CARLO FLAMIGNI
L’ABORTO , UN PROBLEMA SOCIALE
Un male inevitabile

Nessuno sa con certezza quanti aborti vengano procurati ogni
anno nel mondo : dati recenti parlano di 55 milioni, che
corrispondono a 70 per 1000 donne in età riproduttiva e a 300 per
1000 gravidanze. Anche se questi dati sono molto
approssimativi, è probabile che essi diano almeno un’idea di
quanto accade nella realtà. E poiché la maggior parte degli aborti
viene eseguita illegalmente, ne risulta che ogni giorno più di
150.000 donne si sottopongono a interruzione della gravidanza in
condizioni non igieniche, rischiando gravi complicazioni – e
spesso persino la morte – piuttosto che portare a termine la
gestazione.
Il ruolo dell’aborto nel controllo della crescita della popolazione
è stato oggetto di molte ricerche. Nel 1964 Mumford e Kessel
hanno messo a confronto aumento della popolazione e
percentuale di aborti in 116 dei più grandi paesi del mondo. Ogni
paese è stato classificato in base alla percentuale di aborti (molto
alta, alta, modesta, bassa) ; all’interno di ciascun gruppo è stata
poi calcolata la percentuale di donne in età compresa tra i 15 e i
44 anni che faceva uso di contraccezione. Nella valutazione
finale i due studiosi hanno poi tenuto conto del tasso di
incremento naturale della popolazione, della suddivisione della
popolazione per classi di età e della mortalità infantile, calcolata
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come percentuale di bambini che muoiono prima dei 5 anni. La
conclusione è stata che la disponibilità dell’aborto – cioè la
possibilità di poter contare sull’aborto legalizzato – era
essenziale ( le cose sembrano cambiate da allora, anche se
probabilmente in modo non sostanziale) per il controllo della
crescita della popolazione con due sole eccezioni, l’Irlanda e la
Svizzera. L’aumento della popolazione non è solo funzione
dell’uso degli anticoncezionali e della disponibilità dell’aborto,
ma anche della distribuzione della popolazione per classi di età e
della mortalità infantile. L’uso di anticoncezionali è condizione
necessaria, ma non sufficiente, per una bassa crescita della
popolazione e nello stesso modo una elevata percentuale di
aborti rappresenta una condizione necessaria. ma ancora una
volta non sufficiente per ottenere una crescita controllata della
popolazione.
Questi dati riguardano il 1964, più di 40 anni or sono, e
certamente non possono essere considerati attuali. Di tutti i
mutamenti occorsi, quello che ha inciso maggiormente sulla
frequenza delle interruzioni volontarie delle gravidanze è stata la
disponibilità di anticoncezionali sicuri, come la pillola, e
soprattutto la diffusione di una cultura specifica sui temi della
riproduzione e dei rischi connessi con la vita sessuale. Ciò
emerge molto chiaramente, come vedremo, dai dati relativi al
numero e alla frequenza degli aborti volontari nel nostro paese e
dal notevole impatto che su questi dati ha avuto l’arrivo di un
grande numero di nuove cittadine provenienti dall’Africa e
dall’Asia.
E’ vero infatti che molti paesi in via di sviluppo si trovano di
fronte a grossi ostacoli che riguardano proprio il controllo delle
nascite: molti di essi, infatti, per portare il proprio tasso di
crescita al di sotto dell’1% dovrebbero affidarsi all’aborto in
misura maggiore di quanto facciano i paesi industriali per una
serie di ragioni:
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- la popolazione giovane contribuisce sostanzialmente alla
crescita della popolazione, e questo problema non è
modificabile perché la maggior parte delle donne che avranno
bambini intorno al 2020 è già nata; - l’uso di anticoncezionali dipende sia dalla attitudine e dalle
motivazioni delle persone in età riproduttiva che dalla
diffusione dei servizi di pianificazione familiare; entrambi
questi fattori possono essere influenzati dalla politica, ma nei
paesi in via di sviluppo ciò avviene con particolare difficoltà,
per la mancanza dei benefici connessi con lo sviluppo, che si
possono identificare nei trasporti, nelle comunicazioni, nei
sistemi di insegnamento e, in modo più generale,
nell’educazione. Le donne di questi paesi non sono motivate
ad avere famiglie poco numerose e la maggior parte di loro
non fa uso di anticoncezionali e soprattutto non fa uso, non
conosce o non accetta di usare anticoncezionali efficaci. Lo
stesso metodo contraccettivo risulta molto meno utile nelle
società in via di sviluppo di quanto non lo sia nelle società
industriali.
Dunque, gran parte dei paesi in via di sviluppo, se volessero
controllare in modo efficace l’aumento della popolazione
(controllo che è considerato molto utile anche sul piano
economico) dovrebbe consentire ai cittadini un più facile accesso
alle interruzioni di gravidanza, cosa che potrebbe risolvere solo
in parte la mancanza di servizi di pianificazione familiare e le
gravi carenze nell’educazione. E poiché oltretutto molte nazioni
hanno deciso di non legalizzare l’aborto volontario per motivi
religiosi, ne consegue che per loro assume particolare
importanza la diffusione dell’aborto clandestino e la disponibilità
di metodi alternativi.
E’ di qualche interesse, a questo proposito, la tecnica definita
“del controllo mestruale”, abbastanza diffusa nei paesi nei quali
l’aborto è illegale ma dove le autorità di polizia sembrano
accettare una sorta di compromesso, altrettanto pragmatico
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quanto ipocrita, che consiste nel chiudere entrambi gli occhi sulle
interruzioni illegali di gravidanza purché non vengano chiamate
aborti. Questo metodo, oltre a sfuggire ai controlli della
giustizia, trova una sorta di accettazione sociale in molte aree
geografiche, un consenso acritico che generalmente precede
l’approvazione morale.
Moralmente, non c’è bisogno di dirlo, l’aborto non sembra avere
molte giustificazioni, soprattutto quando si tratta di aborti tardivi
che riguardano feti già molto vicini alla possibilità di vita
autonoma. Ne consegue che assumono grande rilievo le ragioni
che inducono a chiedere l’interruzione della gravidanza, che
evidentemente non possono essere futili né conseguire a scelte
capricciose e che soprattutto non debbono avere niente a che fare
con la contraccezione e con il controllo delle nascite.
D’altra parte, delle molte teorie sull’inizio della vita personale,
sono ben poche quelle che non considerano persona un feto che
ha superato il terzo mese di sviluppo intrauterino. Ecco perché il
controllo mestruale, che è causa di interruzione delle gravidanze
in epoca precocissima, in una situazione che a molti appare
“pre-umana” dello sviluppo embrionale, sembra creare minori
controversie.
Per quanto mi è dato capire, l’interruzione volontaria della
gravidanza viene considerata un male inevitabile, utile per le
coppie che vedono fallire le loro precauzioni anticoncezionali e
svanire il loro progetto di famiglia, indispensabile per i governi
che debbono fare i conti con le disastrose conseguenze di una
crescita incontrollata della popolazione. Si possono disegnare
due tipi di società che possono fare a meno dell’aborto: la prima
è una società nella quale ogni bambino che nasce è benvenuto,
anche se sottrae il cibo necessario per la sopravvivenza dei
fratelli; la seconda è una società nella quale ha avuto successo la
diffusione della cultura, per cui tutti i cittadini sentono il peso
della responsabilità sociale connessa con la vita sessuale e sanno
utilizzare con discernimento i metodi anticoncezionali che la
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scienza (che rappresenta il loro maggiore investimento e che è al
loro servizio) mette a disposizione. Che poi luoghi come quelli
descritti esistano veramente è un’altra faccenda.
Quale sia la politica che i governi dovrebbero attuare per ottenere
il miglior controllo possibile della crescita della popolazione è
oggetto di controversie. Ad esempio le agenzie occidentali che si
occupano del family planning ritengono che il modo migliore sia
quello di sollecitare l’impiego di metodi anticoncezionali sicuri,
arrivando molto vicini a una vera e propria imposizione,
realizzata mediante pressioni di vario genere. Questa teoria si
basa soprattutto sulla convinzione che la povertà di molti paesi
è causata dall’eccesso di popolazione , ipotesi che ha giustificato
l’invio, nei cosiddetti “paesi del terzo mondo”, di esperti del
controllo delle nascite, veri e propri missionari al servizio del
preservativo e della spirale. Chi governa questi paesi è invece
convinto dell’inutilità di queste pressioni che inducono i cittadini
a scegliere modelli e stili di vita in contrasto con la loro cultura,
e, rovesciando i termini del problema, sostiene che l’eccesso di
popolazione di molti paesi è la diretta conseguenza della loro
povertà . Del resto non può essere casuale il fatto che gran parte
dei tentativi fatti dalle associazioni mediche che hanno lavorato
per le agenzie di family planning sono falliti. E’ noto – anche per
esser stato il soggetto di un libro – il clamoroso insuccesso di un
gruppo di medici e di paramedici americani che spesero più di tre
anni ad insegnare tecniche contraccettive agli abitanti di un
villaggio dell’India settentrionale e tornarono in patria solo dopo
aver potuto constatare l’assoluta scomparsa di donne gravide .
donne che in realtà erano state allontanate ed eventualmente
scambiate con donne non gravide dei villaggi vicini e che
rientrarono prontamente nelle loro case appena furono certe della
partenza degli stranieri.
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Le gravidanze indesiderate
Ma questo è un problema che riguarda la politica e che non
desidero trattare in questo libro. Voglio invece parlare
brevemente del problema che mi sembra maggiormente collegato
con l’aborto, che è quello delle gravidanze indesiderate.
Le soluzioni proposte per risolvere questo problema – le
gravidanze indesiderate ci sono sempre state e hanno sempre
messo in grave imbarazzo le donne e le loro famiglie – sono
molto diverse : le differenti culture hanno talora imposto, talora
tollerato, scelte come il matrimonio riparatore, l’offerta del
bambino per l’adozione, l’interruzione della gravidanza,
l’infanticidio. E’ logico che per le ragazze nubili c’è sempre
stata la possibilità di tenere il bambino, scelta relativamente
semplice in alcuni contesti sociali, praticamente impossibile in
altri.
Per la giovane donna che scopre di essere incinta, il matrimonio
rappresenta una scelta piuttosto frequente. Negli Stati Uniti, la
sposa è già gravida, quando sale all’altare, una volta su tre e i
problemi semmai vengono in seguito vista l’elevata incidenza di
separazioni e di aborti volontari e considerando il fatto che per
molte ragazze questo matrimonio non pianificato finisce col
rappresentare un ostacolo per la carriera ed è spesso causa di
frustrazione. Forse le cose andavano meglio nella Romagna nella
quale sono nato, nella quale le gravidanze sono sempre state
molto meno indesiderate di quanto un osservatore esterno potesse
immaginare.
La decisione di portare a termine la gravidanza e di offrire il
bambino in adozione è divenuta meno frequente nei paesi nei
quali è stato legalizzato l’aborto, ma resta la scelta prevalente in
quelli nei quali questi bambini hanno un valore economico, cosa
che sa bene chi si rivolge all’adozione internazionale. In linea di
principio sembra però che questa esperienza sia tutt’altro che
positiva per la madre biologica, il che rende poco accettabili le
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proposte di adozione prenatale avanzate soprattutto da alcuni
movimenti cattolici per cercare di diminuire l’incidenza degli
aborti volontari.
L’infanticidio
La soluzione di gran lunga più utilizzata resta comunque quella
dell’interruzione della gravidanza, e ciò malgrado l’aggressività
con la quale i membri di alcune sette religiose si sono accaniti nel
tentativo di contrastarla. Ma per un numero incalcolabile di anni
e per nostra comune vergogna, la soluzione più comune è stata
quella dell’infanticidio. Penso che debba essere ben chiaro che
non ritengo che ci dobbiamo vergognare delle scelte fatte dai
nostri antenati in epoche tanto lontane, povera gente obbligata a
comportarsi seguendo regole dettate dalla necessità e per le quali
non esistevano alternative. Mi vengono invece in mente gli
infanticidi commessi in epoche molto più recenti, che certamente
avrebbero potuto essere evitati se solo le società nelle quali
quegli uomini e quelle donne vivevano fossero state più giuste.
Ha poco senso parlare di genitori e di figli riferendosi a tempi
che hanno preceduto il momento in cui l’uomo ha scoperto la vita
associativa. Come e quando questa scoperta sia stata fatta e quali
vantaggi gli uomini vi abbiano scorto, non lo so. Mi vengono
però in mente le impronte lasciate in Tanzania, tre milioni e
mezzo di anni or sono, da un gruppo di individui certamente
molto simili a noi: orme nitide di due adulti e di un essere più
piccolo che camminavano insieme, vicini, in posizione eretta.
Viene da pensare a una famiglia.
Immagino che la prima definizione di paternità si possa applicare
a quei maschi che, dopo essersi allontanati per molti giorni dal
luogo dove vivevano con la femmina e i piccoli, alla ricerca di
una preda, quando l’hanno catturata ne hanno riportato una parte
“a casa”. Con queste prime cure parentali quegli uomini hanno
consentito alla prole di sopravvivere. Che alcuni di quegli uomini
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non tornasse è stato normale fino a una certa epoca, poi è
diventata una scelta molto simile a quella dell’infanticidio
I primi infanticidi debbono essere stati necessariamente il frutto
di scelte obbligate. Se la cacciagione è scarsa, se la forza e
l’abilità del cacciatore diminuiscono, il cibo può essere
sufficiente a nutrire solo una persona, e non credo che in
circostanze come queste gli uomini abbiano avuto perplessità
nelle decisioni. Su questa base, l’infanticidio si è perpetuato per
secoli : le vittime di questa apparente brutalità sono state, almeno
inizialmente. le creature più fragili, quelle malate, deformi o
soltanto più piccole. In particolari circostanze la scelta deve
essere stata fatta sulla base del sesso, e immagino che a pagare
siano state quasi sempre le femmine.
E’ un fenomeno che non è stato confinato a questa o a quella
civiltà e che ha attraversato molte epoche storiche. Gli spartani
abbandonavano i loro figli deformi fuori dalle mura della città,
così come i giapponesi, nel loro medioevo, ritenevano lecito, nei
periodi di carestia, sacrificare le figlie femmine. Entrava spesso
in gioco la capacità del padre di stabilire quale poteva essere il
massimo di competizione accettabile per le “cose che contano”.
Ecco perché, in tante civiltà e in tante culture, la sopravvivenza
di un nuovo nato veniva decisa dal padre: senza discussioni e
senza alternative, pietà e compassione erano fuori luogo.
E’ probabile che per molti secoli l’infanticidio non abbia avuto
alternative: la nascita di un nuovo bambino sconvolgeva ogni
possibilità di assistere i figli già nati, era semplicemente
impossibile prendersi cura di lui. Poi la medicina – o la
stregoneria, o l’esperienza, o la saggezza delle altre donne –
hanno proposto un’altra soluzione, l’aborto, ed è stato possibile
scegliere. Quello che non si deve credere è che la scelta tra
abortire e far nascere il bambino per poi abbandonarlo o
ucciderlo sia stata così semplice come può sembrare a prima
vista. Per la nostra morale, che già condanna in linea di principio
l’aborto, l’infanticidio è ripugnante, una delle forme più vili di
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omicidio. Ma le donne hanno dovuto fare i conti per secoli con
altri problemi. L’aborto ha spesso contemplato rischi maggiori
del parto, o ha avuto costi così elevati che solo poche donne
potevano permettersi. Per un lungo periodo di tempo, e
certamente fino all’epoca della scoperta degli antibiotici, le
infezioni puerperali, già molto frequenti dopo i parti, erano quasi
la norma dopo un aborto procurato, che veniva quasi sempre
eseguito in condizioni igieniche spaventose. In molte realtà
sociali e, soprattutto, nelle società contadine, operavano
mammane che confidavano nelle proprietà abortigene di droghe
che spesso facevano abortire perché facevano morire. Quando le
donne lo scoprivano, preferivano aspettare e partorire.: per
sopprimere il bambino, poi, c’erano molti modi.
Mi sto rendendo conto che sto parlando di infanticidio come se
evitassi di condannarlo. E’ logico che non è così, la condanna è
implicita. Ma non è possibile considerare questi fatti senza
provare compassione. Nell’animo di chi commetteva il gesto
brutale di uccidere il bambino appena nato non c’era né
malevolenza né odio. Le donne romagnole, dei propri figli morti
( quanti spontaneamente ?) dicevano che “se li era presi Iddio” e
a quel Dio certamente pietoso e comprensivo manifestavano
gratitudine. D’altra parte l’alternativa era certamente
drammatica. In molte famiglie la miseria consentiva a malapena
una tormentata sopravvivenza per un certo numero di figli, e
l’arrivo di un altro bambino avrebbe certamente catalizzato il
disastro.
Il modo di uccidere i bambini si è adattato ai cambiamenti delle
norme giuridiche. Nei tempi in cui il destino dei figli era
completamente affidato al giudizio dei padri, il bambino veniva
lasciato morire di fame, abbandonato da qualche parte o ucciso
con mezzi altrettanto cruenti quanto rapidi e pietosi. Quando la
legge ha cominciato a punire l’infanticidio, considerandolo un
crimine efferato e sottolineandone la gravità, le famiglie si sono
adattate. Qualche volta, dopo essere riuscita a nascondere la
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gravidanza fino alla fine, la donna è riuscita a seppellire il
bambino appena partorito all’insaputa di tutti ; più tardi,
mammane e ostetriche hanno suggerito modo più complessi di
dare la morte al piccolo, senza lasciare tracce evidenti. Alla fine
dell’800, alcune levatrici romagnole sapevano come inserire un
lungo spillo nella gola del neonato fino a raggiungere il bulbo e
ci sono voluti lustri perché i medici capissero che cosa
significava quella piccola macchia rossa in fondo alla gola del
nuovo nato. E poi i bambini venivano annegati, o soffocati con
un cuscino, dopo di che i genitori denunciavano l’accaduto
fingendo la più cupa disperazione e raccontando di averlo fatto
involontariamente, rigirandosi nel sonno.
Una forma molto comune di infanticidio era quella che
prevedeva l’esposizione del nuovo nato, una sorta di affidamento
a mani più generose, che potevano o non potevano essere trovate.
Molto frequente nell’antica Roma, l’esposizione dei neonati fu
ben presto assimilata all’infanticidio e all’aborto nelle condanne
e trovò un assetto meno crudele solo quando i bambini
cominciarono ad essere affidati a istituzioni che provvedevano,
per quanto possibile, alla loro sopravvivenza.
Nel 1556 la Francia approvò una legge che condannava come
criminale ogni donna che avesse nascosto il suo stato di
gravidanza e che avesse poi lasciato o fatto morire il suo
bambino prima del battesimo. Alcuni decenni più tardi una legge
inglese stabilì che doveva essere considerata colpevole quella
madre di un figlio bastardo che avesse nascosto la sua particolare
gravidanza e che avesse poi eventualmente affermato che il
bambino era deceduto o era nato morto. Era una legge che
stabiliva una presunzione di colpevolezza e obbligava le donne a
dimostrare la propria innocenza, una di quelle leggi che vengono
approvate solo quando il crimine che si vuole impedire è
straordinariamente diffuso.
Nel XVI e nel XVII secolo ci fu lo stesso numero di condanne a
morte per infanticidio e per stregoneria, cosa comprensibile
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perché le due colpe erano frequentemente associate nei
documenti di condanna. In realtà i giudici cominciavano a
rendersi conto che le sentenze, quando si basavano soltanto sul
reato di stregoneria, erano assai poco credibili. Era dunque
conveniente e più semplice giustificare una condanna per
infanticidio : di bambini ne morivano continuamente in tutte le
famiglie e la causa più frequente della loro morte era la
denutrizione conseguente alla condizione di estrema povertà
delle famiglie. Era dunque sufficiente mettere in discussione le
cure che questi bambini avevano ricevuto per trovarsi tra le mani
un bel caso di infanticidio.
In quel periodo, in tutta l’Europa ci fu una vera e propria crociata
contro l’infanticidio e ovunque crebbe il numero di condanne a
morte per questo reato. E’ logico chiedersi se si sia trattato di un
tentativo di reprimere un atto criminoso sino a quel momento
tollerato, o se gli infanticidi fossero piano piano aumentati di
numero fino a destare l’attenzione di una giustizia distratta e
assonnata. In quei tempi la caccia alle streghe aveva intrappolato
un numero crescente di ostetriche , ed è anche possibile che le
donne venissero progressivamente private delle loro più valide
consigliere in materia si contraccezione e di aborto. A causa di
questa persecuzione, l’uso delle erbe che avevano un effetto
anticoncezionale , già entrato in crisi per la crescente reticenza
degli erboristi, restò a lungo affidato alla cultura delle donne
anziane delle famiglie, che peraltro conoscevano solo (uso i
termini di quei tempi) le “erbe dell’orto” e ignoravano “quelle
del monte”. In circostanze come queste, l’infanticidio era in
molti casi l’ultima spiaggia.
Decidere di uccidere i bambini può essere anche una decisione
ufficiale, presa da chi amministra e governa. Non c’è bisogno di
ripescare Erode: nel 1700, il Parlamento inglese, dopo aver
espresso la sua costernazione per il grande numero di creature
innocenti che venivano trovate morte ogni mattina nelle strade
delle grandi città, uccise soprattutto dalla fame, dall’oppio o dal
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gin, istituì i brefotrofi. Nel primo di questi, aperto nel 1756,
furono ricoverati 15.000 bambini in 4 anni: di questi, solo 4.000
raggiunsero l’adolescenza, il che mi fa pensare che queste
istituzioni fossero una anteprima dei campi di concentramento
tedeschi. Giustamente sconcertati, i funzionari delle parrocchie
cominciarono ad affidare i bambini abbandonati a “brave donne”
che si offrivano di occuparsene per un modesto compenso.
Ebbene, solo il 20% di questi bambini sopravvisse alle cure di
queste megere , che sono passate alla storia col nome di “balie
assassine”. E’ bene chiarire che questo non era solo un problema
inglese: in Francia, nel periodo compreso tra il 1824 e il 1833
furono affidati alle istituzioni, perché abbandonati, 336.000
bambini, il 90% dei quali morì nel primo anno di vita.
Ma c’è realmente bisogno di guardare al passato? L’ONU ha
recentemente denunciato la mancanza di molti milioni di
bambine, soppresse con l’aborto o con l’infanticidio in un certo
numero di paesi, soprattutto asiatici, nei quali non è mai stato
possibile sradicare la tradizionale preferenza per i figli maschi.
