mentre Freud, nello sforzo di recuperare una
relazione diretta e vitale con i soggetti rappresentati, mira ad
annullare le distanze stringendoli in un abbraccio divoratore e
proiettando la sua potente identità di artista su corpi che,
identificandosi con la furiosa densità delle pennellate in ogni
piega della pelle, finiscono per fare tutt’uno col l’ego del loro
creatore, Peretti Poggi esalta l’alterità inappropriabile degli esseri
umani che prestano i volti ai suoi dipinti: tracce dense ma
inafferrabili, volti che restano altrui, inoggettivabili; presenze che
interpellano l’artista e lo spettatore da una distanza che ci attrae
e ci inquieta, ma che non possiamo colmare. Lo spettatore è
chiamato a scegliere se reagire a questa distanza con un senso di
estraneità e di indifferenza o accoglierla come appello a una
relazione coinvolta e impegnativa con un “tu” che può e deve
restare tale, e non è riducibile a un “esso”.
In questo senso si possono leggere le scelte formali, in
costante tensione fra prossimità e lontananza, che si
compongono di volta in volta in equilibri provvisori nei diversi
dipinti. Un motivo ricorrente è quello della materia vivente, la sua
consistenza fisica, la sua fragilità, la sua bellezza, resa attraverso
la stratificazione corposa e modulata del colore e l’assiduo lavorio
della spatola e del pennello. In alcuni casi prevale l’incompiutezza,
e gli impasti materici si addensano in pochi punti circoscritti,
mentre incisivi segni di carboncino accennano alcuni parziali
contorni, e ampie zone della superficie del quadro restano
scoperte, come se il viso umano stesse prendendo forma in quel
momento sulla tela grezza. In altri casi la luce forte che batte sui
volti, rafforzata dall’ingrandimento delle dimensioni, rivela con
nuda evidenza parte dei lineamenti, e ne racchiude altri in
un’ombra impenetrabile. In altri ancora la trasparenza delle
velature sovrapposte alla pasta pittorica crea un effetto di
dissolvenza, a simulare un graduale riassorbimento delle
sembianze umane nell’indefinitezza dello sfondo. Da un lato c’è
un’allusione a ciò che ci accomuna tutti e tutte, e suscita
compassione e vicinanza: l’esaltazione della polpa preziosa e
deperibile di cui ognuno di noi è fatto, nella sua vicenda ciclica di
germinazione, maturazione e dissoluzione; dall’altro c’è il senso
spiazzante dell’irriducibile inafferrabilità del “volto dell’altro”,
quel volto ulteriore, che sta aldilà di ciò che di lui o di lei possiamo
percepire coi sensi e abbracciare con la mente. Un’alterità
fraterna e disarmata che – come scrive Emmanuel Lévinas – è al
contempo «una richiesta d’aiuto e una minaccia», che mi mette
con le spalle al muro e mi obbliga a cercare una mia risposta.
Critico d’arte e scrittore, già docente di Letteratura
comparata nelle Università di Padova e Verona