ECLISSI DI COSTITUZIONE, Libro di Tomaso Montanari, edizioni ChiareLettere, Milano 2022
Prefazione di Tomaso Montanari*
Un libretto corsaro di critica radicale, come questo, ha oggi bisogno di qualche parola di premessa. Ho imparato a mie spese che non è tempo di dissenso, né di pensiero critico. Profondamente deluso dalla retorica autocelebrativa e dalla miopia dell’ultimo discorso di fine anno del presidente Mattarella – un discorso di congedo che in verità annunciava un ritorno –, usai il mio profilo Twitter per un’amara battuta sul fatto che le palme dei giardini del Quirinale, così irritualmente presenti nelle inquadrature del discorso più curato dell’anno, provocassero un freudiano ritorno del represso: l’apparire inaspettato di un paesaggio caraibico ci ricordava che siamo una repubblica delle banane. Cioè uno Stato da operetta, governato, così dice la definizione di Wikipedia, da una «oligarchia ricca e corrotta». Uno Stato retto da una propaganda a reti e testate unificate che spaccia il vecchio per nuovo, l’ingiusto per giusto, l’eccezione patologica per la più felice delle soluzioni. Non era una critica alla persona del presidente (che peraltro, da politico di governo e di lunghissimo corso, porta sulle spalle la sua quota di responsabilità dell’attuale stato delle cose), bensì uno sguardo impietoso sullo stato della democrazia in Italia. Ma, poco dopo, il portavoce della presidenza della Repubblica ruppe il tradizionale e rigoroso riserbo per additarmi al pubblico ludibrio: reo di aver confuso palma da dattero e banano (sic). Molti giornali, addestrati come cani da riporto del potere, fecero nelle ore successive il loro sporco lavoro di character assassination.
Tutto grottesco, ma anche rivelatore: l’arroganza e la violenza di questo potere sono il sintomo più evidente della sua estrema fragilità. Il bambino che dice che il re è nudo va preso a schiaffi, umiliato pubblicamente e messo subito a tacere: perché il re è davvero nudo. E il re è il sistema intero in cui viviamo.
Le ragioni di questa nudità sono le stesse che mi spingono prepotentemente a espormi, a non tacere. E queste ragioni hanno a che fare con il baratro spalancato davanti a noi: nell’arco della vita dei nostri figli Roma raggiungerà la temperatura che oggi ha Marrakech; le pandemie, frutto della nostra devastazione del pianeta e della sua vita animale, rischiano di moltiplicarsi fino a estinguere l’umanità; l’ingiustizia globale che abbiamo costruito e il cambiamento climatico innescato dal nostro modello economico spingeranno milioni e milioni di persone verso migrazioni che cancelleranno il mondo come lo conosciamo.
Di fronte a tutto questo, i vertici della Repubblica continuano a spingere la macchina nella stessa direzione di sempre, a gran velocità. L’astensionismo di massa, il parlamentarismo cancellato, l’accentramento del potere nelle mani di una oligarchia rapace, la crescita vertiginosa delle diseguaglianze e della precarietà, il consumo forsennato di suolo, aria, acqua: tutto va bene così, tutto è coperto dal tappeto di una retorica usurata, marcia, inascoltabile. Il problema non sono, naturalmente, le singole persone: ma Mattarella e Draghi governano l’Italia navigando a vista con l’orizzonte consueto alla loro età, quello di pochi anni ancora. Non è detto che a quell’età sia necessariamente così: papa Francesco, più vecchio di entrambi, ha uno sguardo profetico che costruisce un futuro diverso. E non è solo un fatto di età anagrafica: la politica, i giornali, le università, è l’intera cosiddetta classe dirigente italiana che appare incapace di futuro. E allora il baratro che si appresta a inghiottirci non consente una pacata critica «da dentro»: bisogna urlarlo sui tetti che stiamo per autodistruggerci.
Un film uscito in Italia qualche settimana prima del discorso di Mattarella, Don’t Look Up, racconta nel modo più efficace come ci stiamo comportando nei confronti del Covid e del riscaldamento climatico: la nostra priorità è guadagnare anche sulla possibile estinzione di massa, fino a suicidarci cantando allegramente. Il profitto di pochissimi, la cecità di molti, la fine di tutti.