Emily Oster, una giovane e brillante economista dell’Università
di Harvard, ha cercato di giustificare l’anomalo rapporto
numerico tra nascite di maschi e di femmine chiamando in causa
particolari cause biologiche, come la presenza endemica di
malattie virali epatiche, ma ci sono dati che nessuno riesce a
giustificare: ad esempio, in Pakistan più del 65% dei casi di
malnutrizione riguarda le bambine, un gran numero delle quali
muore prima di raggiungere l’adolescenza.
E’ sin troppo facile usare aggettivi che indichino esecrazione e
condanna quando si parla di infanticidio. In realtà, si tratta di
comportamenti che sono spesso determinati da problemi
culturali, o sono indotti da necessità e da bisogni che non
lasciano alternative. Quando non è possibile eseguire un
controllo efficace della fertilità e quando la miseria è tale da
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trasformare l’annuncio di una nuova nascita in una condanna a
morte per fame dei figli già nati, i comportamenti vengono dettati
esclusivamente da bisogno e il giudizio non può che ispirarsi alla
compassione. Non credo che sia possibile provare sentimenti
diversi nei confronti dell’aborto e mi sembra che questa difficoltà
nell’esprimere un severo giudizio di condanna appaia evidente se
si considerano le leggi che le differenti società si sono date al
riguardo: in realtà è difficile condannare i crimini per i quali il
sentimento prevalente non è l’orrore, ma la compassione.
Le prime regole
Gli Assiri approvarono in successione un certo numero di leggi
che punivano in vario modo chi procurava un aborto. La
protezione del feto c’entrava poco, gli Assiri ammettevano
l’interruzione della gravidanza (qualora non fosse desiderata) e
l’uccisione del feti malformati. In realtà, le leggi difendevano il
diritto dei padri di veder nascere i figli che avevano generato.
Una importante distinzione si deve a una legge ittita che stabiliva
pene diverse a seconda dell’epoca di gravidanza nella quale era
stato eseguito l’aborto. In questo modo si stabiliva una differenza
di valore che dipendeva dallo stadio di sviluppo del feto e
venivano autorizzate le interruzioni di gravidanza eseguite prima
del 5° mese. E’ probabile che gli ittiti si riferissero a qualcosa di
concreto, nella valutazione dell’epoca di gravidanza, visto che
non potevano certamente disporre di strumenti capaci di
definirla, e la maggior parte degli storici ritiene che il limite fosse
segnato dal momento in cui la donna sentiva muovere il feto o
questi movimenti potevano essere percepiti con la palpazione
dell’addome.
Le leggi religiose ebraiche erano ispirate dagli stessi principi ai
quali si richiamavano le altre culture asiatiche e offrivano ben
poca protezione al feto. Nell’Esodo (21:22) è scritto che se due
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uomini lottano tra loro e nel lottare colpiscono una donna
gravida, e lei espelle il feto, ma non ne consegue altro danno,
l’uomo che l’ha colpita deve essere portato davanti al giudice dal
marito di questa donna per essere condannato a pagare una multa,
la cui entità dovrà essere decisa dal giudice. Come si vede, non
c’è alcuna protezione per il feto, il problema riguarda solo il
padre, privato del diritto di veder nascere il figlio che aveva
concepito. Per la legge, dunque, il feto aveva diritto a una
protezione dal momento della nascita e non prima. Il Talmud si
riferisce a lui come a una parte della madre, analogamente alla
definizione romana “pars viscerum matris”. Più avanti, L’Esodo
(21-23) stabilisce che se la donna subisce un danno, allora dovrà
essere restituita vita per vita, piede per piede, bruciatura per
bruciatura, ferita per ferita, frustata per frustata. La traduzione in
greco dell’espressione nefesh tahat nefesh, vita contro vita, che è
stata ψυχήν αντί ψυχής, ne cambia il significato, introducendo il
concetto di anima e facendo supporre che la punizione è imposta
solo dopo che il concepito è formato.
Nella visione ebraica, la condizione necessaria perché chi
procura un aborto sia condannato soltanto a un’ammenda è legata
al significato della parola “ason” che in ebraico dovrebbe
indicare disgrazia (nei miei testi è tradotta anche come caso di
morte e in un testo francese come “mais sans autre accident”.
Questa parola è stata tradotta in greco con un termine che indica
un’immagine, qualcosa di formato, per cui l’intera frase prende
un significato completamente diverso: “….se non ci sarà danno,
allora colui che l’ha percossa sarà costretto a pagare
un’ammenda”; e ancora: “ e se invece ci sarà forma, allora metti
vita per vita”. La traduzione dei 70 è stata l’unica versione greca
del Vecchio Testamento fino al II secolo dopo Cristo e ha
influenzato le prime versioni latine del III secolo, fino alla
vulgata (fine IV, inizio V secolo). In questo modo è stata accolta
la distinzione aristotelica tra feto formato e feto non formato ed è
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stata stabilita, con l’applicazione della legge del taglione, la pena
di morte per chi uccide un feto formato.
Poiché la nascita di un bambino è un processo voluto da Dio,
interrompere questo processo comporta una colpa grave: è Dio
stesso che vieta all’uomo di uccidere il feto nel grembo della
madre. Poiché però sia la Sacra Scrittura che la tradizione
giuridica non considerano il feto una persona, l’aborto è un
crimine meno grave dell’omicidio. Non assegnando
all’embrione lo statuto di persona, gli ebrei non lo collocano
sullo stesso piano della madre. La conseguenza inevitabile è la
liceità dell’interruzione della gravidanza qualora sia in pericolo
la vita o la salute della madre, interpretazione che mi è sembrata
prevalente nel pensiero ebraico. Giulia Galeotti, nel suo libro
“Storia dell’aborto”, ricorda che il rabbino David Rosen riteneva
che una donna che avesse scelto di continuare una gravidanza pur
essendo a conoscenza dei gravi rischi per la sua salute impliciti in
questa scelta, doveva essere considerata come una suicida.
Nel periodo compreso tra il 300 avanti Cristo e il 200 dopo
Cristo cambiarono molti degli atteggiamenti relativi all’aborto,
anche tra i filosofi che potevano definirsi laici. Alcune di queste
perplessità sono esposte con chiarezza dal filosofo Porfirio (305
dopo Cristo ): “La dottrina dell’animazione dei feti in vista della
formazione di un nuovo essere umano ci ha colmato di
incertezza. Se si potesse dimostrare che un embrione non è un
essere vivente né reale né potenziale sarebbe facile dimostrare
che l’anima entra in lui al momento della nascita, quando è
espulso dall’utero. D’altra parte, se l’embrione è potenzialmente
una cosa vivente, nel senso che ha ricevuto l’anima, allora
bisognerebbe cercare di essere molto precisi sul momento in cui
ciò avviene. Si può pensare che questo coincida con l’ingresso
dello sperma nell’utero, nel qual caso il seme stesso non potrebbe
essere ritenuto e divenire fertile se l’anima che giunge
dall’esterno non è formata. Oppure si potrebbe pensare alla
formazione dell’embrione, o ancora al momento in cui ha
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cominciato a muoversi.” Domande che hanno continuato ad
essere proposte per secoli e che non hanno mai ricevuto risposta..
I primi cristiani avevano fatto tesoro della lezione di Gesù e
l’avevano un po’ mescolata con idee che venivano dagli stoici. Il
risultato era una posizione non molto diversa da quella degli
Ebrei, dei Greci e dei Romani, con qualche dichiarazione più
esplicita di disapprovazione nei confronti delle droghe utilizzate
per interrompere le gravidanze ( e per controllare le nascite).
La condanna cristiana più antica espressa nei confronti
dell’aborto si trova nella Didaché, o dottrina dei dodici apostoli,
scritta solo una sessantina d’anni dopo la morte di Cristo. Si
tratta di un’opera anonima, probabilmente più antica degli stessi
vangeli sinotttici, e che è stata tenuta in gran conto dalle prime
generazioni cristiane, fino ad essere incorporata, nella seconda
metà del IV secolo, nelle cosiddette Costituzioni Apostoliche.
L’autore dovrebbe essere un ebreo convertito, almeno da come
scrive e da come computa i giorni, e l’opera dovrebbe esser stata
scritta tra la Palestina e la Grecia.
La condanna dell’aborto compare al punto II del secondo
capitolo ed è ribadita nel capitolo V in cui si fa riferimento agli
“uccisori dei figli, che sopprimono con l’aborto una creatura
di Dio”. Questa impostazione viene in seguito ribadita dalla
lettera di Barnaba, falsamente attribuita al compagno di San
Paolo, ma in realtà di autore sconosciuto e che dovrebbe esser
stata scritta tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo,
ad Alessandria d’Egitto. Questa lettera, che si distingue per la sua
radicale avversione al giudaismo, nel capitolo che ha per titolo
“Le vie della luce “, così recita: “ Non ucciderai il bambino con
l’aborto e non lo farai morire appena nato”. La condanna viene
ripresa in seguito, quando la lettera illustra “La via delle
tenebre”: “… sono crudeli verso il povero, indolenti verso il
sofferente, facili alla maldicenza, ingrati verso il loro creatore,
uccisori di figli, distruttori del plasma creato da Dio, incuranti del
18
bisognoso, oppressori del tribolato, avvocati dei ricchi, giudici
cattivi dei poveri, peccatori in tutto”.
Anche se le conoscenze di quei tempi non consentivano di
considerare il feto come un essere umano indipendente, i cristiani
avevano fatto una diversa scelta, ritenevano che il feto fosse un
essere umano e non davano valore al fatto che fosse dipendente
dalla madre.
Quando si cita la posizione dei primi cristiani sull’aborto, viene
sempre richiamata una affermazione di Tertulliano (“L’aborto è
un omicidio anticipato….è già uomo colui che lo sarà.”).
L’espressione è molto bella, ma il fatto che sia di Tertulliano la
rende meno efficace. Tertulliano era nato a Cartagine da genitori
pagani tra il 150 e il 160 e si convertì solo tardivamente al
cristianesimo. E’ considerato oggi uno dei maggiori polemisti
cristiani, soprattutto per le sue aspre discussioni con gli gnostici.
Intriso di cultura classica, attingeva a varie filosofie: ispirandosi
agli stoici, ad esempio, affermava che tutto ciò che esiste è corpo
e che dunque è corpo anche l’anima. Ma sentite quello che
scriveva a proposito delle donne ( soprattutto nel De cultu
feminarum e nel De virginibus velandis), che considerava esseri
che Dio aveva voluto inferiori e “ianua diaboli”: “Tu donna hai
con tanta facilità infranto l’immagine di Dio che è l’uomo. A
causa del tuo castigo, cioè la morte, anche il figlio di Dio è
dovuto morire. E tu hai in mente di adornarti al di sopra delle
tuniche che ti coprono la pelle?”. A parte la sua posizione nei
confronti delle donne, sempre fermamente negativa, non sempre
Tertulliano era conseguente. Nel capitolo 25 del De Anima, ad
esempio, contraddice le sue posizioni precedenti ammettendo
l’embriotomia in casi particolari e considera l’aborto una
“necessaria crudelitas” quando il feto si accinge a diventare
matricida, una espressione molto simile a quella “assassino di
sua madre” usata da alcuni rabbini.
E’ dunque ben evidente che il feto deve essere tutelato molto al
di là di quanto la legge abbia fatto fino a quel momento, e questi
19
principi sono chiari negli scritti di Marco Minucio Felice, di
Barbo di Cesarea e di Clemente di Alessandria. Quest’ultimo
(siamo più o meno nel 200 dopo Cristo) scrive che le donne che
assumono farmaci per abortire, per nascondere una relazione
extraconiugale, perdono, con il feto, anche la loro umanità.
Forse per la prima volta il rispetto per l’embrione viene descritto
come un sentimento che fa parte della natura umana.
Atenagora ( siamo nel 177) nell’apologia indirizzata a Marco
Aurelio e a Commodo, rifiuta l’accusa di cannibalismo che
veniva indirizzata ai cristiani ( e che aveva a che fare con una
particolare interpretazione dell’eucarestia) e scrive che non è
serio accusare di infanticidio chi, considerando il feto come un
essere senziente e protetto da Dio, ne rispetta la vita prima della
nascita, volendo evidentemente sottolineare il fatto che il rispetto
per la vita del feto garantisce il rispetto per la vita dell’adulto. Ed
è nello stesso periodo che a Roma Marco Minucio Felice,
affrontando lo stesso problema, chiama il feto “futurus homo” e
paragona i pagani a Saturno, che divorava i propri figli. Minucio
usa il termine “parricidio”, che nel diritto romano indicava
l’uccisione di un parente, considerata un delitto particolarmente
grave.
Dal IV secolo le omelie dei santi si riferiscono all’aborto come a
uno dei peccati più gravi che un cattolico possa commettere. Si
tratta anche, così almeno mi sembra di capire, di una reazione ad
una diminuita tensione morale che i cattolici avvertono
all’interno della loro comunità. San Cipriano, in una lettera
indirizzata a papa Cornelio nel 250, accusa un sacerdote di aver
fatto abortire la propria moglie e San Geronimo investe con
parole di fuoco le donne che muoiono di aborto e che egli
considera responsabili di un triplice crimine: suicidio, adulterio e
omicidio di figli non ancora nati.
Le voci di condanna non sono però uniformi. Gregorio di Nizza
(330-379) scrive che non si può parlare di omicidio quando il
feto non è formato , perché un’anima vivente non può albergare
20
in un corpo senza forma, e così si richiama ad Aristotele, al
pensiero ebraico e, per restare in ambito cristiano
all’ilomorfismo. Basilio (330-379) condanna invece tutte le
donne che “distruggono un feto” , non ha importanza che sia
formato o no, e il riferimento è alla Sacra Scrittura e alle parole
di Dio a Geremia: “ Io ti ho conosciuto avanti che ti formassi nel
ventre e avanti che tu uscissi dalla matrice , io ti ho consacrato, io
ti ho costituito profeta delle genti”. Secondo Basilio il peccato di
queste donne è duplice: mettono a repentaglio la propria vita e
derubano il feto della vita che avrebbe avuto. Questo accenno ai
danni che l’aborto potrebbe procurare alle donne ha fatto pensare
che Basilio si riferisse solo agli aborti tardivi, perché quelli
precoci non avrebbero dovuto presentare rischi per la madre. E’
una supposizione molto difficile da dimostrare, sia perché in quei
tempi tutti gli aborti rappresentavano un rischio, sia perché si
tendeva a far confusione tra aborto precoce e contraccezione (
tanto che i farmaci utilizzati venivano indicati con lo stesso
nome, emmenagoghi). E’ invece molto interessante il fatto che
Basilio, pur considerando l’aborto un omicidio, non chiedesse,
per chi se ne era reso colpevole, la stessa pena prescritta per gli
assassini, la morte, ma si limitasse a proporre 10 anni di
pentimento.
Durante il regno di Enrico III ( 1216-1272) Henri de Bracton
scrisse una sorta di “summa” delle leggi vigenti in Inghilterra,
mescolando il diritto romano con la cosiddetta “common law” ,
così come si poteva ricavare dai giudizi espressi dalle corti di
giustizia che si erano pronunciate tra il 1220 e il 1230. A quale
delle due normative appartenga la parte dedicata all’aborto è
difficile da capire. La legge stabiliva che “ se qualcuno colpisce
una donna o le dà un veleno, allo scopo di procurarle un aborto, e
se il feto è già formato o animato, egli commette un omicidio”.
Queste espressioni sono molto simili a quelle usate più tardi ,
regnante Edoardo I ( 1272-1307) per dichiarare omicida chi
“colpisce una donna o le da pozioni non consentendole di
21
concepire o causandole un aborto se il feto è formato e animato”
Ed è omicida una donna che prende una pozione per uccidere il
suo bambino nel ventre, sempre con la clausola che questo
bambino deve essere formato e animato.
Secondo un anonimo commentatore della stessa epoca, Fleta, la
legge stabilisce che si tratta di un atto criminale “per sé” senza
più fare riferimento ai diritti del padre, che pure si vede privato
del figlio. Inoltre la legge ignora le interruzioni della gravidanza
eseguite molto precocemente, che continuano ad essere un diritto
delle famiglie, scelte personali che hanno a che fare con il
controllo delle nascite e sulle quali il diritto non interviene.
Bisognerà attendere il 1861 per veder approvata in Inghilterra
una legge che condanna le donne che si procurano un aborto.
Recentemente gli storici hanno esaminato alcuni dei processi per
procurato aborto che si sono svolti in quell’epoca e che
riguardavano gravidanze piuttosto avanzate: ebbene tutti questi
processi si sono conclusi con l’assoluzione dei responsabili, il
che costringe a considerare prive di solida base giuridica le
opinioni di Bracton e di Fleta.
Nel dicembre del 1588 papa Sisto V emanò una bolla che
condannava insieme aborto e anticoncezione e affermava che “
la più severa punizione deve essere comminata a coloro che
forniscono veleni per distruggere e uccidere il concepito
all’interno dell’utero, e a coloro che mediante veleni, pozioni e
malefici inducono la sterilità nelle donne o impediscono loro, con
l’impiego di medicine, di iniziare o di proseguire una
gravidanza”. La condanna colpiva anche chi si limitava a
consigliare l’anticoncezione o l’aborto, una scelta molto dura e
certamente inattesa, alla quale si dice che il papa fosse arrivato
dopo essersi reso conto del degrado morale nel quale stava
affondando Roma. John Noonan ci ricorda che nel 1527 Roma
aveva 50.000 abitanti e che tra di essi si potevano contare almeno
1.500 prostitute tutt’altro che disoccupate.
22
Sisto V non era generalmente tenero con i peccatori, tanto che
aveva stabilito che gli adulteri fossero mandati a morte. La sua
Bolla sulla contraccezione e sull’aborto ebbe però scarso impatto
e breve vita, tanto da essere abolita non appena lui morì, nel
- A dire il vero non sono mai riuscito a capire quale dei
suoi successori si sia presa la responsabilità di tornare all’antico :
Urbano VII fu papa per soli 10 mesi e il suo successore,
Innocenzo IX, salito al soglio nell’ottobre del 1591, morì nel
dicembre dello stesso anno. In ogni caso, nel 1592 la Chiesa era
tornata a considerare la contraccezione un peccato e l’aborto un
delitto, con la premessa che non si poteva palare di aborto fino al
40° giorno, quando finalmente il feto entrava in possesso
dell’anima.
Le prime leggi
La Francia approvò una legge che considerava l’aborto un atto
criminale nel 1791, confermando così una serie di norme che le
corti di giustizia locali avevano applicato fin dal medioevo. Nel
1810 il Codice napoleonico modificò profondamente queste
regole e stabilì (articolo 317) le pene carcerarie da comminare a
chiunque, in qualsiasi modo, si rendesse colpevole di procurare
un aborto, indipendentemente dal consenso della donna e senza
tener conto dell’esito finale del suo atto. Era inclusa nella norma
una condanna alla deportazione nelle colonie per i medici, il
personale sanitario e persino i farmacisti che si fossero resi
colpevoli della somministrazione di sostanze abortive.
Gli aborti procurati con mezzi fisici erano genericamente indicati
come “atti di violenza”; mentre non era prevista alcuna punizione
per le donne che si procuravano o tentavano di procurarsi, da
sole, una interruzione della gravidanza.
Nel 1803 una commissione presieduta dal lord Ellemborough
approvò una serie di norme penali che, nelle intenzioni,
23
avrebbero dovuto essere applicate nella sola Irlanda, ma che, in
realtà, influenzarono tutti i paesi di lingua inglese. Nella parte
dedicata agli avvelenamenti queste norme modificavano la
vecchia legge di Giacomo I che considerava ree di infanticidio le
donne che avevano partorito un figlio illegittimo e che non ne
sapevano giustificare la morte o la scomparsa: questa volta era la
giustizia che doveva dimostrare la condizione di illegittimità del
neonato e chiarire le cause della sua morte. Inoltre queste nuove
norme non facevano più questione di percezione o meno dei
movimenti fetali e , almeno come principio, consideravano
l’aborto un reato comunque e sempre: restava però il fatto che si
trattava di un crimine che veniva punito in modo diverso a
seconda dell’epoca di gravidanza in cui veniva eseguito. E’
interessante sottolineare che l’attenzione dei legislatori era rivolta
soprattutto alle gravidanze illecite e alle interruzioni ottenute con
l’uso di mezzi farmacologici.
Poiché le leggi di molti paesi punivano in modo diverso le
interruzioni di gravidanza eseguite prima e dopo che la donna
aveva avvertito i movimenti fetali, questa questione del
“quickening” ( una espressione che indica qualcosa che anima,
stimola, vivifica) finì col complicare un grande numero di
processi, anche perché i medici non erano d’accordo sull’epoca
della gravidanza nella quale i moti attivi fetali dovevano essere
per la prima volta avvertiti dalle gravide. Anche dopo che fu
siglato una specie di accordo che collocava questo evento intorno
alla 18a settimana dopo il concepimento, questo problema
continuò a essere una causa di confusione per molte corti di
giustizia, confuse dalla incerta definizione di concepimento e
dalla pratica impossibilità di collocarlo nel tempo.
La maggior parte dei paesi europei non emanò nuove leggi
sull’aborto per lo meno fino a tutta la prima metà del XIX secolo.
Alcune nazioni accettarono di inserire nei propri ordinamenti
giuridici alcune delle norme del codice napoleonico, ma nella
maggior parte dei casi continuarono ad essere valide le vecchie
24
leggi medioevali quelle derivate dalla legge canonica e dalla
legge romana.
Negli Stati Uniti fu lo Stato del Connecticut ad approvare una
legge che rappresentò per almeno vent’anni un modello per il
resto del paese. Questa legge, che è del 1821, riprende parti
importanti della normativa inglese , stabilendo le pene per chi
somministra una pozione abortigena a una donna, nella certezza
della sua gravidanza. Questa certezza era ancora una volta
affidata all’esistenza dei moti attivi fetali, che dovevano essere
percepiti dalla madre. La legge fu ripresa prima dallo Stato di
New York e successivamente da altri 15 Stati. Solo nel 1858, su
iniziativa dello Stato del Wisconsin, furono approvate norme che
punivano le donne che si procuravano l’aborto da sole.
Nel 1837 fu ancora l’Inghilterra a modificare la legge
sull’interruzione della gravidanza, diminuendo le pene per chi lo
procurava, ma stabilendo le stesse condanne senza tenere conto
dell’epoca della gravidanza e della presenza dei movimenti attivi
fetali. Fu così eliminata la pena di morte per i colpevoli di
procurato aborto, cosa che determinò un aumento significativo
del numero delle condanne. : fino a quel momento, infatti i
giudici erano stati molto cauti e avevano fatto un modestissimo
uso delle pene più severe, percependo l’opinione diffusa secondo
la quale la pena di morte era una punizione davvero eccessiva per
un crimine che, alla fin fine, nessuno considerava veramente
efferato.
Nell’insieme, le legislazioni dei vari paesi in materia di aborto
erano molto eterogenee e davano una sensazione di grande
confusione. A fianco di paesi nei quali l’aborto era quasi del
tutto vietato e poteva essere tollerato solo se la salute della
donna era messa a grande rischio dalla gravidanza, ce ne erano
altri nei quali era possibile abortire se semplicemente si chiedeva
di farlo. Dal punto di vista pratico, invece, la differenza tra i
paesi era inesistente, il numero di donne che abortivano era molto
elevato e gli abortisti finivano in tribunale solo se commettevano
25
errori fatali. Insomma, le leggi c’erano, ma nessuno sembrava
minimamente intenzionato ad applicarle.
La condanna delle religioni
La Chiesa cattolica, che ha sempre condannato l’omicidio, ha a
lungo cercato di capire da quale momento della gravidanza
l’aborto possa essere equiparato a quel reato. Per stabilirlo, ha
sempre fatto ricorso a norme canoniche che naturalmente erano
obbligate a considerare le posizioni dei fisiologi e dei biologi
contemporanei. Così nel medioevo essa asseriva che l’embrione
diventa essere umano solo alcune settimane dopo il
concepimento e vietava di battezzare residui abortivi che non
avessero un aspetto chiaramente umano. Scrive, la
Congregazione per la dottrina della fede, nella dichiarazione
sull’aborto procurato : “certo, quando nel medioevo era generale
l’opinione che l’anima spirituale non fosse presente che dopo le
prime settimane, si faceva una differenza nella valutazione del
peccato e nella gravità delle sanzioni penali. Eccellenti Autori
hanno ammesso, per questo primo periodo, soluzioni casistiche
più larghe, che respingevano per i periodi seguenti. Ma nessuno
ha mai negato che l’aborto procurato fosse, anche in quei primi
giorni, una grave colpa”.
Grave colpa, certo, non omicidio. Bisogna arrivare al 1869 per
verificare l’esistenza di un cambiamento definitivo. Scrive infatti
Pio IX, nella Apostolicae Sedis, che incorrono nella scomunica
automatica i responsabili di aborto procurato che sono riusciti
nell’intento, e ciò senza fare alcuna distinzione tra feto animato e
feto inanimato. Questo riconoscimento di una animazione
immediata è annunciato, secondo Giulia Galeotti, già nella
proclamazione della preservazione di Maria dal peccato originale
fin dal primo istante del suo concepimento, proclamazione che
risale al 1854. Questa teoria dell’animazione immediata è
26
talmente certa,secondo i cattolici , che diversi teologi avevano
dichiarato, già nell’ottocento, che non c’era più alcun bisogno di
continuare a disquisire sull’argomento.
Con la costituzione Apostolicae Sedis viene riaffermata l’antica
definizione di Sisto V del 1588, che all’epoca non aveva avuto
alcun successo ed era stata prontamente abolita: condanna per
tutti i procurantes abortum , non esclusa la madre, se lo scopo
viene raggiunto, una definizione poi ripresa nel 1917 dal codice
di diritto canonico (canone 2350). La scomunica, riservata ai
vescovi, colpiva il procurato aborto senza tenere in alcun conto
che il feto fosse formato. L’illiceità di qualsiasi aborto diretto, in
quanto vero omicidio, violazione del comandamento di non
uccidere, è sanzionata anche dalla sacra Congregazione del
Sant’Uffizio.
C’era però un problema pratico da risolvere, un problema che
turbava soprattutto le coscienze dei medici: d’accordo che,
quando madre e feto erano in pericolo, bisognava fare di tutto
per salvare entrambi, ma quando questo non era possibile, si
poteva considerare lecito salvare la madre sacrificando il feto?
Per alcuni teologi si trattava di scegliere tra due mali, ed era
evidentemente opportuno, in questi casi, scegliere il minore.
Veniva chiamata in causa la difesa che la morale cattolica fa
della liceità della pena capitale e dell’omicidio per legittima
difesa., e si sosteneva che il feto, attentando con la sua presenza
alla vita di sua madre finiva col diventarne l’ingiusto aggressore,
l’assassino del quale parlano altre religioni per giustificare
l’aborto terapeutico. Ci sono però molte voci contrarie e c’è
addirittura chi afferma che è la madre ad aggredire il feto
quando, a causa di un suo vizio pelvico, gli impedisce di venire
alla luce. Dopo aver molto tergiversato – più volte la risposta ai
quesiti fu interlocutoria in quanto il Magistero prendeva tempo
perché il problema era ancora oggetto di studio – arrivò
finalmente la risposta: non solo la craniotomia, ma ogni azione
direttamente “uccisiva” del feto o della madre era vietata.
27
Successivamente arrivò una precisazione di grande importanza:
bisognava distinguere tra azioni direttamente e indirettamente
abortive. Le prime, tra le quali rientravano la craniotomia e
l’embriotomia, erano dirette a sopprimere direttamente il feto ed
erano pertanto illecite. Le seconde , rivolte a curare la madre,
erano solo secondariamente e accidentalmente causa della morte
del feto e potevano essere ammesse in caso di assoluta necessità.
Questa posizione fu contestata da parte di molti autorevoli
moralisti, per i quali, naturalmente in casi eccezionali, doveva
essere considerato lecito praticare interventi abortivi diretti. Nella
posizione che la Chiesa cattolica aveva assunto era evidente la
necessità di rispettare un comandamento ( in analogia con quanto
compare nella dichiarazione di avversione alla pena di morte)
così come affermò nel 1951 Pio XII nella sua Allocuzione alle
ostetriche: “Ogni essere umano, anche il bambino nel seno
materno, ha il diritto alla vita direttamente da Dio , non dai
genitori, né da qualsiasi società o autorità umana. Quindi non vi è
nessun uomo, nessuna autorità umana, nessuna indicazione
medica, eugenetica, sociale, economica, morale, che possa
esibire o dare un valido titolo giuridico per una diretta deliberata
disposizione sopra una vita umana innocente”.
Anche per la legge islamica è fondamentale sapere in quale
momento del suo sviluppo un feto diventa un essere umano. Le
posizioni delle quattro scuole giuridiche islamiche, molto
succintamente, sono queste:
- la scuola malikita ritiene illecito l’aborto fin dal momento in
cui è avvenuto il concepimento; - la scuola shafiita è su posizioni simili;
- per las cuola hanafita, è considerato lecito l’aborto prima dello
scadere del quarto mese solo se è in pericolo la vita della
madre;
28 - -la scuola hanbalita è la più flessibile e considera praticabile
l’aborto prima della fine del quarto mese in caso di pericolo
per la vita della madre.
C’è accordo comunque sul fatto che dopo il quarto mese l’aborto
deve essere considerato un delitto grave e che nel caso che esista
un rischio per la salute della madre il problema debba essere
risolto sulla base del principio del male minore. Questa dottrina
si basa sulla tradizione dei quaranta giorni, in cui il profeta rivela
che il feto è trattenuto nell’utero 40 giorni come seme, 40 giorni
come uovo fecondato e 40 giorni come carne. Vengono
considerate lecite, in molte parti dell’Islam, le interruzioni di
gravidanza eseguite prima dei 40 giorni.
L’etica musulmana si ricollega molto all’etica medica, nel senso
che l’aborto è consentito se vengono messe a rischio la vita o la
salute della madre.
Ci sono attualmente 53 nazioni nel mondo nelle quali la
maggioranza della popolazione è musulmana e queste nazioni
sono, tra l’altro, quelle che presentano i più elevati livelli di
crescita demografica, oltre ad avere il primato della mortalità da
parto. Nella maggior parte di queste nazioni è consentito l’aborto
per ragioni mediche. In otto (Tunisia, Turchia, Malesia,
Kazakistan, Karghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Bosnia)
l’aborto è consentito su richiesta della donna, in due (Giordania e
Sudan ) è ammesso se la gravidanza è il risultato di una violenza
carnale e in quattro ( Burkina Faso, Costa D’Avorio, Mauritania
e Niger) è illegale senza eccezione alcuna.
Nel 1992 la Commissione per la Crisi demografica ha elaborato
una scala con valori compresi tra 0 e 20 per graduare le
possibilità di accesso all’aborto: tra i paesi musulmani la Tunisia
ha il valore più alto, mentre Libia, Somalia e Kuwait hanno il
valore più basso, molto vicino a zero. Nei paesi nei quali
l’accesso all’aborto è più difficile, c’è un forte ricorso all’aborto
clandestino, che è responsabile di elevati tassi di mortalità. Si
calcola che nel solo Bangladesh muoiano ogni anno più di 8.000
29
donne a causa di complicazioni post-abortive.In molti di questi
paesi si eseguono anche molti controlli mestruali, ma né i
risultati di questi interventi né le complicazioni delle quali sono
responsabili ci sono note.
Le leggi moderne
Nel mondo occidentale, il primo scossone relativo alla
legislazione sull’aborto lo ha provocato l’Inghilterra con
l’approvazione dell’Abortion Act, che è del 1967. A dire il vero
l’atteggiamento della giustizia inglese nei confronti dell’aborto si
era modificato già nel 1938, quando un medico – il dottor Aleck
Bourne era stato assolto dal tribunale dall’accusa di aver
interrotto la gravidanza di una quattordicenne che era stata
violentata ed era in grave stato di shock: nella motivazione la
sentenza considerava il fatto che il medico aveva agito per
salvare l’equilibrio mentale della ragazza. Il progetto di legge
approvato nel 1967 era stato presentato da David Steel, membro
del partito liberale, ed era stato approvato dalla Camera dei
Comuni con 229 voti a favore e 29 contrari. La normativa venne
in parte rivista negli anni successivi a seguito di forti pressioni di
alcune organizzazioni religiose, ma nel mio personale ricordo –
ho lavorato al Chelsea Hospital for Women di Londra negli anni
1969-1970 –si trattava pur sempre della legge più liberale
esistente nel mondo occidentale.
Negli Stati Uniti la prima importante mobilitazione in favore
della legalizzazione dell’aborto era cominciata intorno al 1965.
Nel 1967 alcuni Stati – tra i quali la California e il Colorado
–avevano previsto la possibilità di consentire alle donne di
abortire, in particolari circostanze, e avevano affidato la
decisione ai medici e agli ospedali. Nel 1970 lo Stato di New
York consentì l’aborto alle donne gravide da meno di 24
30
settimane purché l’intervento fosse eseguito da un medico in
ambiente sanitario. Questa normativa creò grande subbuglio tra
gli Stati americani, alcuni dei quali vararono immediatamente
leggi altrettanto liberali mentre altri cercarono di impedire che la
pratica si generalizzasse. Naturalmente la questione finì davanti
alla Corte Suprema, che fu chiamata a giudicare il caso di Jane
Roe, una ragazza di 23 anni di Dallas, madre di due figli e che
voleva interrompere la sua terza gravidanza per ragioni
economiche. Naturalmente la sentenza (Roe v.Wade, 1973)
arrivò quando il bambino era già stato dato in adozione, ma sul
piano del diritto scatenò un vero terremoto. I giudici infatti
sancirono il diritto della donna di scegliere se interrompere la
gravidanza, basandosi sul diritto della gestante alla privacy,
sancito dal concetto di libertà personale garantito dal 14°
emendamento della Costituzione americana- Si tratta
fondamentalmente del diritto alla libertà di coscienza, un
concetto abbastanza ampio da comprendere la scelta, da parte
della donna, di portare a termine o di interrompere la propria
gravidanza. I giudici avevano considerato le possibili
conseguenze dannose, fisiche e psicologiche, che potevano
conseguire a una maternità non voluta. La sentenza prevedeva
anche che una volta raggiunta la vitalità del feto ( un’epoca
stabilita al termine della dodicesima settimana ) lo stato avrebbe
potuto proibire l’aborto, concedendo l’autorizzazione solo per
salvare la salute o la vita della madre. Secondo Donald Dworkin,
il punto centrale del dibattito affrontato dalla Corte non concerne
il problema metafisico dello statuto ontologico del feto, né quello
teologico della sua anima, ma quello, squisitamente giuridico,
della sua acquisizione di quei diritti che la Costituzione
attribuisce alla persona. Nella fattispecie, la Corte ha deciso che
il feto non è persona agli occhi della Costituzione prima della
nascita e che esiste invece un diritto costituzionale delle persone
di controllare la propria capacità procreativa.
31
La decisione della Corte suprema ha fatto sì che negli Stati Uniti
l’aborto è diventato un diritto costituzionale, una decisione
paragonabile soltanto a quella del Sudafrica. Ciò ha naturalmente
creato molti conflitti, inevitabili in un paese come gli Stati Uniti,
nel quale esiste un forte movimento antiabortista, che ha un
notevole potere politico e che riesce persino a condizionare
alcuni dei candidati alla Casa Bianca. Così numerosi Stati hanno
intrapreso azioni rivolte a limitare, ostacolare o impedire
l’effettuazione degli aborti, e ostacoli di vario genere sono stati
anche frapposti dalla stessa Corte e dal Senato. La prima, nel
1977, emanò una sentenza che disponeva che gli Stati non erano
obbligati a pagare quegli aborti che non erano considerati
necessari dal punto di vista medico e che liberava gli ospedali
pubblici dall’obbligo di fornire servizi di interruzione della
gravidanza: il risultato fu che solo le organizzazioni federali che
fornivano assistenza agli indigenti furono in qualche modo
impegnate a sostenere finanziariamente le donne che volevano
abortire.
Successivamente il Senato stabilì che nessun fondo federale
poteva essere utilizzato per i servizi di interruzione della
gravidanza a meno che non esistesse un rischio per la salute della
madre. Come conseguenza di questa decisione, a partire dal
1987 i fondi dell’assistenza pubblica per l’aborto non furono più
disponibili in 14 Stati e nel distretto delle Columbia, e da allora il
numero di ospedali pubblici che forniscono un’assistenza per
l’aborto è continuamente calato. Si deve aggiungere a tutto ciò il
fatto che l’offerta dei servizi necessari per la pratica dell’aborto
volontario e per gli interventi di contraccezione di emergenza
diventa ogni giorno più a rischio via via che un numero sempre
maggiore di istituzioni religiose diventa responsabile della salute
delle comunità (P. Rodriguez e W.C.Shields, Contraception,
2005, 71,302).
Nel 2002 cinque delle dieci maggiori istituzioni terapeutiche
americane erano di proprietà dei cattolici , che controllavano
32
complessivamente il 18% degli ospedali e il 20% dei letti
ospedalieri, per un totale di 15 milioni di visite urgenti e 5,4
milioni di ricoveri . Il problema è che per molte comunità gli
ospedali cattolici rappresentano l’unica realtà esistente e che gran
parte delle istituzioni religiose o semireligiose operano ignorando
completamente le norme giuridiche vigenti in molti Stati. Questi
comportamenti riguardano anche istituzioni non settarie, come
quelle di ospedali affiliati e persino quelle di istituzioni che
hanno acquistato ospedali religiosi e hanno accettato per
contratto alcune delle limitazioni che questi si erano imposte.
In Francia, agli inizi degli anni Settanta molto movimenti
femminili facevano pressioni sul Governo per ottenere una legge
più liberale sull’interruzione volontaria di gravidanza. Nel 1971
343 donne francesi pubblicarono su Le Nouvel Observateur un
manifesto in cui dichiaravano di aver abortito almeno una volta
illegalmente. Due anni dopo si celebrò il processo a una ragazza,
Michèle Chevalier, che a 16 anni aveva interrotto una gravidanza
dopo essere stata violentata da un compagno di scuola.
L’anomalia di questo evento stava anche nel fatto che era stato
lo stupratore a denunciare la ragazza ( e sua madre) per aborto
clandestino. Michèle fu difesa da Gisèle Halimi, la stessa che, in
appoggio al manifesto delle 343 donne aveva fondato un
movimento, Choisir, del quale era presidente Simone di
Beauvoir. Alla fine del processo, che tenne a lungo le prime
pagine dei giornali, e non solo dei giornali francesi, la ragazza fu
assolta. Nel 1973 fu incriminata per aver eseguito una
interruzione di gravidanza , una ginecologa, Annie Ferrey Martin
: anche questo processo mobilitò l’opinione pubblica, molto
colpita dalla giovane età della protagonista, una studentessa
liceale sedotta da un uomo sposato e maturo. Un gruppo di
medici, in appoggio alla loro collega, organizzarono un
intervento di interruzione di gravidanza negli ambulatori del
33
Family Planning di Grenoble, per ottenere una incriminazione
collettiva. L’intervento, al quale erano stati invitati molti
giornalisti, fu vietato dal prefetto di polizia.
Il diritto all’aborto, in Francia, risale a 1975, quando fu approvata
la legge presentata da Simone Veil ( era presidente Giscard
d’Estaing e primo ministro Chirac) La legge è stata modificata
nel 2001 ( ad esempio il periodo legale per interrompere la
gravidanza è passato dalla decima alla dodicesima settimana) ma
in modo solo marginale. E’ stato calcolato che prima della legge
Veil gli aborti in Francia fossero circa 300.000 all’anno e che da
molti anni si siano stabilizzati intorno ai 200.000. L’IVG è legale
ma le donne che intendono farvi ricorso incontrano difficoltà
sempre maggiori. Ogni anno circa 2.500 donne superano il limite
delle 12 settimane e debbono emigrare ( in Olanda, in Inghilterra
e in Spagna). Negli ospedali pubblici i medici che praticano
l’IVG sono sempre meno numerosi e le code si allungano.
E’ opinione comune che su molte delle decisioni prese in
Germania sui temi della riproduzione – l’aborto volontario, ad
esempio, e le indagini genetiche sugli embrioni – abbia molto
pesato il ricordo della drammatica esperienza nazista. Nel 1974
la Germania ha riesaminato la legislazione in vigore – sulla base
di una petizione popolare- e ha liberalizzato l’aborto nei primi tre
mesi di gravidanza. Nel 1975 la Corte Costituzionale tedesca ha
dichiarato le nuove norme incompatibili con quelle già esistenti a
tutela della vita. Il problema riguardava la possibilità di abortire
in assenza di una qualsiasi motivazione, cosa che fu considerata
anticostituzionale: la Corte indicò invece come lecita la
cosiddetta soluzione delle indicazioni (espressa enunciazione
delle condizioni che rendono ammissibile l’aborto). Secondo la
Corte, quindi, non esiste un diritto illimitato alla pratica abortiva,
il che oltretutto “ è una reazione all’annientamento della vita, non
degna di essere vissuta, alla soluzione finale e alle liquidazioni
34
attuate dal regime nazionalsocialista come compiti dello stato”.
Secondo gli stessi giudici, “di fronte all’onnipotenza dello stato
totalitario la Costituzione ha costruito un sistema di valori che
pone il singolo uomo, con la sua dignità, al centro di tutte le sue
norme. Dunque, non si può distruggere una vita senza una valida
ragione che lo giustifichi , con l’unico limite del rischio di morte
per la madre, o di una grave minaccia per la sua salute. Il
Bundestag ha approvato dunque una legge più restrittiva che
limita il diritto a ricorrere all’aborto legale. Il problema però si è
riproposto dopo l’ unificazione delle due Germanie, perché la
legge della ex Repubblica Democratica Tedesca – che era del
1972 – disciplinava le materia secondo criteri che la
giurisprudenza della Germania occidentale considerava
anticostituzionali. E’ stata allora redatta una nuova normativa
(luglio 1992) ulteriormente modificata l’anno seguente a seguito
di un ulteriore intervento della Corte Costituzionale , poiché i
giudici erano stati di nuovo critici nei confronti di un passaggio,
che definiva “ non contrario alla legge” l’aborto -come
espressione della libera scelta della donna -nelle prime 12
settimane di gravidanza. Ancora oggi la giurisprudenza tedesca si
distingue per il riconoscimento del diritto alla vita del concepito,
uguale per dignità e valore a coloro che sono già nati. In ogni
caso, le norme di quest’ultima legge, che risale al 1995,
stabiliscono che non è punibile l’aborto richiesto da una donna,
purché non siano passate più dodici settimane dal concepimento,
purché presenti un certificato di un centro di consultazione e
purché l’intervento sia eseguito da un medico. Si possono
interrompere gravidanze dopo la dodicesima settimana solo per
indicazioni mediche ( e non, ad esempio, in caso di stupro).
La legge danese, approvata il 15 settembre del 1986, autorizza
l’interruzione volontaria di gravidanza entro le 12 settimane di
amenorrea ( cioè dieci settimane dal concepimento) e prevede
35
l’autorizzazione di una commissione ad hoc, chiamata in causa
per giudicare una serie di casi per una serie di casi quando la
gravidanza ha superato la dodicesima settimana. Tra questi
motivi ci sono l’incesto e lo stupro, l’eccessiva giovinezza delle
madre , la sua incapacità di occuparsi della famiglia e il rischio
che il bambino nasca con anomalie fisiche o mentali. Per le
minori non è prevista alcuna autorizzazione da parte dei genitori.
L’articolo 286 del codice penale olandese considera
l’interruzione volontaria della gravidanza come un reato; di
conseguenza, la legge del 1° maggio 1981, entrata in vigore nel
1984 e poi più volte modificata, indica in quali circostanze
questo atto non rappresenta una infrazione. Il limite estremo per
poter interrompere una gravidanza è indicato nelle 24 settimane,
perché oltre quell’epoca si ritiene che il feto abbia raggiunto la
condizione di vitalità. La ragione per richiedere l’interruzione di
gravidanza è unica e viene indicata come “lo stato di necessità”.
Per quanto riguarda le ragazze che hanno meno di 16 anni è
previsto il consenso dei genitori, che però non hanno l’ultima
parola, che spetta sempre al minore.
In Svizzera era l’articolo 120 del codice penale, in vigore dal 1°
gennaio del 1942, che precisava le situazioni nelle quali
l’interruzione volontaria della gravidanza non era punibile:
nell’articolo non erano indicati particolari scadenze ed era preso
in considerazione un solo motivo: un pericolo che non può essere
altrimenti evitato e che minaccia la vita della madre o mette a
repentaglio la sua salute in modo grave e permanente. La donna
doveva firmare un consenso e l’intervento doveva essere eseguito
da un medico e approvato da un secondo sanitario.