Per evitare, se è possibile, che il futuro prossimo sia quello, bisogna provare a leggere il presente. Provare a decostruire la propaganda del potere attraverso uno sguardo non conforme, non corrotto, non allineato. Prendiamo una fotografia ufficiale che ha fatto il giro del mondo, quella – scattata il 31 ottobre 2021 – che immortala i sedicenti Grandi della terra quasi tutti maschi mentre, di spalle, lanciano una moneta di speciale conio (con sopra il povero Uomo vitruviano del povero Leonardo) nella Fontana di Trevi.
Come nel caso del dissennato giro trionfale del pullman della nazionale di calcio dopo la vittoria degli Europei e in piena pandemia, ne viene fuori un impietoso autoritratto del draghismo, che potremmo intitolare il «populismo delle élite», cioè il populismo di un establishment che pensa di essere antipopulista e invece è antipopolare. Coloro che si definiscono senza autoironie Grandi della terra – mentre il loro colpevole, imperdonabile bla bla condanna a morte la terra stessa – vogliono qua mostrarsi come semplici turisti, replicandone le più trite, superstiziose consuetudini. «Siamo come tutti voi» è il messaggio, «siamo il popolo»: ma lo sappiamo che non è vero. Lo sappiamo che siete i nostri padroni, non i nostri servitori. Lo sappiamo che siamo in una post-democrazia, e che proprio per questo i nuovi sovrani hanno bisogno di legittimarsi con pose di degnazione tipiche dell’Antico regime, pose grottesche che fino a vent’anni fa non sarebbero mai venute in mente a nessun leader del mondo libero. Ma, per fortuna, le immagini sono da sempre subdole, infide, polisemiche, libere; e la loro interpretazione è del tutto indipendente dalla volontà dei committenti, perfino da quella degli autori. Così è impossibile non leggere quella fotografia come una potente allegoria dell’irresponsabilità politica ed economica dei Grandi: potenti che gettano i soldi (di noi tutti) dietro le proprie spalle, senza nemmeno curarsi di vedere dove vanno a finire. Scherzano, ma attraverso quel motto di spirito dicono, malgrado se stessi, la verità. Non per caso la Caritas (cui sono destinate le monetine ripescate ogni settimana nella fontana) ha rotto la quarta parete della finzione, andando al sodo: «Speriamo che tra i frutti di questo meeting, in cui si parla di migrazioni e di vaccini ai paesi meno sviluppati, per i poveri non ci siano solo le monetine della più bella fontana del mondo». E fa molto pensare anche un altro aspetto della foto: i potenti danno, appunto, le spalle a quello straordinario monumento dell’età barocca. Nella tradizione italiana le fontane sono monumenti «politici»: unendo la funzione pratica di rendere accessibile l’acqua alla bellezza con cui danno forma alla città, esse sono volute e progettate come «manifesti» attraverso i quali i governi si rivolgono direttamente ai cittadini. La Fonte Gaia di Siena, per esempio, fu il coronamento della straordinaria impresa urbanistica di piazza del Campo, e si decise di costruirla nel 1309, iscrivendone la delibera all’interno del Costituto, lo statuto comunale che metteva la «bellezza della città» al centro delle preoccupazioni dei governanti. Dietro ognuna delle nostre strepitose fontane monumentali sta la profonda convinzione che esse manifestino visibilmente il bonum commune, cioè il bene comune, l’interesse generale, ciò che tiene insieme la comunità civile. Ancora oggi esse offrono a tutti, gratuitamente, l’utilitas dell’acqua, e lo fanno attraverso l’ornamentum dell’arte: utilità e bellezza, natura e artificio si trovano uniti nelle fonti monumentali come in nessun altro luogo delle città antiche.
Cosa ha in comune con tutto questo una élite mondiale che non riesce a svincolare nemmeno la comune sopravvivenza del genere umano dal totalitarismo del mercato? Cosa possono capire di bene comune i Capi che non riescono nemmeno a vaccinare tutta l’umanità, per sordide questioni di brevetti e di soldi? Niente: perciò danno le spalle alla fontana, perciò pensano solo alla moneta che hanno in mano. Mai ritratto fu più giusto.