L’interpretazione del concetto di salute non era la stessa in tutti i
Cantoni: per alcuni la definizione corretta coincideva con quella
dell’OMS, secondo la quale la salute non consiste solo
nell’assenza della malattia, ma è uno stato di completo benessere
36
fisico, psicologico e sociale; in altri Cantoni le definizioni erano
molto più restrittive. Ne conseguiva che l’interpretazione della
legge cambiava di luogo in luogo e che molte cittadine svizzere
erano spesso costrette a cercare assistenza nei Cantoni più
liberali. Le minorenni non avevano bisogno dell’approvazione
dei genitori, in quanto la legge presumeva che fossero
sufficientemente capaci di discernere.
La pratica dell’IVG non ha però mai smesso di liberalizzarsi e tra
il 1970 e il 2002 il numero di cantoni “liberali “è passato da 6 a
19.
Il diritto delle donne di decidere da sole se interrompere una
gravidanza non desiderata ( la cosiddetta soluzione dei termini) è
stato oggetto di un referendum il 2 giugno 2002: la soluzione dei
termini è stata approvata con una maggioranza del 72,2%, mentre
l’iniziativa estremista che chiedeva il divieto dell’aborto è stata
respinta con l’81,7% dei voti. Attualmente la Svizzera è in testa
al piccolo gruppo di paesi che hanno la percentuale più bassa di
aborti e i dati del 2006 ( meno di 7 aborti per 1000 donne in età
riproduttiva) confermano questo primato.
Gli aborti clandestini – circa 50.000 all’anno negli anni sessanta –
sono praticamente scomparsi e attualmente le IVG legali non
sono più di 11.000, con un tasso di 6,6 aborti per mille donne in
età riproduttiva e di 14 aborti per 100 nascite. Tra l’altro sono
assai poco rappresentate le adolescenti, mentre figurano in
elevata percentuale straniere e immigrate.
La legge spagnola, approvata il 5 luglio 1985 , ha modificato
l’articolo 417 bis del vecchio codice penale precisando le
condizioni nelle quali l’interruzione volontaria della gravidanza
non costituisce un reato. Tra l’altro questo articolo 417 bis è
rimasto in vigore anche dopo l’abrogazione del vecchio codice e
la sua sostituzione con il nuovo. L’aborto non è punibile quando
37
è richiesto da una donna e questa richiesta è stata approvata da
uno specialista, che non deve essere lo stesso che eseguirà
l’intervento. La motivazione della richiesta deve riguardare il
rischio che la gravidanza metta in pericolo la salute fisica o
psicologica della donna. Non viene stabilito in assoluto un
preciso limite di tempo. Se la gravidanza è la conseguenza di
uno stupro, l’interruzione può essere praticata prima della fine
della dodicesima settimana di gestazione, mentre se sono state
diagnosticate gravi malformazioni o deficit mentali del prodotto
del concepimento l’interruzione può essere eseguita entro la
ventiduesima settimana, con l’unica clausola che i danni del feto
debbono essere certificati da due diversi specialisti. Le minorenni
hanno bisogno del consenso dei genitori. Anche se negli ultimi
anni la pratica si è notevolmente liberalizzata, nel 2007 è stata
proposta una soluzione dei termini: la decisione passerebbe
completamente alla donna e il limite dovrebbe essere spostato al
termine della 14a settimana di gravidanza.
Il Belgio ha precisato, con una legge approvata il 3 aprile 1990,
le circostanze nelle quali l’aborto non costituisce un reato. La
richiesta della donna deve essere prima presentata al medico e
poi ribadita per iscritto, almeno sei giorni dopo la prima
consultazione, al momento dell’intervento che deve comunque
essere eseguito entro dodici settimane dopo il concepimento. Il
limite delle dodici settimane si applica anche ai casi di stupro,
mentre può essere superato se esiste un pericolo grave per la
salute della donna o quando sono state diagnosticati importanti
deficit o condizioni morbose gravi e incurabili del feto. In linea
di principio c’è bisogno del consenso dei genitori per i minori,
ma l’Ordine dei medici chiede che si tenga conto del possibile
raggiungimento dell’età della ragione, quella che consente di
discernere e la cui presenza può essere riconosciuta solo dal
38
medico. Dopo l’approvazione del Parlamento la legge avrebbe
dovuto essere ratificata dal Re del Belgio, Baldovino, che- da
buon cattolico – rifiutò di farlo, dichiarando che la sua coscienza
glielo impediva. Il Re chiese al Primo Ministro di trovare una
soluzione giuridica che gli consentisse di agire secondo i propri
principi e che contemporaneamente non creasse ostacoli alla
democrazia parlamentare. La legge è stata così ratificata dai
ministri riuniti in consiglio, utilizzando la previsione
costituzionale che prevede che le funzioni del re siano così
sostituite quando egli è per qualche ragione nell’impossibilità
temporanea di assolverle. Qualcosa del genere è accaduto nel
1994 in Polonia, protagonista il cattolico Lech Walesa,
presidente della repubblica. Il 13 aprile del 2007, cercando di
approfittare della maggioranza ottenuta in Parlamento, i cattolici
polacchi hanno cercato di inserire nella Costituzione il concetto
di “protezione della dignità umana fin dal concepimento”, ma la
proposta non è stata approvata per un pugno di voti.
Anche il Portogallo ha approvato una legge che legalizza l’aborto
volontario entro le prime 10 settimane di gravidanza, dopo un
referendum che è stato caratterizzato soprattutto da un’astensione
del 60% degli aventi diritto al voto. La legge è in vigore dal 15
luglio 2007. In passato era stato calcolato che nel paese c’erano
circa 20.000 aborti clandestini ogni anno, con interventi piuttosto
rari della magistratura e della polizia.
Nel Liechtenstein il Parlamento ha respinto, nell’aprile del 2007,
la proposta di creare una commissione cui affidare l’incarico di
elaborare una legge anche solo un po’ più permissiva di quella
attualmente in vigore. In precedenza era stata anche avanzata una
proposta di vietare totalmente l’aborto, proposta bocciata nel
novembre del 2005 da un referendum.
39
Fino a non molto tempo fa, il paese più antiabortista in Europa
era certamente l’Irlanda, dove continuava ad essere in vigore la
legge vittoriana sull’aborto, promulgata dal Parlamento di
Londra nel 1861 ( Offences Against the Person Act): la legge
considerava reato sottoporsi a una interruzione di gravidanza o
aiutare una donna a farlo e fissava come condanna la
carcerazione fino all’ergastolo. Nel 1967 il parlamento britannico
ha legalizzato l’aborto volontario in Gran Bretagna, abrogando
gli articoli 58 e 59 della legge del 1861, ma senza estendere
questa abrogazione alle sei contee dell’Irlanda del Nord; anche le
26 contee della repubblica hanno mantenuto in vigore la legge
vittoriana.
Nel 1983 nella repubblica irlandese un referendum popolare ha
approvato, con una maggioranza dei due terzi dei voti validi,
l’inserimento di un emendamento nell’articolo 40.3 della
Costituzione che dice: “ Lo stato riconosce il diritto alla vita del
non ancora nato , nel rispetto dell’uguale diritto alla vita della
madre e garantisce nelle sue leggi di rispettare e, per quanto
possibile di difendere e tutelare tale diritto con leggi opportune”.
Un nuovo referendum, nel 1992, ha approvato l’inserimento
nello stesso articolo di due nuovi paragrafi che tutelano il diritto
di viaggiare e di ricevere informazioni sull’interruzione
volontaria della gravidanza, assicurando alle donne irlandesi il
diritto di abortire nelle strutture pubbliche della Gran Bretagna.
Nel 1995 , allo scopo di dare articolazione legale agli
emendamenti del 1992, il Parlamento ha approvato la “Legge
sulla Regolamentazione dell’Informazione “ che stabilisce le
condizioni in cui possono essere date informazioni riguardo
all’interruzione volontaria della gravidanza. Rimaneva tuttavia
una lacuna nella legislazione ordinaria, che riguardava la
legittimità dell’interruzione di gravidanza nel caso di rischio di
suicidio della donna incinta.
40
Nel marzo del 2002 è stato sottoposto a referendum popolare il
“ Disegno di legge per il venticinquesimo emendamento alla
costituzione (protezione della vita umana durante la gravidanza)
“presentato dal Governo e approvato dal Parlamento. Il
referendum riguardava due commi o sottosezioni da aggiungere
all’articolo 40.3. Il primo comma dichiarava : “In particolare la
vita nell’utero del non ancora nato verrà protetta da quanto viene
stabilito dalla legge per la protezione della vita umana durante la
gravidanza del 2002”. Il secondo comma stabiliva che la legge in
questione non avrebbe potuto essere cambiata dal solo
Parlamento, ma che ogni cambiamento avrebbe dovuto essere
sottoposto a un referendum popolare. La legge proposta
eliminava il rischio di suicidio della donna incinta quale motivo
legalmente accettabile di interruzione della gravidanza, una
modifica attesa e che quasi tutti i parlamentari ritenevano
necessaria. In una seconda parte, però, definiva l’aborto
volontario come “distruzione intenzionale, effettuata con
qualsiasi mezzo, della vita umana non ancora nata dopo che sia
stata innestata nell’utero”. Questa definizione poneva
esplicitamente fuori dalla protezione della nuova legge
l’embrione non impiantato, salvaguardando la legalità della
pillola del giorno dopo e della spirale e aprendo la porta alla
sperimentazione sugli embrioni in vitro e alla produzione di
cellule staminali embrionali. Le ragioni della richiesta di questa
modifica della legge, evidentemente in aperto contrasto con il
principio guida delle gerarchie ecclesiastiche romane, non sono
mai state del tutto chiarite. Tra le altre cose l’approvazione di
queste modifiche avrebbe vanificato i dichiarati intenti dei gruppi
cattolici più radicali che progettavano sottoporre al Parlamento
alcuni disegni di legge rivolti a limitare scelte e comportamenti
in campo riproduttivo che venivano considerati immorali. Si
pensi, ad esempio, che in Irlanda vengono consumate, ogni anno,
oltre 250.000 pillole post-coitali, e che era già stata resa nota
41
l’intenzione di proibire la vendita del farmaco, un progetto che
l’emendamento proposto dal governo avrebbe reso inutile.
La legge stabiliva infine che un procedimento abortivo eseguito
da un medico in un luogo riconosciuto ufficialmente dal
Ministero della Sanità, eseguito per prevenire un rischio reale ed
elevato di morte della donna gravida non sarebbe stato
considerato aborto volontario; dalle motivazioni accettate era
però escluso il rischio di suicidio.
Per comprendere le ragioni che hanno sollecitato certi gruppi
sociali o religiosi a schierarsi per il sì o per il no bisogna
conoscere a fondo la situazione politica e la storia del paese,
anche perché la posta in gioco non era la legalizzazione
dell’aborto volontario, illegale in tutte le contee e che tale
sarebbe rimasto quale che fosse stato l’esito del referendum.
C’è anche da sottolineare al fatto che il diritto all’aborto, in
Irlanda, non ha forti motivazioni: le donne che vogliono abortire,
lo fanno nelle strutture pubbliche inglesi, con un costo
complessivo di circa 500 euro, viaggio incluso e non si
registrano casi di aborto clandestino. Era piuttosto in discussione
l’influenza della Chiesa cattolica sulle leggi dello Stato e
sull’opinione pubblica e la sua capacità di far coincidere le leggi
dello stato con quelle della Chiesa.
In questa occasione l’episcopato irlandese ha cercato, con
qualche opportunismo pragmatico, di riaffermare la propria
posizione anti-aborto inserendola nelle leggi dello stato, ma ha
contemporaneamente voluto ottenere un vantaggio su un altro
terreno, andando incontro alle posizioni del governo in cambio di
un sostegno economico. Incombeva sui vescovi la questione
degli ingenti risarcimenti da destinare alle centinaia di vittime di
abusi sessuali compiuti da membri del clero soprattutto nel
periodo tra il 1950 e il 1970, (l’apogeo del potere della Chiesa
cattolica nell’isola) ai danni di bambini affidati alle loro cure
nelle molte istituzioni che essi gestivano. Il potere che la Chiesa
esercitava sul paese e la deferenza acritica della popolazione nei
42
confronti del clero avevano mantenuto il segreto su questi eventi
fino agli anni Novanta. I discreti negoziati tra episcopato e
governo avevano prodotto un compromesso: il governo
accettava che l’onere maggiore di questi risarcimenti venisse
assunto dallo Stato e la Chiesa dava la sua approvazione alla
proposta governativa sull’aborto, anche se era in chiaro dissenso
con la linea ufficiale della Chiesa romana. I gruppi cattolici
integralisti hanno rifiutato questo compromesso e si sono
schierati a favore del no, accusando l’episcopato di aver “
barattato la morale con i soldi” e svenduto la difesa della vita in
cambio di vantaggi politici.
Solo il 42% dei cittadini irlandesi ha votato per il referendum,
che si è concluso quasi in pareggio ( 49,58% di sì, 50,42% di no),
un risultato ambiguo che non consente a nessuno di cantare
vittoria. I commentatori politici hanno però indicato gli sconfitti
di questa competizione. Anzitutto la Chiesa cattolica, nella sua
dimensione di organismo politico diretto dall’episcopato, che ha
pagato caramente il suo tentativo di compromesso, considerato
immorale da molto fedeli. Significativo il commento del
giornale cattolico The Irish Catholic: “ I vescovi hanno investito
gran parte della propria autorità a favore di questo emendamento
costituzionale e la sconfitta che esso ha subito ha reso chiara e
impossibile da negare una cosa, cioè che la loro autorità è ormai
respinta , implicitamente o in modo aperto, non solo da molti
cattolici liberali, ma anche da molti cattolici conservatori.
Se persino i conservatori non ubbidiscono più ai vescovi, allora i
vescovi sono davvero nei guai”. Sconfitti, insieme alla chiesa,
sono stati anche alcuni movimenti politici, come l’ala del Fianna
Fàil legata all’episcopato, il partito dei democratici progressisti e
alcuni personaggi politici saliti, certo non casualmente, sul carro
sbagliato. Si tenga comunque anche conto del fatto che il 9
agosto del 2005 l’Associazione Irlandese di Pianificazione
Familiare ha inoltrato ricorso alla Corte Europea per i diritti
43
dell’uomo contro le norme esistenti attualmente in Irlanda in
materia di aborto volontario.
Aggiungo ancora due cose a proposito dell’Europa: il Parlamento
Europeo, il 26 settembre del 2002, ha raccomandato ai paesi
membri di legalizzare l’aborto; nel luglio del 2004 la Corte
Europea per i diritti dell’uomo ha rifiutato di attribuire la qualità
di persona all’embrione e al feto.
Ho già commentato le posizioni dei differenti paesi islamici in
materia di inizio della vita personale, posizioni che naturalmente
condizionano le varie legislazioni in materia di aborto volontario.
Ad esempio:
Afghanistan, Iran, Egitto, Oman, Siria, Yemen, autorizzano
l’interruzione della gravidanza solo quando è dimostrata
l’esistenza di uno stato di necessità, cioè di un rischio
significativo per la vita della madre;
Algeria, Marocco, Giordania, Pakistan, Arabia Saudita,
estendono il consenso ai casi in cui il rischio riguarda la salute
fisica e psicologica della donna;
Kuwait e Qatar, ammettono l’aborto anche nei casi in cui sia
dimostrata l’esistenza di una malformazione fetale;
Tunisia e Turchia, che hanno approvato norme più simili a
quelle della maggior parte dei paesi occidentali, ammettono
motivazioni basate sul disagio economico e sociale oltre a quelle
della violenza carnale e dell’incesto;
l’Etiopia ha approvato, l’11 giugno del 2005 una normativa che
ammette l’interruzione volontaria della gravidanza se esistono
rischi per la salute fisica o mentale della madre, in caso di stupro,
se sono state accertate malformazioni fetali e se la ragazza
incinta è considerata troppo giovane per potersi assumere l’onere
dell’educazione di un figlio.
44
Recentemente (aprile del 2007) il Distretto Federale di Città del
Messico ( otto milioni e mezzo di abitanti) ha approvato una
legge che depenalizza l’aborto entro le prime 12 settimane di
gravidanza, legge contro la quale è già stato presentato un ricorso
alla Corte Suprema.
Nell’America Latina, continua comunque a distinguersi il
Nicaragua che, il 18 Novembre del 2006, ha approvato il divieto
assoluto dell’aborto volontario: anche nei confronti di questa
legge c’è un ricorso per anti-costituzionalità, che ha poche
probabilità di essere accolto.
L’aborto nel mondo
Molte Istituzioni e molte agenzie hanno cercato di riportare dati
corretti sul numero di aborti eseguiti nei paesi nei quali
l’interruzione della gravidanza è autorizzata dalla legge, e tutti
ammettono di aver incontrato molte difficoltà. Ci sono paesi
come la Corea del Sud che non hanno un registro nazionale; in
alcune parti del mondo, come nella Federazione russa, può
accadere che le statistiche tengano conto degli aborti spontanei e
non degli aborti procurati nelle primissime settimane di
gravidanza. In Cina, le statistiche del Ministero della Sanità non
tengono conto degli aborti procurati con il mifepristone ed
escludono spesso i dati relativi alle donne non sposate; inoltre
possono mancare dati di alcuni ospedali e ci sono province che
non li raccolgono anche per interi anni.
Con tutta l’approssimazione che deriva da queste difficoltà,
comunque qualche valutazione generale la si può azzardare. Il
Family Planning International ha calcolato che nel 1995 ci sono
stati, nel mondo, più di 45 milioni di aborti, 20 dei quali illegali.
45
Se consideriamo l’indice più significativo (l’abortion rate,
numero di aborti per 1000 donne in età riproduttiva; l’altro indice
è l’abortion ratio, cioè il numero di aborti per 100 gravidanze),
risulta ampiamente in testa il Vietnam con un 85 per 1000 (il
significa che una donna vietnamita ha in media 2,5 aborti durante
la sua vita riproduttiva), che oltretutto riguarda soltanto i dati del
settore pubblico; se si include anche il settore privato s arriva al
111 per mille . Difficile stabilire quanti siano gli aborti in
Romania, perché i dati del settore privato mancano quasi
completamente dalle statistiche. Nel 1956 l’abortion rate di
queso Paese era di 252 per 1000, ma l’indice era sceso a 182 nel
1990 e addirittura a 30 nel 2004 . I dati della Cina (78 per 1000)
includono i controlli mestruali, che vengono eseguiti senza un
test di gravidanza preliminare che hanno rappresentato fino al
60% degli interventi, e che non tengono conto di tutti gli aborti
farmacologici.
Degli altri paesi con elevati indici di abortività, molti facevano
parte dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche. I dati
dovrebbero essere completi peraltro solo per quattro di questi
Stati, Bielorussia (51,3 per 1000). Estonia (53,8), Kazakistan
(43,9 per 1000) e Lettonia (44,1 per 1000), mentre ci sono molti
dubbi per tutti gli altri, dalla Russia all’Armenia, all’Ucraina alla
Georgia. Malgrado l’incompletezza dei dati Russia e Bielorussia
hanno indici molto elevati, rispettivamente pari al 55,3 e al 67,5
per 1000; in questi paesi ci sono anche moltissimi aborti illegali,
una dato che risulta indirettamente dalle migliaia di casi trattati
annualmente in questi paesi per complicazioni dovute proprio ad
aborti clandestini.
In Europa, indici inferiori al 10 per 1000 vengono attribuiti a
Belgio, Germania, Olanda , Svizzera e Spagna. I dati relativi
all’Irlanda sono falsati dal fatto che i centri inglesi che praticano
l’interruzione delle gravidanze di queste donne spesso non
registrano il loro indirizzo in Irlanda, e questi interventi non
vengono perciò inseriti nelle statistiche. La Finlandia ha un
46
indice di poco superiore a 10, un punto meno dell’Italia, e sotto a
20 si trovano Danimarca, Canada, Lituania, Norvegia, Francia,
Svezia.; sopra a 20 si incontrano Stati Uniti, Ungheria e Bulgaria.
Nei paesi che non ammettono l’interruzione della gravidanza o la
limitano notevolmente, sono naturalmente molto numerosi gli
aborti illegali, eseguiti in parte in luoghi tecnicamente ed
igienicamente affidabili, in parte da personale poco esperto e in
condizioni igieniche inaccettabili. Ciò fa fluttuare notevolmente
la percentuale di complicazioni di varia gravità e l’indice di
ospedalizzazione, che può variare dal 3 al 15 per mille. Sia per
questi dati che per l’indice di mortalità gli epidemiologi si
dichiarano incapaci di calcolare cifre che non siano a rischio di
errore. Quello che sappiamo è che nei paesi nei quali esiste ed è
diffuso, l’aborto clandestino è la causa più importante di
mortalità materna in gravidanza, con cifre particolarmente
impressionanti in Africa e in alcuni paesi del Sud America.
I dati più recenti dell’OMS (10 novembre 2006) sono comunque
questi: ogni anno muoiono, nel mondo, oltre cinquecentomila
donne per complicazioni dovute alla gravidanza e al parto; ogni
anno si verificano più di ottanta milioni di gravidanze non
desiderate e quarantacinque milioni di esse vengono interrotte; è
stato calcolato – con i limiti di errore ai quali ho accennato – che
diciannove milioni di questi quarantacinque sono eseguiti in
condizioni che rappresentano un rischio per la vita o per la salute
delle donne; ne consegue che ogni anno tra settantamila e
centomila donne muoiono di aborto e che alcuni milioni di donne
accusano menomazioni di vario genere secondarie soprattutto a
complicazioni infettive.
L’aborto in Italia
L’Italia, paese profondamente cattolico e, oltre tutto, sede
dell’autorità pontificia, si è avvicinata alla discussione di una
47
legge sull’interruzione volontaria della gravidanza con e
altrettante perplessità. Al momento dell’approvazione della
Costituzione , nell’immediato dopoguerra, erano rimaste a
regolare la vita quotidiana dei cittadini un gran numero di leggi
fasciste, tra le quali apparvero particolarmente difficili da
smantellare quelle relative al controllo delle nascite, perché sia le
norme che proibivano persino la propaganda anticoncezionale
che quelle che condannavano a pene molto severe chiunque si
fosse trovato implicato in una interruzione di gravidanza avevano
l’appoggio incondizionato del principale partito polittico del
paese, la Democrazia Cristiana, che si accingeva a governare per
molti lustri l’Italia. Il cambiamento di queste norme giuridiche
avrebbe richiesto tempi ancor più lunghi se i movimenti laici e i
movimenti femminili non avessero trovato solidarietà e
comprensione nella Magistratura.
Il primo tentativo di richiamare l’attenzione sul problema
dell’aborto clandestino è da accreditare a Noi Donne, settimanale
dell’Unione Donne Italiane, un importante movimento che
raccoglieva soprattutto donne iscritte a partiti della sinistra, da
quello comunista a quello repubblicano. Il giornale pubblicò una
inchiesta intitolata “I figli che non nascono” che portò alla luce
per la prima volta le miserie e le sofferenze dell’aborto
clandestino. Si trattava tra l’altro di un problema che sottolineava
ancora una volta i diversi destini delle differenti classi sociali: la
borghesia trovava asilo in cliniche private di lusso o passava il
confine per cercare soluzione ai suoi problemi in Svizzera,
mentre le persone meno abbienti dovevano ricorrere all’opera di
vecchie artigiane dell’aborto che se la cavavano come potevano e
si rendevano spesso responsabili di veri e propri disastri,
perforando uteri, causando gravi infezioni pelviche o usando in
modo scorretto decotti e pozioni che talora si rivelavano mortali.
A partire da 1973 ebbero particolare risonanza alcuni processi
che riguardavano giovani donne e che rappresentavano casi
umani ai quali il paese finì col guardare con simpatia. Nel 1974
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il procuratore della repubblica di Torino incriminò 263 donne per
procurato aborto : l’inchiesta era stata motivata dalla morte di
una ragazza, ricoverata in ospedale per le complicazioni seguite a
un aborto clandestino. Il ginecologo responsabile teneva in
bell’ordine nel suo ambulatorio le cartelle cliniche delle sue
pazienti, e ciò permise al magistrato di incriminarle tutte. In
quella occasione cominciarono a muoversi gli iscritti al Partito
Radicale e in particolare il Movimento di liberazione della
Donna, fondato nel 1971, e il CISA ( Centro Informazioni
Sterilizzazione e Aborto) che Adele Faccio aveva fondato nel
- Quasi tutti i gruppi femminili intervennero, organizzando
manifestazioni e campagne di stampa , affrontando insieme il
problema del controllo delle nascite e quello della
liberalizzazione dell’aborto. Un grande contributo a queste
campagne fu offerto dall’AIED (Associazione Italiana
educazione Demografica ) e dal suo presidente Luigi De Marchi.
Nel gennaio del 1975 la polizia arrestò Gianfranco Spadaccia,
segretario del Partito radicale, Adele Faccio e un ginecologo di
Firenze, il dottor Conciani, in una clinica di Firenze nella quale si
praticavano aborti, e si chiarì subito il pieno coinvolgimento dei
radicali e in particolare di Marco Pannella, che era il loro Leader.
Nello stesso periodo divennero molto attivi i movimenti
femministi, che organizzarono centri di self-help nei quali le
gravidanze venivano interrotte con una tecnica di aspirazione del
contenuto uterino , il cosiddetto metodo Karman, che utilizzava
sistemi elementari come le pompe generalmente usate per
gonfiare le ruote delle biciclette.
A partire dal gennaio del 1975 l’Espresso, insieme alla lega del
13 maggio ( data della vittoria del referendum che era stato
inutilmente promosso dai cattolici contro il divorzio) aveva
intrapreso una campagna per promuovere un nuovo referendum
per abrogare gli articoli del codice penale che vietavano
l’interruzione volontaria della gravidanza. La campagna era stata
aperta il 19 gennaio da una copertina del settimanale che ritraeva
49
una donna nuda, gravida, crocefissa. Il titolo: “Aborto: una
tragedia italiana”. Nel 1976 scoppiò il caso di Seveso, un paese
della Brianza dove era esploso un reattore di una fabbrica chimica
, l’ICMESA, di proprietà della multinazionale svizzera Hoffmann-
La Roche. L’esplosione causò la formazione di una vera e propria
nube di diossina, una sostanza che può essere responsabile di
gravi malformazioni fetali. I giornali avevano accusato le autorità
di non informare le donne del rischio che i loro figli stavano
correndo e della possibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, che
era comunque disponibile. Alla fine furono interrotte 26 delle 462
gravidanze accertate dagli ambulatori ginecologici e fece molto
scalpore il fatto che la prima interruzione fosse eseguita da
Giovanni Battista Candiani, professore universitario
dell’Università di Milano, cattolico e uomo assai stimato per il suo
alto senso della morale.
Ho detto che la magistratura diede un importante contributo alla
battaglia che era ormai in atto per cancellare le norme più
retrograde del vecchio codice penale fascista. Il primo di questi
aiuti risale addirittura al 1971, quando la Corte Costituzionale
abrogò la norma che impediva la diffusione e il commercio dei
metodi anticoncezionali, aprendo finalmente la strada al controllo
delle nascite. Ma la vera novità fu introdotta dalla sentenza n 27
del 18 febbraio 1975, sulla quale conviene spendere qualche
parola.
La Corte ritenne fondata la questione sollevata con ordinanza del
giudice istruttore di Milano (2.10.1972) che denunciava
l’illegittimità costituzionale dell’articolo 546 del codice penale in
riferimento agli articoli 31 e 32 della Costituzione “nella sola
parte in cui punisce chi cagiona l’aborto di donna consenziente e
la donna stessa, anche quando sia accertata la pericolosità della
gravidanza per il benessere fisico e per l’equilibrio psichico della
gestante, ma senza che ricorrano tutti gli estremi dello stato di
necessità previsto dall’articolo 54 del codice penale”.
50
La decisione fu molto importante perché il riferimento
all’equilibrio psicologico della gestante aprì una strada che
poteva essere percorsa in molte e differenti circostanze. Ma ecco
i punti fondamentali della decisione:
- il prodotto del concepimento è stato alternativamente ritenuto
semplice parte dei visceri materni, speranza di uomo, soggetto
animato fin dall’inizio, persona solo dopo un periodo più o
meno lungo di gestazione., - la situazione giuridica del concepito, sia pure con le particolari
caratteristiche sue proprie, non può non collocarsi tra i diritti
inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti dall’articolo 2
della Costituzione; - questa premessa giustifica di per sé l’intervento del legislatore
rivolto a prevedere sanzioni penali; - l’interesse costituzionalmente protetto relativo al
concepimento può venire in collisione con altri beni che
godano pur essi di tutela costituzionale e, di conseguenza, la
legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta,
negando ai secondi adeguata protezione; - non esiste equivalenza fra (id est, vi è prevalenza del) diritto,
non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già
persona come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che
persona deve ancora diventare; - è obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per
impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti
sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe
derivare alla madre dal progredire della gestazione: e perciò la
liceità dell’aborto deve essere ancorata a una previa
valutazione della sussistenza delle condizioni atte a
giustificarla.
Con questa sentenza, molto criticata – ovviamente per opposti
motivi – sia da parte laica che da parte cattolica, la Corte
affermava che il nascituro non è ancora persona , ma
contemporaneamente individuava il fondamento costituzionale
51
della tutela del concepito mediante un richiamo ai diritti
inviolabili dell’uomo. Su questo punto la decisione della Corte
apparve a molti contraddittoria, perché da un lato affermava che
l’embrione non era persona, dall’altro lo considerava titolare dei
diritti inalienabili dell’uomo. A molti parve di potere interpretare
l’opinione della Corte nel senso che l’embrione ( e poi il feto)
doveva essere salvaguardato per il valore che gli veniva
attribuito dal fatto di poter diventare persona e la tutela di questa
speranza di vita veniva ricollegata alla tutela che la Costituzione
garantisce a chi è già persona, cioè al nato. Il richiamo
all’articolo 2 era dunque solo mediato e la Corte lo chiariva in
modo esplicito: “l’articolo 2 della Costituzione riconosce e
garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, ai quali non può
ricollegarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie,
la situazione giuridica del concepito”.
Solo in questa prospettiva si giustificava dunque il fatto che il
diritto alla vita e alla salute (intesa come benessere fisico ed
equilibrio psichico) proprio di chi è già persona, potesse
prevalere sulla salvaguardia dell’embrione, che persona deve
ancora diventare.
In sostanza la Corte Costituzionale riconosceva che la tutela del
concepito –speranza di vita, uomo in divenire – si ricollega
all’articolo 2 della Costituzione il che giustifica un intervento del
legislatore anche con sanzioni penali, ma ha anche stabilito che
altri intessi, quelli di chi persona è già, possono entrare in
conflitto con la salvaguardia del feto e possono essere ritenuti
prevalenti, possibilità che toglie ogni fondamento alla sanzione
penale. Questa decisione – che riguarda solo il caso che era stato
sottoposto al giudizio della Corte – aveva lasciato aperto un
problema, quello della possibile esistenza di altre situazioni
capaci di entrare in conflitto con la tutela del nascituro.
Questa sentenza ha evidentemente escluso dall’area di ciò che è
penalmente vietato l’aborto terapeutico – inteso in una accezione
52
molto ampia, se si considera il riferimento esplicito all’equilibrio
psichico della gestante – aprendo la via al legislatore per una
depenalizzazione (condizionata a certe situazioni) dell’aborto
motivato da indicazioni sociali e dell’aborto eugenetico – fatta
salva la possibilità di comprendere il problema delle
malformazioni fetali tra quelli che sono responsabili di un danno
psicologico della madre.
Un ulteriore passo avanti sulla strada della modernizzazione del
paese, soprattutto per quanto concerne la pianificazione della
famiglia, è stata certamente l’approvazione della legge 405/1975
sull’istituzione dei consultori familiari. Nella legge si
attribuiscono a questi servizi compiti che fino a pochi anni prima
sarebbero stati impensabili, come “la somministrazione dei mezzi
necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla
coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile, nel
rispetto delle convinzioni etiche e della integrità fisica degli
utenti”. Due straordinarie novità: la procreazione non è più un
dovere, ma una scelta, collegata con la responsabilità dei
soggetti.; esistono differenti visioni morali del mondo che
debbono essere tutte ugualmente rispettate.
Per almeno cinque anni nel Parlamento italiano c’è stato un
dibattito che in qualche momento è diventato piuttosto rovente.
La prima proposta di legge risale addirittura al 1973 ed è stata
presentata da Loris Fortuna, un socialista; hanno fatto seguito le
proposte presentate dai socialdemocratici, dai comunisti, dai
repubblicani e dai liberali. Persino la Democrazia Cristiana ha
elaborato un progetto che però non prevedeva la
depenalizzazione del reato, ma si limitava ad indicare alcune
attenuanti, come il dubbio di malformazioni del feto, lo stupro,
l’esistenza di condizioni economiche e sociali così disagiate da
far considerare impossibile il mantenimento del figlio.
Naturalmente sono intervenuti nel dibattito quasi tutti gli
intellettuali italiani, che hanno preso ovviamente differenti
posizioni: si era comunque diffusa la sensazione che l’opinione
53
pubblica fosse ogni giorno di più in favore della legalizzazione
dell’aborto.
Nel 1977 il Parlamento costituì una Commissione ristretta della
quale facevano parte rappresentanti di tutti i partiti che avevano
presentato una proposta di legge; La Commissione elaborò un
progetto unificato che fu approvato dalla Commissione giustizia
della Camera e poi dall’aula della Camera stessa, ma fu poi
bocciato in Senato dove si votò a scrutinio segreto, un voto
viziato da una innaturale alleanza tra democristiani e missini e
nel quale si contarono almeno sette franchi tiratori. Si trattò di un
vero colpo di mano che ebbe fortissime risonanze nel Paese : ma
la legge, con un testo molto simile a quello elaborato dalla
commissione ristretta, fu definitivamente approvata l’anno
successivo, e l’ultimo “sì” arrivò proprio dal Senato con 160 voti
contro 148. Questa legge (194/1978) fu sottoposta a referendum
abrogativo tre anni dopo e superò la prova con il 68% di voti
contrari.
La legge 194
La legge 194 ha contenuti molto complessi sui quali ancora
dibattono, con qualche accanimento, medici, filosofi, biologi e
bioeticisti. Anche se il significato più concreto e più profondo
della legge è ben chiaro – si tratta di riconoscere alle donne il
diritto di interrompere la gravidanza in particolari circostanze –
non si può evitare di ammettere la fondamentale ambiguità del ti
titolo – Norme per la tutela sociale della maternità – e dei primi
due commi dell’articolo 1 –Lo stato garantisce il diritto di
procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore
sociale della maternità e tutela la vita umana fin dal suo inizio
….L’interruzione volontaria della gravidanza ….non è mezzo di
controllo delle nascite -. In realtà, molte delle parole spese per
definire e commentare queste nuove norme sono il risultato di un
compromesso e contengono una certa quantità di ipocrisie. Solo
54
per fare un esempio, se lo stato tutela la vita umana fin dal suo
inizio, sarà bene che questo inizio venga definito con precisione,
visto che ci sono almeno una dozzina di definizioni possibili e
che su questo tema bioeticisti e biologi si stanno dilaniando da
tempi immemorabili. Se poi si vuole essere minimamente
credibili, è necessario inserire meccanismi che impediscano
l’uso della interruzione di gravidanza come anticoncezionale, una
generica dichiarazione che cerca di stabilire un principio è solo
sgradevole supponenza. L’idea che la distruzione di un embrione
o di un feto dovrebbe rappresentare una sorta di “ultima ratio”
alla quale ricorrere solo in casi (umani, clinici, sociali) estremi e
altrimenti non risolvibili, con l’unica finalità di proteggete la
salute della donna gravida, è certamente lontana dalla realtà dei
fatti. Anzitutto, nella definizione di salute che viene oggi
accettata comunemente, non c’è e non ci può essere alcun
riferimento a una condizione “estrema” di malessere, non è
necessario arrivare a tanto per distruggere la vita di un qualsiasi
cittadino e, ancor di più, di una qualsiasi cittadina. Dovrebbe poi
essere noto a tutti – e certamente era noto agli estensori della
legge – il fatto che in quasi tutti i paesi del mondo la
pianificazione della famiglia deve potersi avvalere sia della
contraccezione che dell’interruzione volontaria della gravidanza
e che le conseguenze di un mancato controllo della propria
fertilità possono essere straordinariamente gravi.
La situazione italiana era caratterizzata, prima dell’avvento di
questa legge, da un frequente ricorso all’aborto clandestino e da
una progressiva (ma ancora inadeguata) diffusione dei metodi
contraccettivi, che riguardava soprattutto le regioni dell’Italia
settentrionale e centrale. Lentamente l’abortività clandestina è
stata riassorbita dalle interruzioni di gravidanza legali, tranne
forse che per una quota minore, probabilmente abbastanza
variabile negli anni, rappresentata dagli interventi eseguiti sulle
minorenni e sulla nuove cittadine. In ogni caso il numero di
aborti legali è diminuito progressivamente, almeno fino a poco
55
tempo fa, ed è persuasione generale che, tranne rare eccezioni,
l’uso dell’aborto risponda alle logiche dell’emergenza e non
esista una reale tendenza a utilizzare l’interruzione della
gravidanza come un mezzo anticoncezionale.
Per secoli le donne hanno pagato altissimi prezzi alla decisione di
interrompere una gravidanza non desiderata : molte donne sono
morte; molte altre sono diventate sterili o hanno perduto una
parte della loro salute. Questi prezzi erano dovuti a ragioni
diverse: l’aborto è stato a lungo punito dalla legge e considerato
un reato infamante, e perciò affidato alle mani di persone
disoneste e molto spesso poco affidabili. Per procurare gli aborti
sono state utilizzate a lungo e empiricamente tecniche improprie
e pericolose e sostanze tossiche di difficile uso. Ci sono stati
periodi nei quali le infezioni pelviche post-abortive erano
diventate così frequenti da aver assunto un carattere quasi
epidemico ed era stata definita “miseria genitale” la parametrite
cronica, cioè l’infezione cronica del tessuto cellulare lasso
contenuto all’interno del legamenti larghi, che sostengono
lateralmente l’utero, che impediva qualsiasi attività di lavoro ad
un gran numero di donne che si erano sottoposte a interventi per
interrompere le loro gravidanze.
Migliorate le tecniche, potendo utilizzare gli antibiotici per
evitare le complicazioni infettive, la prognosi delle interruzioni di
gravidanza ( clandestine o criminose, come venivano chiamate)
era migliorata – ma non per tutte le donne – nell’ultimo
dopoguerra. Si era determinata così una netta differenza, per
quanto riguardava risultati e complicazioni, tra chi poteva
permettersi interventi costosi, ma privi di esiti patologici degni di
nota, e chi doveva affidarsi alle “mammane” o a inaffidabili
metodologie empiriche, accettando rischi sempre molto elevati.
L’esistenza di queste differenze tra le varie classi sociali fu forse
una della spinte più forti per l’approvazione di una legge.
56
La legge 194 che disciplina l’interruzione volontaria della
gravidanza considera separatamente due periodi della gestazione,
calcolati a partire dal concepimento: i primi 90 giorni e quelli
successivi. Nei primi 90 giorni possono chiedere l’interruzione
delta gravidanza le donne che ritengono che dalla prosecuzione
della stessa, dal parto e dalla condizione di maternità che ne
potrebbe conseguire, o a seguito delle circostanze nelle quali si è
verificato il concepimento, potrebbero derivare pericoli per la
loro salute fisica o psichica in rapporto al loro stato di salute, alle
loro condizioni economiche, sociali e familiari alla possibilità
che il concepito possa essere malformato. Per essere autorizzata
ad abortire, la donna può recarsi presso un consultorio pubblico,
presso una struttura privata abilitata dalla Regione o da un
medico di fiducia ( dal suo ginecologo, o dal suo medico di
famiglia). Si tratta dunque, in ogni circostanza, di problemi di
salute, non di capricci e tantomeno di bizzarrie. Insinuare che
così non sia rappresenta un insulto alla ragionevolezza, al buon
senso e alla moralità delle donne di questo Paese; cercare di
frapporre manipoli di dissuasori nel percorso che queste donne
sono costrette ad affrontare rende questo insulto ancora più
odioso.
Gli operatori medici sono tenuti a considerare in modo obiettivo
le ragioni della donna, suggerendo possibili soluzioni dei
problemi proposti , sempre nel rispetto della dignità della donna e
della sua riservatezza. Non sono richiesti particolari accertamenti
, a parte quelli necessari per confermare l’esistenza di una
gravidanza in evoluzione. Al termine del colloquio il medico
rilascia un documento che attesta che la donna è gravida e che ha
chiesto di abortire. Trascorsi sette giorni dal rilascio di questo
documento, la donna può chiedere di essere sottoposta a un
intervento in un ospedale pubblico o in una casa di cura
convenzionata con la Regione. In alcuni casi il medico può
ritenere che l’intervento abbia carattere di urgenza e consentire
alla donna di presentarsi senza indugio nella sede prescelta.
57
I presidi sanitari che eseguono questi interventi chiedono alle
donne di eseguire alcuni esami utili per l’anestesia e comunque
necessari per l’atto operatorio. L’intervento non richiede in
genere una reale degenza e viene d’abitudine eseguito in Day
Surgery, in anestesia locale, in analgesia profonda e talora anche
in anestesia generale o locale.
Il padre del concepito può essere ascoltato solo se la donna lo
consente, un punto molto controverso che, secondo alcuni, ignora
il valore costituzionale dell’unità familiare. La Corte
Costituzionale, interpellata anche recentemente su questo punto,
ha risposto che la norma è il risultato della scelta politicolegislativa
di considerare la donna unica responsabile della
decisione di interrompere la gravidanza. La questione
dell’esclusione del padre da ogni possibilità di far sentire la
propria opinione, è oggetto di controversie anche in altri paesi
europei ed è stata sottoposta, senza successo, all’attenzione degli
organi competenti europei.
L’interruzione volontaria della gravidanza può essere autorizzata
anche dopo il 90° giorno di gravidanza, ma solo in due casi
specifici: quando gravidanza e parto comportino un grave
pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi
patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie e
malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo
per la salute psichica e fisica della donna, ipotesi che coincidono
con quelle che, in passato, consentivano l’aborto terapeutico.
Non ci sono evidentemente problemi interpretativi per quanto
riguarda il primo punto. Circa il secondo, invece, è da escludere
che sia sufficiente l’accertamento delle anomalie del nascituro
perché si possa giustificare l’interruzione della gravidanza: è
infatti indispensabile un secondo requisito, che cioè
l’accertamento di queste anomalie determini un pericolo per la
salute della donna. Poiché è quest’ultimo l’oggetto principale
delle indagini, sono possibili casi in cui l’impossibilità di
accertare queste anomalie non impedisce l’interruzione, che può
58
essere eseguita quindi anche sulla base di una malformazione
soltanto probabile. Deve essere ben chiaro che mentre prima del
90° giorno è la donna ad operare la scelta, in seguito tutta la
responsabilità cade sulle spalle del medico, che può, se lo
richiede opportuno, chiamare in causa altri specialisti, ma può
anche assumersi tutta la responsabilità della decisione.
La legge stabilisce che nel caso in cui esista la possibilità di vita
autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza si può eseguire
solo se la gravidanza e il parto comportano un grave pericolo per
la vita della donna e impegna il medico ad adottare ogni misura
idonea a salvaguardare la vita del feto. Questo è un punto molto
delicato sul quale conviene soffermarci.
L’articolo 6 della legge 194 stabilisce che l’interruzione
volontaria della gravidanza, dopo il 90° giorno, può essere
praticata solo :
a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo
per la vita della donna;
b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli
relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che
determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica
della donna.
All’articolo 7, però, dopo una premessa che riguarda gli
accertamenti sulla salute e sulla normalità del feto, troviamo
scritto che “ quando l’interruzione di gravidanza si renda
necessaria per imminente pericolo per la vita della donna,
l’intervento previsto può essere praticato anche senza le
procedure previste…… Qualora sussista la possibilità di vita
autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere
praticata solo nel caso della lettera a) dell’articolo 6 e il medico
che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a
salvaguardare la vita del feto”.”
Dunque, nel caso in cui il medico riconosca al feto capacità di
vita autonoma la scelta di interrompere la gravidanza può essere
fatta solo nel caso che lo stesso medico identifichi, nel
59
proseguimento della gestazione, un grave pericolo per la vita
della donna. Ciò ci riconduce alla prassi in uso prima del varo
della legge 194, quando l’interruzione legale della gravidanza
poteva essere eseguita solo se si creavano le condizioni di uno
stato di necessità, avendo il medico accertato che la scelta di non
intervenire avrebbe con ogni probabilità determinato un
significativo rischio di morte per la madre. Debbo dire che tra il
1958 e il 1974 ho visto applicata questa norma, nella Clinica
Ostetrica di Bologna, non più di una dozzina di volte e sempre
dopo molte perplessità e infiniti ripensamenti.