C’è un tempo per tutto: e questo non è il tempo di tacere.
Mi si consenta una nota personale: sono nato (senza alcun merito, ovviamente) nella parte «giusta» del mondo, e in una famiglia benestante (senza essere ricca) e colta; ho avuto la fortuna di fare ottimi studi, culminati alla Scuola Normale di Pisa; ho pubblicato moltissimi lavori, riconosciuti a livello internazionale, nella mia materia (la storia dell’arte dell’età barocca); sono diventato presto (per i canoni italici) professore ordinario, e ora mi trovo a fare il rettore della mia università; ho costruito una voce capace di essere udita nel discorso pubblico (al punto che, invece di ignorarmi, si prova a distruggermi). Non ho ambizioni politiche: non penso alla politica come a un possibile mestiere, voglio continuare a fare il lavoro che ho scelto.
Tutto mi consiglierebbe di tacere: di accomodarmi al mio posto, di non rompere le scatole, di dire solo in privato ciò che il potere non è disposto a sentir dire in pubblico. Ed è, posso assicurarlo, davvero faticoso, frustrante, spesso umiliante provare a mostrare in continuazione che il re è nudo. Non mi sopravvaluto: so benissimo di non contare quasi nulla. Ma penso che, in questo momento drammatico della storia del mondo, e in un paese senza opposizione politica, se quelli come me (cioè quelli che stanno al sicuro) tacciono, davvero non c’è alcuna speranza di provare a salvarci. Occorre «il senso della rivolta», e la «capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse» (Said). E, con il Tommasino di casa Cupiello, occorre saper rispondere, a chi chiede ossessivamente «ti piace il presidente Draghi?»: no, non mi piace.
Mentre licenzio questo piccolo libro, il mondo che doveva uscire «migliore» dalla pandemia è sprofondato nell’ennesima guerra europea, una guerra vicinissima a noi: una guerra capace di far riapparire lo spettro dell’apocalissi nucleare. L’aggressione di Putin all’Ucraina è un atto deliberatamente mostruoso, senza giustificazioni possibili. Ma nella sua genesi le potenze occidentali hanno una grande responsabilità oggettiva: concependo un mondo in cui l’unica potenza globale dovevano essere gli Stati Uniti, e dunque allargando la Nato fino ai confini della Russia, esse hanno preparato la guerra dicendo di voler con ciò assicurare la pace. L’esito della lunga crisi ucraina dimostra invece che l’abusato detto latino si vis pacem, para bellum va riscritto in: si vis pacem, para pacem. Se vuoi la pace, prepara la pace: non la guerra. Questo il senso profondo dell’articolo 11 della nostra Costituzione: ripudiare la guerra significa lavorare per non crearne le premesse, per allontanarla, per annullare le possibilità che si verifichi. E per chi si chiede come si sia potuti arrivare a una guerra nel cuore dell’Europa nel 2022 le risposte sono tutte riunite nel campionario occidentale di incapacità di pensare, progettare, costruire un futuro diverso che è perfettamente rappresentato dall’attuale governo italiano.
Proprio per questo è necessario pensare che sia possibile voltare pagina: anche solo perché è indispensabile farlo. Per concepire e partorire un futuro che non sia solo la continuazione del presente ci vuole fede nell’umano che resiste nell’uomo. Fiducia nonostante tutto, speranza contro ogni speranza. Hannah Arendt scriveva, da ebrea e laica, che il Natale – la nascita di ogni bambino – è il segno di una fede e di una speranza nel mondo, di una speranza nell’inatteso e nel possibile. Da cristiano sono profondamente d’accordo sul fatto che è sempre possibile cambiare tutto: purché ciascuno faccia la sua parte fino in fondo, compromettendo se stesso senza riserve come insegna il Natale, la festa dell’incarnazione.
E la parte di chi fa il mio mestiere è quella di parlare: quando è opportuno. E anche quando non lo è.
*Rettore dell’Università per stranieri di Siena