I problemi e le critiche
Il problema vero, l’unico che mi sembra di scorgere a questo
proposito, riguarda il momento della gravidanza nel quale può
essere identificato l’inizio della vita autonoma. C’è, su questo punto,
una discussione che coinvolge le diverse scuole di neonatologia e
che è arrivata fino al Comitato Nazionale di Bioetica: è vero infatti
che nessun feto sopravvive se è costretto a nascere entro le 22
settimane di gestazione , ma – a parte la difficoltà di stabilire sempre
e con precisione l’epoca di gravidanza – è anche vero che nessun
feto nato alla 24ma settimana sopravvive se la madre lo partorisce in
un piccolo ospedale, lontano dai grandi centri di rianimazione
neonatale, o se è portatore di una grave malformazione per la quale,
ad esempio, debba essere sottoposto a un intervento chirurgico
urgente. D’altra parte stiamo parlando di eventi assai poco frequenti:
nel 2005 gli interventi eseguiti dopo la 21ma settimana sono stati
poco più di 800, quasi tutti, poi, completati prima del termine della
22ma, quando ancora la possibilità di sopravvivenza del feto è
considerata nulla. E’ comunque necessario che si debba cercare di
stabilire con la massima precisione possibile l’epoca della
gravidanza e il peso del feto, tenendo conto del fatto che quando il
60
peso alla nascita è inferiore ai 400 grammi i tentativi di
rianimazione sono considerati inutili. E’ teoricamente possibile che
una gravidanza venga interrotta in un’epoca di possibile vitalità
autonoma del feto, che i neonatologi riescano nell’intento di
rianimare il neonato e che dopo opportune cure lo restituiscano alla
madre, e che questa si ritrovi in braccio un bambino sofferente della
patologia congenita per la quale era stata giustificata l’interruzione
della gravidanza e con i possibili ulteriori problemi determinati dalla
prematurità. Vale a questo punto la pena di sottolineare la saggezza
della legge 194, che non considera termini precisi, tenendo
evidentemente in gran conto i progressi della scienza e
dell’assistenza medica, e si limita a stabilire che è nelle capacità e
nella responsabilità del medico capire quando la gravidanza è giunta
ad un’epoca che comporta possibilità di vita autonoma per il feto.
Quello che è accaduto nei fatti dà ragione alle scelte del legislatore:
da un lato i centri di terapia intensiva sono in grado oggi di
rianimare feti che nel 1978 non venivano neppure presi in
considerazione, dall’altro gli accertamenti relativi alle condizioni di
salute e di normalità dei prodotti del concepimento vengono
continuamente anticipati. Si tratta dunque di scegliere tra prevedere,
stabilendo acconce linee guida qualche modificazione dei tempi di
accertamento , cercando di anticiparli e di completarli
(possibilmente) entro la 21a settimana, o affidare tutte queste
considerazioni alla responsabilità dei medici curanti. La mia
propensione per questa seconda ipotesi è dovuta al fatto che non si
possono formulare linee guida generali in un Paese nel quale
l’assistenza medica varia in modo così notevole e grave nelle varie
Regioni e dove un sensato tentativo di rianimazione in Lombardia
potrebbe diventare accanimento terapeutico in Lucania.
Recentemente ci sono stati vari interventi sempre relativi al
problema della rianimazione dei feti nati in epoca di gravidanza
particolarmente precoce e con perso molto basso, e malgrado
alcune dichiarazioni (invero assai poco credibili) intese a
sostenere che si trattava di prese di posizione che non avevano
61
niente a che fare con la legge 194, è sempre stato più che
evidente che in realtà si trattava di attacchi preordinati e che
l’obiettivo di questi attacchi era proprio la legge . Nel febbraio
del 2008 sono stati i ginecologi delle Università romane in
concomitanza, guarda un po’, con l’ennesima giornata cattolica
in favore della vita, per affermare due principi: il primo, riguarda
la rianimazione dei neonati , che deve essere almeno tentata in
qualsiasi epoca di gravidanza e quale che sia il peso alla nascita;
il secondo principio afferma l’opportunità che i genitori del
bambino, sprovveduti, confusi e ignoranti, debbano essere trattati
con cortesia, sopportati con pazienza, ma messi fuori dall’uscio e
comunque mai ascoltati. La prima parte del documento è
praticamente priva di significato, è evidente che tutti i bambini
che nascono hanno diritto alle cure dei medici, a meno che queste
cure non siano decisamente inutili, tanto da configurare un caso
di accanimento terapeutico. Lasciare invece fuori dalla porta
della stanza nella quale si prendono le decisioni i genitori,
invece, è francamente odioso. Anzitutto il buon senso dovrebbe
dire a tutti che la stragrande maggioranza dei genitori è molto più
interessata dei medici nella sopravvivenza e nella salvezza del
proprio figlio, pur mancando loro la forte stimolazione legata
alla speranza di battere un record e di finire nel Guiness dei
primati per vere fatto sopravvivere il bambino più piccolo della
storia. Esistono però circostanze, che posso immaginare essere
straordinariamente rare, nelle quali i genitori possono pensarla
diversamente e non ascoltarli, in questi casi, mi sembra
francamente delittuoso. Posso immaginare, ad esempio, che i
genitori si dichiarino contrari alla rianimazione del loro bambino
se la prognosi , ancor dubbia per quanto riguarda la vita, è già
chiaramente sfavorevole per quanto concerne le capacità
cognitive, quando la prospettiva è di lasciar sopravvivere un
bambino-vegetale o di portare a casa un creatura per la quale è
prevista sofferenza, solo sofferenza, mai altro se non sofferenza.
E’ evidente che qui si scontrano due concetti antitetici, quello
62
della sacralità della vita con quello della qualità della vita, valori
che non possono essere imposti a chi non li condivide. E un
secondo esempio può essere quello in cui le cure che i medici si
apprestano a erogare debbono essere considerate sperimentali, un
evento molto frequente se i medici sono onesti, rarissimo se non
lo sono. Del resto, se è vero che esiste un diritto alle cure, esiste
anche ( proprio nella nostra Costituzione) il diritto a rifiutarle, e
immagino che debbano essere proprio i genitori a chiedere che
questo diritto venga rispettato, in circostanze del tutto speciali.
Non può comunque essere un caso che su questo argomento, il
giorno dopo che i ginecologi romani si sono espressi, è
intervenuto lo stesso Pontefice. E non può essere un caso che il
CNB abbia approvato recentemente un documento che è sulla
stessa linea e che ribadisce questo incredibile principio, che mi
sembra realmente fuori da ogni regola morale: la madre non ha
voce quando si tratta di stabilire il destino di suo figlio, in nome
di un principio che è proprio solo della religione cattolica: la vita
è sacra, quale che sia la sua qualità. E deve essere sacra per tutti,
quale che siano i loro principi religiosi e morali. Un atto di
violenza straordinario, comprensibile solo come momento della
“crociata della disperazione” che caratterizza questi primi anni
del pontificato di papa Benedetto XVI. Essendo membro del
CNB da molto tempo, debbo ammettere che molti dei documenti
approvati in questi lunghi anni mi hanno imbarazzato: nessuno,
però, quanto questo.
L’obiezione di coscienza
La legge 194, è cosa nota, prevede l’obiezione di coscienza per
il “personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie,” in altre
parole ginecologi, anestesisti, ostetriche e infermieri. Gli ultimi
dati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità ci dicono che il
63
59,5% dei sanitari che operano nelle strutture nelle quali si
praticano le interruzioni volontarie di gravidanza è obiettore.
Ricordo che circa dieci anni or sono furono pubblicati dati molto
significativi su questo argomento; non ne ricordo con precisione
le cifre, ma il senso della ricerca era questo, che tra gli stessi
professionisti operanti al di fuori delle strutture pubbliche o
impegnati in attività che non li mettevano a contatto con le
interruzioni di gravidanza, gli obiettori erano meno della metà.
Nel 2001, i dati ISTAT relativi al rapporto tra offerta potenziale
e offerta effettiva di ginecologi in due differenti Regioni, il
Piemonte e la Puglia, mostravano già differenze altamente
significative: stessa disponibilità potenziale ( 48 ginecologi per
100.000 donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni) ma
disponibilità reale pari a 21 ginecologi in Piemonte e 9 in Puglia.
Oggi, la percentuale di medici obiettori è del 92% e oltre in
Basilicata, dell’80% in Veneto, del 78% nelle Marche, del
77%nel Lazio e del 76% in Puglia; è veramente consolante –ma
fin troppo atipico – il 20% della Valle d’Aosta. Leggo in vari
documenti che il numero di obiettori è in continua crescita e che
molti ospedali stentano a organizzare i servizi necessari; ho
anche molte perplessità per quanto riguarda correttezza della
scelta, almeno per un certo numero dei miei colleghi.
Quando il personale medico e paramedico scende al di sotto di
certi livelli numerici si creano inevitabilmente condizioni che
mettono a rischio la salute di un grande numero di donne. Il
primo evento sfavorevole che si verifica è l’allungamento dei
tempi di attesa che, con la rarefazione dei giorni di intervento,
sposta in avanti il momento nel quale le gravidanze vengono
interrotte. Le conseguenze sono duplici : alcune donne scelgono
la via dell’aborto clandestino, vanno all’estero o assumono
prostaglandine, scelte che spesso significano un aumento dei
rischi per la salute; tutte le altre vedono automaticamente
aumentare il rischio per la salute, per la fertilità e persino per la
vita, perché le probabilità che l’intervento si complichi e abbia
64
effetti collaterali sfavorevoli , immediati o a distanza, sono tanto
maggiori quanto più avanzata è la gravidanza. Non è cosa di
poco conto né è previsione per il futuro: in molti ospedali è già
emergenza.
La clausola dell’obiezione di coscienza era pienamente
giustificata solo ai tempi in cui la legge è entrata in vigore: i
medici cattolici o comunque contrari all’aborto volontario che
lavoravano negli Ospedali furono sorpresi da una innovazione
alla quale non avevano pensato nel momento in cui avevano fatto
la loro scelta di lavoro e avevano il diritto di dissociarsi. Certo,
sarebbe stato lodevole se avessero dedicato il tempo risparmiato
a fare promozione di cultura su uno dei tanti temi che riguardano
il controllo delle nascite, un modo per dimostrare la coerenza
delle loro scelta, ma non si può pretendere troppo. Attualmente,
però. chi sceglie una specializzazione o decide di lavorare in un
Ospedale pubblico sa bene cosa lo aspetta e se lo fa sapendo di
essere ben determinato a ignorare i diritti di molte pazienti (
diritti ai quali dovrebbero corrispondere altrettanti doveri dei
medici) compie un gesto molto discutibile sul piano umano e su
quello morale. E’ bene ricordare ancora una volta che la richiesta
di abortire non è la conseguenza di una scelta capricciosa,
riguarda la salute, un problema che non può essere disatteso e
che carica i medici di una responsabilità ineludibile.
Potrei fare una miriade di esempi tutti relativi a come non ha
alcun senso mettere persone sbagliate in luoghi sbagliati, non
credo che ne valga la pena. Credo però che sia giunto il momento
di cambiare la legge 194 su questo solo punto, eliminando il
diritto all’obiezione di coscienza.
Luci ed ombre
65
” e sanno che nessuno le apprezzerebbe se non appartenessero a
tecnici colti e preparati.
Chiamati a svolgere uno dei più difficili e ingrati compiti della
medicina –incontrare donne che hanno deciso di abortire
cercando di capire le loro motivazioni, ma senza mai violare la
loro intimità – sono riusciti a farlo realizzando risultati
straordinari: la progressiva diminuzione degli aborti legali è
anche opera loro, della loro capacità di interpretare un ruolo così
difficile e di privilegiare la prevenzione. In cambio hanno avuto
ben poco. Ogni volta che gli amministratori di una ASL hanno
dovuto tagliare, hanno risparmiato sui consultori. E’ noto a tutti
che ci sono molto meno consultori di quanti ce ne dovrebbero
essere e meno medici nei consultori di quanti sono necessari. E
oltre a ciò, di tanto in tanto qualche uomo politico in cerca di
notorietà decide di metterli sotto inchiesta.
La Chiesa cattolica italiana, con una cadenza che ormai si può
stabilire mensile, chiede che la legge 194 sia sottoposta a
revisione o che per lo meno se ne dia una lettura più aderente al
suo spirito, uno spirito che i medici avrebbero tradito.
Secondo una delle più insistenti critiche cattoliche in realtà la
legge 194 affiderebbe la decisione finale al medico e non alla
donna, come è ormai diventato prassi comune. Questa critica
nasce da una lettura molto particolare dell’articolo 4, e in
particolare del punto in cui recita che l’aborto può essere
autorizzato quando esistono “ circostanze per le quali
l’interruzione della gravidanza, il parto o la maternità
comporterebbero un serio pericolo per la sua ( inteso, della
donna) salute fisica o psichica”. L’unica persona competente alla
quale affidare questa valutazione sarebbe dunque, secondo questa
critica, il medico. In realtà, basta continuare a leggere l’articolo 4
per capire quanto surrettizia e capziosa sia questa interpretazione.
Questo pericolo deve essere infatti valutato “ in relazione o al suo
stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o
familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o
66
a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito”.
Problemi di salute a parte, nessuna di queste condizioni e di
queste circostanze è di competenza del medico e alcune di loro
sono talmente personali che qualsiasi intervento esterno deve
essere considerato come una sgradevole, prepotente e
inaccettabile intrusione. Se si continua la lettura delle norme, si
scopre ben presto che il percorso che la donna deve seguire e il
limite dell’intervento del medico sono chiaramente delineati
nell’articolo 5, sia nei casi in cui esiste sia in quelli in cui non
esiste una urgenza. Una volta che una donna ha deciso di
interrompere la sua gravidanza – ammesso che sia ancora entro ai
90 giorni e che i motivi della scelta siano tra quelli indicati
nell’articolo 4 – l’unico impedimento alla realizzazione del suo
desiderio sta nella richiesta di soprassedere per una settimana, un
periodo di ripensamento che il legislatore ha voluto inserire e nel
quale si può riconoscere una fondamentale saggezza. Il compito e
i limiti del potere del medico sono chiaramente delineati: deve
valutare con la donna le circostanze che la inducono a chiedere
l’interruzione della gravidanza ( è sempre possibile, ad esempio,
che si sia lasciata fuorviare da errate interpretazioni dei rischi
connessi con eventi in realtà insignificanti), verificare che la
gravidanza esista e valutarne l’epoca di sviluppo, informarla
circa i suoi diritti e circa gli interventi di carattere sociale ai quali
può fare ricorso e di verificare l’esistenza di un carattere di
urgenza. I suoi compiti si fermano qui: a questo punto può solo
consegnarle un certificato nel quale sono registrate le sue
intenzioni e chiederle di attendere 7 giorni prima di presentarsi a
una delle sedi autorizzate nella quale l’intervento verrà eseguito,
indipendentemente dalla personale opinione del medico.
Ho già spiegato come la critica cattolica al lavoro dei consultori
mi sembri del tutto inaccettabile, i medici consultoriali svolgono
il loro lavoro con passione e competenza e non si limitano
certamente ad autorizzare le interruzioni. Quanto alla richiesta di
inserire all’interno dei consultori e dei reparti di maternità degli
67
uffici di consulenza, gestiti da personale cattolico e dedicati ad
un’opera di dissuasione, mi sembra una inaccettabile
prevaricazione, tanto più odiosa in quanto ha a che fare con una
scelta alla quale la maggior parte delle donne arriva dopo molta
sofferenza e che merita di essere rispettata.
La legge, dunque, ha dato buona prova di sé e riaprire su di essa
una discussione sembra oggi assai pericoloso, considerata la
visceralità e la totale assenza di raziocinio delle accuse che le
vengono mosse. Ciò non significa che, in momenti diversi e con
uno spirito laico e costruttivo al momento inesistente, non si
potrebbero prendere in esame alcuni dei difetti che nella 194
possono essere riconosciuti.
Un problema reale riguarda, ad esempio, gli interventi che si
eseguono dopo il 90° giorno di gravidanza nei casi in cui
vengano riscontrati “ processi patologici, tra cui quelli relativi a
rilevanti anomali o malformazioni del nascituro che determinino
un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna “.
Esistono, a questo proposito, due diversi elementi di rischio. Il
primo, che riguarda i tempi dell’accertamento, è un rischio
assolutamente teorico, e ne ho già scritto. Il secondo ha a che
fare con la progressiva scomparsa , nella lettura della norma
giuridica, delle aggettivazioni: le rilevanti anomalie sono
diventate anomalie , il grave pericolo si è ridotto a pericolo tout
court. Il timore è che non si cerchi più, con le varie analisi che la
fisiopatologia prenatale propone, una malattia capace di alterare
profondamente la qualità della vita del bambino, ma
semplicemente una causa di imperfezione, qualcosa che allontani
il bambino dai caratteri idealizzati del figlio immaginario. Questo
problema fa parte della complessa discussione relativa alla
eugenetica positiva migliorativa , un tema che al momento è stato
solo sfiorato dalla bioetica.
Si tratta dunque, ancora una volta, di un problema culturale, e
criticare e offendere le donne perché muoiono di dolore quando
scoprono che il figlio che portano in grembo non è normale (
68
senza saper distinguere una anencefalia da una sindrome di
Klinefelter) è come picchiare un bambino perché non sa leggere
in un Paese che non ha costruito le scuole. E trovo altrettanto
calunnioso accusare queste donne di agire secondo i principi
dell’eugenetica, accusa altrettanto ipocrita quanto stupida, queste
donne non cercano figli perfetti o “migliori”, desiderano, questo
sì, avere un figlio normale. Ma ho sentito un medico cattolico, un
pediatra piuttosto noto, dichiarare pubblicamente che “l’handicap
è bello”, una dichiarazione che non mi pare meriti commenti.
Le tecniche
L’aborto è stato praticato per molti secoli con metodi molto
diversi, correlati soprattutto con l’uso di pozioni e di decotti
preparati utilizzando un grande numero di erbe. Dal punto di
vista meccanico l’interruzione di gravidanza è stata eseguita
soprattutto inserendo sonde nel canale cervicale e perforando le
membrane che avvolgono il feto con differenti strumenti e
lasciando poi che il sopraggiungere di una infezione creasse le
condizioni necessarie per la morte del prodotto del concepimento
e per la sua successiva espulsione. In tempi abbastanza vicini
esistevano donne che riuscivano a compiere da sole questa
operazione utilizzando un ferro da calza. Credo che non ci sia
bisogno di spiegare le ragioni di una così elevata percentuale di
complicazioni , dovute soprattutto al diffondersi dell’infezione o
ai traumatismi : le complicazioni più gravi e più frequenti erano
le pelviperitoniti, le setticemie, le perforazioni dell’utero e i
possibili traumi intestinali che ad esse conseguivano.
Negli ospedali pubblici si eseguivano pochissimi interventi di
interruzione di gravidanza, tutti connessi con una condizione di
necessità, cioè con l’esistenza di un grave rischio per la madre.
L’intervento veniva generalmente eseguito con la classica tecnica
69
della dilatazione strumentale del canale cervicale, eseguita con
l’uso di sonde metalliche di diametro progressivo, o con
l’inserimento di un bastoncino di laminaria digitata, un’alga nota
per la sua idrofilia e che dilatava progressivamente il collo
dell’utero. Successivamente si asportavano i residui abortivi con
l’impiego di pinze ad anelli e si eseguiva il cosiddetto
“raschiamento”, la revisione strumentale della cavità uterina,
utilizzando cucchiai fenestrati con bordo tagliente. Ma l’impegno
più frequente dei medici ospedalieri era quello di completare un
aborto che era stato iniziato altrove. E’ bene sottolineare il fatto
che la maggior parte di questi raschiamenti venivano eseguiti in
assenza di anestesia.
Oggi le tecniche sono migliorate e si può scegliere anche un
metodo di interruzione della gravidanza che sia adatto al periodo
della gestazione.
Se la gravidanza è iniziata da poco, cioè se le settimane di
amenorrea sono meno di sei, la tecnica di elezione è quella
dell’isterosuzione, anche se c’è chi ritiene opportuno, per evitare
insuccessi, attendere almeno l’arrivo della settima settimana.
L’isterosuzione, o aspirazione sotto vuoto, è stata utilizzata per la
prima volta dai medici cinesi alla fine degli anni Cinquanta ed è
poi diventata molto popolare tra i gruppi femministi che
praticavano il self-help e riuscivano a interrompere le gravidanza
senza neppur dilatare il canale cervicale e utilizzando strumenti
di emergenza, come le pompe da bicicletta. Questa tecnica ha
poi trovato ampia diffusione in Russia e successivamente in altri
paesi dell’Europa dell’Est e ora viene praticata ovunque. La
cannula utilizzata per l’aspirazione può essere metallica o di
plastica, di differente diametro, naturalmente cava, con una
apertura ovale posta all’estremità distale che è arrotondata e
chiusa. I margini dell’apertura ovale sono taglienti e possono
essere utilizzati per raschiare la cavità dell’utero dopo che lo
svuotamento è stato completato. La cannula viene collegata
mediante un tubo di gomma a una pompa per aspirazione che
70
fornisce la pressione negativa . All’interno del sistema
pressurizzato vengono interposti contenitori che raccolgono il
liquido amniotico, il sangue e i tessuti fetali e placentari.
D’abitudine si impiegano pompe elettriche ma si possono usare
pompe basate su sistemi idraulici o attivate dagli stessi operatori
a mezzo di un pedale. Se è necessario dilatare il canale cervicale
si può eseguire una anestesia locale, ad esempio con un blocco
paracervicale. ; in molti casi è sufficiente la somministrazione di
un analgesico. Questa procedura, che può essere eseguita
ambulatoriamente o in day-surgery, è quasi sempre preferita
nelle gravidanze giunte alla 6a-8a settimana di amenorrea. Nelle
gravidanze più avanzate è necessario prevedere l’uso di cannule
di diametro maggiore e perciò una maggior dilatazione
cervicale. : in questi casi c’è ancora che preferisce il vecchio
metodo badato sulla dilatazione del canale cervicale e sul
successivo svuotamento strumentale, completato da raschiamento
(quello che gli anglosassoni chiamano D&C, dilatazione e
courettage) . Per raggiungere la dilatazione necessaria, oltre alla
laminaria digitata e ai dilatatori metallici, si può ricorrere
all’inserimento in vagina di candelette contenenti analoghi delle
prostaglandine. In questi casi è spesso opportuna una anestesia
generale .
L’isterosuzione è efficace nel 98% dei casi e ha una percentuale
di complicazioni molto variabile, generalmente compresa tra l’1
e l’8%. Le complicazioni più frequenti sono le emorragie, le
infezioni, formazione di aderenze all’interno della cavità
dell’utero e traumatismi del corpo dell’utero (prevalentemente
perforazioni) e del canale cervicale. Purtroppo le casistiche
pubblicate su questo tema non sono omogenee, perché
considerano in modo diverso il tipo e la gravità degli effetti
collaterali m( ad esempio, non vengono quasi mai presi in esame
gli effetti collaterali dell’anestesia e disturbi considerati banali
come la nausea e il vomito) e questo giustifica la notevole
discordanza tra i dati.
71
Il controllo mestruale
Il controllo mestruale ( o estrazione mestruale, o regolazione
mestruale) è una forma di isterosuzione che può essere utilizzata
sia per rimuovere tutto l’endometrio nel periodo mestruale che
per eseguire una interruzione di gravidanza nelle sue primissime
fasi. Il criterio fondamentale che ispira questa tecnica è la
rinuncia al ricorso di indagini istologiche che possano chiarire se
il materiale asportato è solo tessuto endometriale o se in esso è
contenuto il prodotto di un concepimento. La tecnica è molto
simile a quella che si usa per porre fine a una gravidanza
indesiderata, ma ne differisce notevolmente dal punto di vista
storico, politico e legale: in realtà il metodo è stato proposto da
persone che volevano aggirare le leggi che proibivano di
ricorrere all’aborto volontario ed è stato ed è tuttora utilizzato per
questo specifico scopo.
Nel 1971, due membri di un gruppo femminista che praticava il
self help, Lorry Rothman e Carol Downer modificarono gli
strumenti utilizzati per l’aspirazione manuale sotto vuoto (MVA)
per utilizzarli ad uso clinico. Misero insieme una cannula di
Karman, siringhe, valve e vari tipi di contenitori e li utilizzarono
per estrarre il contenuto uterino, con lo scopo dichiarato di poter
interrompere le gravidanze in un’epoca in cui l’aborto
volonatario, negli Stati Uniti, era proibito.
Per evitare i rigori della legge, le due donne organizzarono un
sistema di aspirazioni del contenuto uterino che poteva essere
attuato da altre donne, non esperte e con una competenza
specifica veramente minima, con interventi reciproci eseguiti
nel periodo perimestruale, senza alcun preliminare controllo
sull’esistenza in quel momento di una gravidanza iniziale. E’
logico che se in quell’utero si fosse appena impiantato un
72
embrione, sarebbe stato estratto insieme al sangue e
all’endometrio, ma in modo fortuito. La Rothman e la Downer
girarono per gli Stati Uniti facendo propaganda alla loro
invenzione e si calcola che in brevissimo tempo furono eseguiti
oltre 20.000 controlli mestruali. Gli ambulatori di self help nei
quali operavano furono perquisiti dalla polizia più volte, nel
corso del 1971, ma l’unico segno di una attività illegale fu un
barattolo di yogurt che veniva usato per curare le vaginiti
micotiche. A causa di questo ritrovamento la Downer fu arrestata
con l’accusa di aver praticato la professione medica pur non
essendo laureata e lo yogurt fu portato in tribunale come prova
del reato. Nel dicembre del 1972 la Downer fu assolta, dopo un
breve processo passato alla storia soprattutto per la scomparsa del
vasetto di yogurt dal commissariato di polizia che lo aveva in
custodia e tutta la storia restò negli annali femministi come “the
great yogurt conspiracy”. Dopo che la sentenza della Corte
Suprema autorizzò l’aborto volontario, un certo numero di donne
americane continuò a utilizzare il controllo mestruale, con la
motivazione che “ un aborto fatto a casa tua dalle tue amiche è
molto migliore di quello eseguito in un qualsiasi ambulatorio
medico” ( anzi il termine esatto è “surgical speakeasy”.
Il controllo mestruale viene comunemente eseguito in molti paesi
nei quali l’aborto è illegale e serve naturalmente per aggirare la
legge: si calcola ad esempio che nel Bangladesh vengano eseguiti
circa mezzo milione di controlli mestruali ogni anno. Ma anche a
Cuba, dove l’aborto volontario è legale, alle donne che hanno un
ritardo mestruale di meno di due settimane si offre un controllo
mestruale, senza alcun test di gravidanza preliminare, una scelta
evidentemente intesa a risparmiare sui costi.
Naturalmente il controllo mestruale ha le sue complicazioni e i
suoi insuccessi, ma dati statistici su di essi non ne troverete da
nessuna parte. Chi lo pratica dovrebbe almeno sapere che ritarda
la diagnosi di gravidanza extrauterina e che non dovrebbe essere
mai eseguito nelle donne che hanno mestruazioni irregolari.
73
Gli aborti tardivi
Interrompere una gravidanza dopo i primi 90 giorni non è più una
cosa semplice e priva di rischi e richiede tecniche diverse e più
complesse. Fino alla ventesima settimana si possono ancora usare
strumenti che consentono di svuotare la cavità uterina dopo aver
provveduto all riduzione dei diametri fetali e aver ampiamente
dilatato il canale cervicale. Più comunemente si usano
prostaglandine, sostanze che possono essere somministrate per
via intramuscolare, introdotte nella cavità amniotica o inserite in
vagina sotto forma di gel o di candelette. Le prostaglandine sono
quasi sempre in grado di indurre l’aborto e di consentire
l’espulsione spontanea – non sempre però completa – del
prodotto del concepimento. In alcuni casi, però, la loro efficacia
si evidenzia solo dopo numerose somministrazioni eseguite
giornalmente. Anche se non sono prive di effetti collaterali,
queste sostanze hanno fatto abbandonare tecniche molto in uso
negli anni passati quali l’introduzione di una soluzione salina o
ipertonica o di urea nella cavità amniotica, tecniche che
necessitano di un’assistenza ospedaliera affidata a mani esperte e,
malgrado ciò, gravate da una elevata percentuale di
complicazioni.
Le prostaglandine sono acidi grassi con 20 atomi di carbonio,
arrangiati a formare un anello ciclopentanico. Le più comuni
prostaglandine naturali sono al PGF2α e la PGE2α che stimolano
le contrazioni dell’utero gravido e che sono efficaci anche a
concentrazioni molto basse. Analoghi delle prostaglandine
vengono così utilizzati sia per ottenere la dilatazione del canale
cervicale sia per indurre le contrazioni uterine necessarie per il
distacco e l’espulsione del prodotto del concepimento. Nella
maggior parte dei casi la procedura di completa entro 24 ore ,
durante le quali si possono verificare effetti collaterali sgradevoli
74
(in particolare nausea e vomito). In molti protocolli l’uso delle
prostaglandine è associato a quello dell’ossitocina, somministrata
per infusione intravenosa lenta. E’ comunque spesso necessario
completare l’espulsione del materiale fetale con una revisione
strumentale della cavità uterina.
I farmaci
Poiché l’impianto dell’uovo e tutte le prime fasi della gravidanza
dipendono soprattutto dal progesterone, l’ormone steroideo che
viene prodotto dal corpo luteo gravidico, è possibile impedire
l’impianto e interferire con l’annidamento e lo sviluppo
dell’embrione somministrando un progestinico che esercita
effetti di inibizione nei confronti dell’ormone naturale essendo in
grado di competere con lui per i suoi recettori senza esercitare
successivamente alcuna azione progestazionale. Sono stati
studiati sperimentalmente un grande numero di steroidi
antiprogesteronici e uno di essi, il mifepristone o RU486, si è
dimostrato molto efficace nell’interruzione delle gravidanze
iniziali e viene utilizzato oggi, in molti paesi, a questo specifico
scopo. L’RU486 viene utilizzato nei primi 56 giorni di
amenorrea , quasi esclusivamente in associazione con le
prostaglandine , che servono per l’espulsione del prodotto del
concepimento dopo che la gravidanza è stata interrotta.. In questo
modo è possibile ottenere l’aborto in una elevata percentuale di
casi senza poi dover eseguire interventi chirurgici
complementari.
Il mifepristone, che è un 19norsteroide, è stato sintetizzato dai
ricercatori francesi della Roussel Uclaf nel 1980 nel corso di
studi sugli antagonisti dei recettori per i glicocorticoidi. I test
clinici relativi alle sue proprietà abortive sono cominciati nel
75
1982 e nel 1988 il Ministero della Sanità francese ne approvò
l’uso, in combinazione per una prostaglandina , con il nome di
Mifegyne. Ottenuta la licenza, ma prima che il farmaco fosse
messo in vendita, la Roussel Uclaf ne annunciò il ritiro,
motivandolo con le forti pressioni subite da parte dei movimenti
pro-vita che minacciavano di boicottare tutti i farmaci prodotti
dall’industria. Due giorni dopo il governo francese,
comproprietario della Roussel Uclaf, intervenne in favore della
ripresa della produzione e della distribuzione del farmaco. Il
ministro della salute, in quella occasione, dichiarò: “Non posso
permettere che il dibattito sull’aborto privi le donne di un
prodotto che rappresenta un progresso della medicina. Dal
momento in cui il Governo francese ne ha approvato l’impiego,
l’RU486 è diventato di proprietà morale delle donne”.
Nel 1990 un gruppo di ricercatori dell’ospedale Necker di Parigi,
dopo aver controllato i risultati relativi all’uso del farmaco in
30.000 donne chiese al Governo francese di ritirarlo
urgentemente: questa richiesta indusse il Ministero della salute a
stilare nuove linee guida che ridussero notevolmente l’incidenza
delle complicazioni.
L’Italia non è mai stato considerato un mercato attraente per la
pillola abortiva, secondo esplicite dichiarazione della Exelgyn, la
casa farmaceutiche che lo produce, che ha sempre lamentato una
sin troppo esplicita ostilità del Vaticano. Etienne Baulieu, il
ricercatore al quale si deve la sintesi del mifepristone, ha
dichiarato in un recente convegno medico: “Quindici anni or
sono ho cominciato a parlare della pillola col Vaticano e con
l’allora cardinale Ratzinger. I contatti sono continuati, ma il
dialogo non ha fatto passi avanti perché dalla Santa Sede ci è
sempre stato detto che la vita va salvaguardata fino dal primo
istante. Noi abbiamo cercato di far capire che questo era un modo
di far soffrire meno le donne… “.
76
Il mifepristone è stato approvato negli Stati Uniti dalla FDA nella
seconda parte della sottosezione H, che riguarda i farmaci per i
quali non solo esistono restrizione nell’uso per ragioni di
sicurezza ma per i quali è anche richiesta una sorveglianza dopo
la messa in commercio per verificare che i risultati ottenuti nei
trials clinici siano confermati da quelli relativi all’impiego
generalizzato. Nel 2004 più del 9% degli aborti eseguiti negli
Stati Uniti sono stati praticati utilizzando il mifepristone.
In Europa solo Irlanda e Polonia hanno vietato l’uso del farmaco.
Se si fa riferimento agli aborti eseguiti entro le prime 9 settimane
di gravidanza, risulta evidente come l’uso del mifepristone sia
particolarmente diffuso: più del 42% in Francia, 42% in
Inghilterra e nel Galles, 77,8% in Scozia, 60,6% in Svezia, più
del 60% in Danimarca.
Nelle altre parti del mondo l’approvazione dell’uso del
mifepristone è relativamente recente: in Australia e in Nuova
Zelanda, malgrado l’assenza di ostacoli giuridici, l’impiego non è
ancora iniziato. In molti altri paesi l’approvazione è giunta dopo
il 2000 e per molti di essi mancano ancora riferimenti clinici
relativi alla frequenza dell’impiego e ai risultati ottenuti.
L’RU486 (o RU 38486) si lega ai recettori per il progesterone
con un’affinità 5 volte superiore a quella dell’ormone maturale.
Una volta legato al progesterone, il mifepristone determina una
down-regulation dei geni progesterone-dipendenti con necrosi
deciduale e distacco del prodotto del concepimento ; oltre a ciò,
agisce sui vasi endometriali, aumenta l’eccitabilità della
muscolatura miometriale e causa dilatazione del canale cervicale.
Si somministra una pillola contenente tra 200 e 600 μg di
mifepristone per os ,seguita dopo 30-60 ore da una
prostaglandina ( sulfostrone, 1 mg in vagina; gemeprost ;
misoprostol,400-600 μg per os in dosi singole o refratte o 800
μg in vagina ). Nel 92-96,5 dei casi si ottiene l’espulsione totale
del prodotto del concepimento; nell’1 –1,5% dei casi la
gravidanza non viene interrotta; nel 3-4% dei casi è necessario un
77
intervento di isterosuzione o un raschiamento. Questi dati
riguardano un ampio studio europeo eseguito entro i primi 49
giorni di gestazione ed è logico che se viene utilizzato in
gravidanze più avanzate – come molti ospedali hanno scelto di
fare – il mifepristone è meno efficace. Uno studio multicentrico
fatto negli Stati Uniti tra il 1994 e il 1995 ha dimostrato una
efficacia leggermente più bassa ( intorno al 92%9) , un dato che è
stato attribuito alla mancanza di esperienza e al particolare
disegno dello studio.
In Europa e in Cina è previsto un periodo di osservazione dopo la
somministrazione del farmaco, una cautela che non viene
consigliata negli Stati Uniti. Molti paesi hanno adottato le linee
guida della Società inglese di ostetricia e ginecologia che
stabiliscono che: - l’aborto medico eseguito con l’impiego di mifepristone e
prostaglandine è il metodo più efficace per interrompere una
gravidanza di meno di 7 settimane; - prima della settima settimana l’isterosuzione dovrebbe essere
evitata; - se si opta per una isterosuzione è opportuno utilizzare un
protocollo molto rigoroso, che includa un accurato controllo
del materiale aspirato e il dosaggio della gonadotropina
corionica nel follow-up, sempre tenendo conto che la
frequenza dei fallimenti è comunque superiore a quella che si
verifica con l’aborto chirurgico; - l’interruzione della gravidanza eseguita con l’impiego del
mifepristone e delle prostaglandine continua ad essere un
metodo appropriato anche per le gravidanze tra la settima e la
nona settimana.
Negli studi clinici quasi tutte le donne che hanno assunto
mifepristone hanno sofferto di dolori e crampi addominali,
emorragie e spotting vaginale per periodi variabili tra 9 e 16
giorni. Circa l’8% delle pazienti ha accusato qualche tipo di
emorragia genitale per 30 o più giorni ; sono inoltre frequenti
78
sintomi come la nausea, il vomito, la diarrea, l’astenia e la
febbre. L’intervento del medico – prevalentemente una
isterosuzione – si rende necessario per la comparsa di vere e
proprie metrorragie e per espulsione incompleta del contenuto
uterino e complessivamente tra il 4 e il 7% delle donne debbono
essere ricoverate per un intervento chirurgico: questi dati sono
diversi da quelli che ho precedentemente riportato perché si
riferiscono a casistiche che comprendono anche gravidanze
interrotte dopo le prime 7 settimane e che naturalmente soffrono
di una maggior frequenza di complicazioni. Esiste sempre un
rischio, generalmente considerato molto modesto, di
complicazioni più severe come le sepsi e lo shock settico e sono
stati registrati alcuni decessi.
Il mifepristone è controindicato in presenza di un IUD, di
insufficienza surrenalica, di disturbi congeniti della
coagulazione, di porfiria, di terapie croniche con anticoagulanti o
con corticosteroidi. Secondo l’FDA dovrebbero essere escluse
dal trattamento anche le fumatrici e le donne di età superiore ai
35 anni.
Il mifepristone può essere utilizzato anche nella contraccezione
di emergenza, per prevenire l’ovulazione: a questo scopo, 10 mg
si sono dimostrati altrettanto efficaci di 600, naturalmente con
minori effetti collaterali. La maggioranza degli studi eseguiti
nella nostra specie dimostra che l’azione è contraccettiva e che
l’inibizione dell’impianto dipende dal dosaggio utilizzato ed è
praticamente costante se si somministrano più di 200 mg.
Altre applicazioni mediche dell’RU486 riguardano il trattamento
dei fibromi dell’utero, dell’endometriosi, delle forme più severe
di depressione con aspetti psicotici, dei meningiomi, dei tumori
del seno, dei tumori ovarici, dei carcinomi della prostata e di
alcune varietà di sindrome di Cushing.
Non sono stati ancora condotti studi a lungo termine per valutare
il potenziale carcinogenetico del mifepristone , che comunque
non è mai emerso, almeno fino ad oggi, dagli studi in vitro, anche
79
se esiste una ricerca sperimentale che ha dimostrato una
connessione con la diminuzione dell’apoptosi nelle cellule
epatiche dei ratti trattati. L’esposizione di ratti appena nati a una
unica dose di mifepristone non ha effetti sull’apparato
riproduttivo . Gli studi sperimentali hanno dimostrato che il
farmaco è teratogeno nel coniglio, ma non nel ratto ; per quanto
riguarda gli studi clinici la percentuale di feti malconformati nati
dopo fallimento di un aborto farmacologico è molto bassa e
sembra comunque dovuta alle prostaglandine.
Una analisi della FDA, pubblicata nel settembre del 2006,
riferisce che a partire dall’anno dell’approvazione del
mifepristone negli Stati Uniti – il 2000 – sono morte 8 donne
negli USA, una in Svezia, una in Canada e due in Inghilterra.
Secondo una agenzia governativa americana la mortalità da
mifepristone raggiungerebbe , negli USA, l’1,39 su 100.000,
certamente maggiore di quella imputabile all’aborto chirurgico
nelle prime otto settimane ( che peraltro, per ammissione della
stessa agenzia, viene calcolata per difetto) e analoga a quella
associata complessivamente a tutti i casi di aborto provocato e a
quelli di aborto spontaneo. E’ anche possibile – ma piuttosto
improbabile – che alcuni casi di morte non siano stati registrati,
ma questo vale anche per le altre tecniche.
Recentemente l’FDA ha pubblicato i particolari relativi a 5
decessi occorsi negli Stati Uniti, tutti associati alla
somministrazione intravaginale di misoprostol, che tra l’altro non
è stata approvata dall’agenzia.
Nel maggio del 2006 gli esperti di microbiologia si sono riuniti
ad Atlanta per discutere delle possibili connessioni tra l’uso
dell’RU486 e le infezioni da Clostridium Sordellii, poiché i 5
casi letali descritti erano tutti collegati con questi microrganismi.
Ora il Clostridium è presente nella flora batterica vaginale del 5-
10% delle donne, una percentuale che aumenta in gravidanza,
mentre le infezioni da clostridium sono molto rare e si verificano
anche dopo parti fisiologici. E’ emersa dalla discussione la
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possibilità che l’uso delle prostaglandine possa determinare una
immuno-soppressione e favorire così le infezioni batteriche.
Secondo altri esperti anche il mifepristone potrebbe avere effetti
negativi sulla risposta immunologia alle infezioni. Una terza
ipotesi chiamerebbe in causa la confluenza di una combinazione
di eventi che favorirebbero le infezioni e il conseguente shock
tossico. In ogni caso è bene che tutti ricordino che si tratta di
numeri molto piccoli e che in questi casi è sempre possibile che
la valutazione statistica dei dati, specie quando deve valutarne la
significatività, è molto fallace. L’ultimo Up-to-date
sul mifepristone, pubblicato dopo l’estate del 2007, afferma che
gli epidemiologi consultati non ritengono che possa essere
considerata significativa la presenza di un numero tanto piccolo
di casi letali e che gli interventi di alcune agenzie a questo
proposito dovrebbero essere considerati atti di terrorismo e
comunque non hanno molto a che are con la ricerca scientifica.
Anche se il mifepristone è utilizzato in modo routinario in molti
paesi, l’Italia non lo ha ancora registrato soprattutto per una fiera
resistenza del mondo cattolico, il quale teme che l’impiego di
questo farmaco incoraggi l’uso dell’aborto per il controllo delle
nascite. In realtà questo non è accaduto altrove e non vedo
proprio perché dovrebbe accadere in Italia. Personalmente credo
che questo genere di timori non tenga in alcun conto il solido
buonsenso delle donne italiane, a nessuna delle quali piace l’idea
di abortire e che non hanno bisogno di esser prese per mano dai
moralisti cattolici per essere portate alla salvezza. D’altra parte
nelle farmacie sono già in vendita le prostaglandine e molte
nuove cittadine le usano per abortire. Nel secolo scorso in quasi
tutte le farmacie italiane c’erano grandi vasi di vetro che
contenevano compresse di apiolo, la sostanza estratta dal
prezzemolo che fa abortire, e non mi consta che moralisti e
carabinieri si siano mai preoccupati di sequestrarle.
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Molte regioni italiane hanno però deciso di consentire
l’mportazione dell’RU486 per impieghi mirati e certamente i
risultati di questo impiego compariranno nella relazione del
Ministro della salute a partire dal 2008. Intanto, nel febbraio del
2008 l’Ru486 ha ricevuto il primo via libera alla
commercializzazione nel nostro paese. La commissione tecnicoscientifica
dell’Agenzia italiana del farmaco ha dato parere
favorevole alla richiesta di autorizzazione al commercio,
attraverso la procedura di mutuo riconoscimento ( che coinvolge
anche altri Paesi europei che sono rimasti ultimi a farne
richiesta, è cioè Portogallo, Ungheria e Lituania). E’ ’il primo
passo sulla strada che potrebbe rendere disponibile il
mifepristone in Italia in tempi relativamente brevi per un impiego
esclusivamente ospedaliero, perché l’iter per l’entrata in
commercio del farmaco è di soli 90 giorni e la procedura si
concluderà dopo un parere del Comitato tecnico- scientifico
seguito dalla ratifica da parte del consiglio di amministrazione
dell’AIFA e dalla pubblicazione del provvedimento di
registrazione nella Gazzetta Ufficiale. Naturalmente
l’utilizzazione del farmaco dovrà essere compatibile e coerente
con la legge 194 e per questo la sua assunzione dovrà essere fatta
rigorosamente in ospedale. E’ dunque evidente che i farmacologi
di tutti i Paesi europei – e non solo europei – considerano il
mifepristone un farmaco utile e con un rapporto costi-benefici
favorevole; dall’altra parte, a definirlo con espressioni roboanti (
pillola morte!) ci sono, al momento, un paio di ragazzotte
incompetenti e un Cardinale.
Altri farmaci che possono essere utilizzati per determinare
l’interruzione della gravidanza sono l’Epostano e il Metotrexate,
Il primo, una molecola steroidea modificata, diminuisce la sintesi
del progesterone dal pregnenolone per inibizione dell’enzima
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specifico ( la 3β olodeidrogenasi); il secondo, un antagonista
dell’acido folico, interferisce con la sintesi del DNA.
Le prostaglandine, che stimolano le contrazioni dell’utero, sono
state utilizzate da sole : il misoprostol, alla dose di 400- 3200 γ,
determina l’aborto solo nel 4-10% dei casi e sempre che la
gravidanza non abbia superato le otto settimane. Questo farmaco,
oltretutto poco costoso, si trova nelle farmacie perché viene
utilizzato come trattamento di prevenzione dell’ulcera peptica
conseguente all’assunzione di farmaci antinfiammatori non
steroidei. L’assunzione di questa prostaglandina è associata alla
comparsa di un gran numero di effetti collaterali, inclusi gravi
incidenti cardiocircolatori. Nel caso di fallimento bisogna poi
tener presente che queste prostaglandine sono teratogene. Di
questo farmaco fanno illegalmente uso molte donne (soprattutto
nuove cittadine immigrate dall’Europa dell’EST) che riescono a
farseòo prescrivere e ne assumono quantità rilevanti :sono già
stati registrati numerosi ricoveri, soprattutto per la comparsa di
complicazioni cardiocircolatorie, ma non mi consta che ci siano a
questo proposito interventi della Magistratura.
I moralisti cattolici equiparano all’aborto i metodi che
impediscono l’impianto nell’utero dello zigote che risulta dall’
avvenuta fecondazione ( una tecnica che definiscono come
intercezione) e quelli che eliminano l’embrione appena
impiantato ( che gli stessi moralisti definiscono contragestione). I
metodi intercettivi apparterrebbero i dispositivi intrauterini, la
pillola del giorno dopo, i progestinici in pillole, le iniezioni e gli
impianti sottocutanei di progestinici. I metodi di contragestione
sarebbero invece rappresentati dai vaccini anti hCG, dal
mifepristone e dalle prostaglandine. Alcuni di questi metodi sono
certamente abortivi e mi sembra un po’ strano definirli con nomi
ambigui. Altri non c’entrano assolutamente niente con l’aborto e
inserirli nella lista degli interventi satanici è insieme il risultato di
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una bieca ignoranza e di una presunzione acritica che solo i
bioeticisti cattolici possono esprimere senza sentirsi ridicoli.
In realtà penso che sia molto difficile essere
contemporaneamente scienziati onesti e bravi cattolici, almeno
da quanto risulta dal lungo dibattito che c’è stato nel Comitato
Nazionale per la Bioetica a proposito della pillola del giorno
dopo, un progestinico a dosaggio relativamente basso che la
morale religiosa condanna e per il quale molti medici e alcuni
farmacisti hanno chiesto di poter opporre obiezione di coscienza.
Il CNB ha optato per la condanna della pillola, basandosi
soprattutto su un presunto effetto di inibizione dell’impianto
dell’embrione ( effetto definito “uccisivo” o “occisivo” dai
cattolici), pur in assoluta assenza di prove scientifiche e cliniche.
Recentemente è stato pubblicato su Human Reproduction
(P.G.I.Laliktumar e coll., 2007,22.2031) uno studio di grande
rilevanza scientifica che ha confrontato gli effetti del
levonorgestrel (la pillola del giorno dopo) e del mifepristone
sull’impianto dell’embrione in utero. Questa ricerca, la prima ad
affrontare in modo diretto il problema, si è valsa di un modello
sperimentale messo a punto dai ricercatori del Karolinska
Institutet di Stoccolma che ha costruito un modello uterino
tridimensionale capace di sopravvivere a lungo in coltura e che
viene preparato coltivando insieme cellule endometriali stromali
ed epiteliali in fase luteale iniziale. La ricerca, che è stata
eseguita utilizzando embrioni umani soprannumerari o congelati
per più di 5 anni, ha dimostrato che solo il mifepristone inibisce
l’impianto della blastocisti e ha confermato quanto già tutti
sapevamo, che cioè il levonorgestrel ha effetti del tutto diversi,
esercitati con ogni probabilità sui meccanismi dell’ovulazione e
della fecondazione dell’oocita. Al momento, purtroppo, non sono
ancora arrivate le scuse dei ricercatori cattolici.
Le complicazioni
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Quando l’aborto viene eseguito da personale esperto in strutture
ospedaliere ,gli effetti collaterali dell’intervento sono abbastanza
contenuti e i rischi, soprattutto quelli a breve termine, facilmente
prevedibili. Quando invece l’interruzione della gravidanza viene
affidata a mani inesperte o viene eseguita in strutture
igienicamente non adeguate, allora le complicazioni divengono
molto più frequenti e, per evidenti ragioni, assai più difficili da
quantificare. Le complicazioni sono comunque in stretto
rapporto, oltre che con l’esperienza dell’operatore e con la
qualità delle strutture mediche,con la tecnica utilizzata e con
l’epoca di gravidanza alla quale l’aborto viene eseguito. Come è
logico, i dati relativi agli aborti eseguiti nei paesi nei quali
l’interruzione di gravidanza è legale non sono noti se non in
misura approssimativa e non possono essere confrontati con
quelli dei paesi in cui l’aborto è proibito dalla legge.
In Italia la mortalità da aborto è molto bassa e diminuisce anno
dopo anno. Nel sito del Ministero della salute italiano di
mortalità da aborto non si parla , ma non sono così ottimista e
così ingenuo da ritenere che ciò corrisponda a un dato reale. Ho
sotto gli occhi una tabella della Svezia – abbastanza vecchia, ma
certamente ancora valida – che denuncia una mortalità da aborto
volontario pari allo 0,9 per 100,000 aborti tra il 1977 e il 1983 e
leggo le dichiarazioni di alcuni esperti che affermano che questo
– 1 o 2 casi di morte ogni 100.000 interventi – è l’obiettivo che
tutti dovrebbero ripromettersi di raggiungere. Leggo anche che il
rischio di morte aumenta del 30% per ogni settimana di
gestazione, cosa che dovrebbe convincere tutti che , una volta
che la decisione è stata presa, l’intervento dovrebbe essere
considerato urgente e che parla in favore di una modificazione
sostanziale della norma che prevede la obiezione di coscienza,
responsabile di enormi ritardi nell’esecuzione degli interventi in
molti ospedali.
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Le cause più frequenti di morte sono rappresentate da infezioni,
embolie ed emorragie, nonché da complicazioni dell’anestesia.
Naturalmente la mortalità da aborto è più alta quando
l’interruzione viene eseguita per motivi medici , perché in questi
casi si deve tener conto delle complicazioni dovute alla malattia
di base.
Non è stato ancora trovato un metodo attendibile per calcolare la
mortalità da aborto illegale, così che le stime che si trovano nella
letteratura medica dono tutte molto diverse tra loro e debbono
essere considerate poco attendibili. Facendo una media tra i dati
che ho potuto trovare – e dopo aver scelto con cura i dati
bibliografici più attendibili – credo che sia verosimile accettare
una cifra pari a 500 morti ogni centomila interruzioni di
gravidanza, una ogni cento interventi . Poiché gli aborti illegali
ammontano a decine di milioni, è molto probabile che le vittime
di questi interventi siano tra le 100.000 e le 200.000 ogni anno.
Sempre nel nostro paese, le complicazioni precoci dell’aborto (un
termine con il quale vengono generalmente indicati solo gli
effetti collaterali di una certa gravità) sono generalmente
comprese tra il 3 e il 5 per mille, un dato molto simile a quello
denunciato dagli altri paesi. Il rischio è generalmente più elevato
per le gravidanze interrotte in epoca più avanzata ; le
complicazioni più frequenti riguardano le perforazioni dell’utero,
i traumi e le lacerazioni cervicali , le sepsi,e le emorragie;
frequenti anche le ritenzioni di materiale abortivo e non rari i
fallimenti totali dell’intervento, che non porta a termine lo scopo
che si era prefisso, quello di interrompere la gravidanza. E’
opinione diffusa che alcuni dati non vengano registrati nelle
cartelle : accede ad esempio con una certa frequenza che le donne
rientrino in ospedale dopo circa un mese dall’intervento
accusando perdite ematiche atipiche, talora maleodoranti e
vengano sottoposte a revisioni strumentali della cavità uterina. Di
questi interventi non c’è quasi mai traccia nelle statistiche.
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Quali e quanti siano le complicazioni degli aborti illegali non lo
sappiamo, possiamo solo dedurlo valutando il numero di ricoveri
ospedalieri e la mortalità in gravidanza dei paesi nei quali
l’aborto non è stato legalizzato. Ma la maggior parte delle donne
si cura a casa e si fa ricoverare in ospedale solo se c’è costretta.
Anche per le sequele tardive dell’aborto abbiamo informazioni
incerte e incomplete: esistono forma di patologia ginecologica
che vengono addebitate all’intervento abortivo in modo acritico e
spesso poco verosimile e ci sono conseguenze che sono molto
probabilmente, ma solo molto probabilmente, correlate con
l’aborto, e noi sappiamo che questa correlazione non saremo mai
in grado di dimostrarla.
La sequela tardiva che mi viene in mente per prima è comunque
la perdita della fertilità meccanica, che ha un preciso rapporto
statistico con l’aborto, sia volontario che spontaneo. La sterilità
secondaria, quella che si manifesta dopo una gravidanza,
comunque questa si sia conclusa, è frequentissima sia nei paesi
nei quali è molto diffuso l’aborto clandestino sia in quelli nei
quali l’assistenza al parto avviene in ambienti igienicamente
impropri. In questi casi le indagini laparoscopiche mostrano,
almeno nella maggior parte dei casi, gli esiti di una flogosi
pelvica pregressa.
Un’altra complicazione possibile, ma certamente meno frequente
della precedente, è la sindrome di Asherman, che consiste nella
formazione di sinechie uterine, tralci aderenziali che connettono
le opposte pareti della cavità e che possono arrivare, nei casi
limite, ad occluderla completamente. La sindrome di Asherman è
prevalentemente iatrogena e la responsabilità del medico consiste
generalmente nell’aver eseguito un raschiamento con eccessiva
energia, denudando due parti contrapposte della cavità, parti che
finiscono per collabire e saldarsi tra loro. E’ una complicazione
certamente più frequente nei casi di aborto settico essendo più
facile danneggiare una cavità infetta, e ciò fa immaginare che la
sua frequenza sia sostanzialmente maggiore nei casi di aborto
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illegale. Solo a una parte di queste sindromi si può porre rimedio
con interventi chirurgici isteroscopici.
Le dilatazioni traumatiche – eseguite con eccessiva energia,
troppo rapidamente o con dilatatori di diametro eccessivo – sono
responsabili dell’insufficienza cervico-segmentaria,
l’incompetenza cervicale che predispone all’aborto spontaneo nel
secondo trimestre di gravidanza, quando l’orifizio interno del
canale cervicale prima e poi tutto il collo dell’utero non sono più
capaci di sostenere l’aumento di pressione che è determinato
dalla gravidanza in evoluzione e cede, più o meno
improvvisamente. Sono aborti tardivi, che si verificano senza una
sintomatologia dolorosa premonitrice e che portano a una rapida
espulsione del feto. In questi casi, si possono eseguire interventi
preventivi ( i cosiddetti cerchiaggi) che hanno buone probabilità
di successo, mentre molto meno efficaci sono gli interventi “a
caldo”, eseguiti quando l’insufficienza si è già manifestata.
Alcune casistiche denunciano un aumento delle gravidanze extrauterine
nelle donne alle quali è stato procurato un aborto. E’ una
complicazione possibile, considerata la relazione esistente tra le
gravidanze tubariche e gli esiti delle flogosi pelviche.
Nei casi in cui la gravidanza viene interrotta nelle prime due
settimane di amenorrea non si verificano isoimmunizzazioni Rh;
via via che aumenta l’amenorrea diventa sempre più probabile
che nel corso dell’intervento si determini il passaggio di globuli
rossi Rh positivi nel sangue della madre Rh negativa e che a ciò
consegua la produzione di anticorpi anti Rh. Questo rischio può
naturalmente essere eliminato somministrando alla madre, subito
dopo l’aborto, immunoglobuline specifiche anti-Rh.
Negli ultimi trent’anni, le tecniche di procreazione medicalmente
assistita e, soprattutto, le terapie di induzione dell’ovulazione con
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gonadotropine hanno determinato un enorme aumento delle
gravidanze multiple: l’incidenza delle gravidanze trigemine o di
ordine superiore è aumentata di quasi 10 volte rispetto al passato.
Queste gravidanze sono associate a un aumento della mortalità
materna e soprattutto a un aumento della morbilità e della
mortalità perinatale legata soprattutto alla elevata incidenza dei
parti pretermine. . E’ pur vero che l’imperativo è quello di evitare
l’insorgenza di gravidanze multiple, ma cosa si può fare una
volta che si sono instaurate? Una possibile strategia è
rappresentata dalla riduzione embrionaria selettiva.
Il primo intervento di questo genere è stato eseguito nel 1978 da
A.Aberg in una gravidanza gemellare per interrompere lo
sviluppo di uno dei due feti che era affetto da sindrome di
Hurler.Da allora gli interventi si sono moltiplicati e si sono
moltiplicate anche le tecniche proposte. Una delle prime
procedure introdotte è stata l’aspirazione transcervicale di uno o
più sacchi, dopo aver dilatato il canale cervicale. Attualmente le
tecniche più utilizzate sono quelle che prevedono un approccio
transaddominale e un approccio transvaginale, sotto controllo
ecografico. Con queste tecniche viene iniettato circa 1 ml di una
soluzione ipertonica di cloruro di potassio nella cavità toracica
del feto. ; nelle fasi iniziali della gravidanza questa tecnica può
essere sostituita dall’aspirazione diretta dell’embrione. In verità è
preferibile eseguire questi interventi alla 11a-12a settimana in
modo da poter eseguire preliminarmente un’indagine genetica sui
villi coriali. Sempre nel caso di gravidanze multiple, qualora uno
dei feti risulta gravemente malformato, si può procedere alla
chiusura del suo cordone ombelicale, un intervento che è
possibile eseguire utilizzando il fetoscopio.
I vantaggi maggiori della riduzione fetale si hanno nei casi di
gravidanza quadrigemina o di ordine superiore, ma anche nelle
gravidanze trigemine sembra che i benefici superino i rischi
dovuti alla tecnica per sé. Dopo l’intervento la percentuale di
aborti spontanei varia dal 2 al 15%. In Italia questa riduzione
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continua ad essere eseguita ed è frequentemente proposta nei casi
nei quali uno dei feti sia risultato affetto da anomalie genetiche.
Viene contestato da alcuni il fatto che l’intervento venga
generalmente eseguito senza sottostare a tutte le regole imposte
dalla legge 194. C’è anche molta bibliografia relativa ai danni
psicologici subiti dalle madri che si sottopongono a questi
interventi e che sono chiamate ad approvare una scelta
certamente molto difficile.
Conclusioni
Mi sembra evidente che il problema dell’aborto è il problema
centrale della pianificazione della famiglia nel mondo. Mi
sembra anche ormai chiaro che anche i cattolici più ortodossi
hanno capito che non si possono avere tutti i figli che il destino
sarebbe disponibile a inviarci ( si potrebbe dire che non tutto
quello che è naturalmente possibile è umanamente accettabile).
La scelta di un controllo delle nascite basato sul ritmo è
comunque la scelta di un mezzo anticoncezionale , separa la vita
sessuale da quella riproduttiva, anche se per strani motivi non è
considerata una offesa della dignità della procreazione , ma, al di
là di tutto, la maggioranza dei cattolici l’ha ripudiata. Molti di
noi si chiedono cosa potrebbe accadere se potessimo disporre di
una anticoncezione migliore, se nelle scuole si insegnasse
educazione sessuale, se esistesse un minimo di giustizia sociale.
Diminuirebbero gli aborti? Molto probabilmente sì.
Scomparirebbero? Molto probabilmente no. Vale ugualmente la
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pena di battersi per una diffusione della cultura, per un
miglioramento delle tecniche, per una società più giusta? Sempre
a mio avviso, sì.
Molte donne continuano a sostenere il principio
dell’autodeterminazione, per molti è un problema di libertà e di
diritti che riguarda tutti i cittadini, non solo le donne. Quella
dell’interruzione volontaria della gravidanza, è in ogni caso una
storia di straordinaria tristezza. L’aborto è sempre stato una sorta
di ombra nera che ha seguito le donne nel loro percorso di vita,
da sempre, qualche volta uccidendole, sempre riempiendole di
angoscia, mai realmente scelta o diritto, sempre destino doloroso.
Stabilire il terreno dello scontro ideologico sul terreno dei valori
è assurdo, significa stabilire l’esistenza di criteri dogmatici per
giudicare le scelte dei cittadini, secondo la mia morale tu sei un
assassino, la mia morale ti condanna, nessuna compassione,
nessuna capacità di ascolto. I valori – lo scrive Gustavo
Zagrebelsky- sono tirannici, contengono una dimensione
totalitaria che annulla ogni propensione contraria e si combattono
reciprocamente fino a che uno solo prevale sugli altri. Il
principio invece è un bene iniziale che chiede di realizzarsi
attraverso attività che prendono da esso avvio e che si sviluppano
di conseguenza; inoltre i principi non contengono una
dimensione totalitaria, e quando una stessa questione ne
coinvolge più di uno possono bilanciarsi, combinarsi in maniera
che ci sia posto per tutti. Chi si ispira all’etica dei principi sa di
dover essere tollerante e aperto alla ricerca della giustizia
possibile, una giustizia che spesso si identifica con la capacità di
individuare la minor quantità possibile di ingiustizie. In nome di
questa morale, che non concede nulla all’assolutismo e che non
ha niente da spartire con il relativismo, si può affermare che nella
questione dell’aborto ci sono due principi, che equivalgono a due
diritti: quello alla vita del feto e quello alla libertà e alla salute
della donna. e il confronto tra diritti, come quello tra principi,
consente di stabilire priorità, evita che il Paese si spezzi in due.,
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come sta avvenendo, come certamente avverrà se l’attuale
crociata delle gerarchie ecclesiastiche contro le donne, contro la
scienza e contro la laicità continuerà con lo stesso impeto
impietoso. Ci sono certamente casi in cui occorre operare in
modo da salvare sia la vita e la salute della madre che la vita del
feto. Quando questo non è possibile, quando i due diritti entrano
in collisione, prevale il principio secondo il quale deve prevalere
l’interesse e la salute della donna ( che è già persona) rispetto al
diritto alla vita del concepito, ( che persona deve ancora
divenire). Non c’è alcun accenno, come si vede, al diritto
potestativo della donna di interrompere la gravidanza né al suo
eventuale dovere di portarla a termine, un modo per evitare il
conflitto, un giusto tentativo di mediazione. Come giustamente
ha scritto Piero Ostellino, il pluralismo dei valori esclude che
tutte le questioni morali abbiano una sola risposta corretta ,
riconducibile ad un unico sistema etico, una definizione in cui si
concreta la differenza tra Chiesa e Stato, tra peccato e reato, cioè
il concetto di laicità. E, scrive ancora Gustavo Zagrebelsky, in
molte circostanze è la gravidanza stessa ad avere un forte
contenuto di violenza, tutta esercitata contro la donna , quando ne
minaccia la salute, del corpo e della mente, e quando induce
sentimenti di sopraffazione, di colpa, di indigenza, di solitudine e
di abbandono. La donna incinta, continua Zagrebelsky, è
l’orgoglio della società di cui è parte, ma nelle situazioni
anormali può diventarne la vergogna e il peso, al punto da essere
tenuta ai margini e mal tollerata. La parola dominante, in questo
gioco, è dunque la violenza: violenza della natura sulla società,
della società sulla donna, della donna sul proprio grembo, che si
tratti di una cosa o di un figlio potrà deciderlo solo dopo molta
sofferenza e molte umiliazioni.
Non è disonorevole cercare compromessi, una società composita
come la nostra, oltretutto continuamente stimolata al litigio da
una Chiesa prepotente e incapace di compassione, ne deve
cercare continuamente. Sarebbe però disonesto tacere il fatto che
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per me e per molte persone come me accettare questo
compromesso è come trangugiare un po’ di veleno, e purtroppo
su questi temi non c’è mitridatismo. La mia convinzione è che
esiste un preciso diritto all’autodeterminazione della donna e che
non esiste un figlio, nel suo grembo, se lei non lo riconosce come
tale. Del resto siamo anche tutti convinti che la legge 194, che
consideriamo una buona legge, è anche una legge
fondamentalmente ipocrita, che ha rappresentato e rappresenta il
più alto compromesso possibile in un Paese nel quale, per ragioni
storiche, il problema dell’aborto potrebbe diventare con facilità
una ragione di conflitti ancora più dilanianti.
Ma quanto è realmente buona questa legge? Il 25 febbraio del
2008 la FNOMCeO ( Federazione Nazionale degli Ordine dei
Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) ha reso pubblico un
documento sui problemi connessi alla procreazione, alla
contraccezione e alla interruzione della gravidanza . Si legge nel
documento che si possono mettere in evidenza luci e ombre sullo
stato di applicazione della legge 194: è soprattutto
insoddisfacente l’attività consultoriale e sono evidenti forti
carenze organizzative dovute soprattutto al grande numero di
medici obiettori. D’altra parte, continuano i medici, non possono
essere ignorate né la sostanziale scomparsa dell’aborto
clandestino, né la sostanziale riduzione del numero degli
interventi, diminuiti, dopo 30 anni, del 46%. Questi risultati
confortano il grande valore civile e sociale della legge che, a
distanza di tanti anni, dimostra tutta la solidità e la modernità del
suo impianto tecnico-scientifico, giuridico e morale.
Questo documento è stato molto contestato dai medici cattolici
che hanno sostenuto – ed è probabile che abbiano ragione – che
in realtà si tratta di una relazione che non è stata sottoposta al
voto (e non è stata perciò approvata) e che ignora la posizione di
un buon numero di professionisti che, in materia, ha opinioni
molto diverse. E se anche fosse vero? E’ comunque giusto che
su questo problema intervenga, con cattiveria e prepotenza, il
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Magistero cattolico, ponendo le basi di un conflitto tra i medici
che potrebbe avere esiti molto sgradevoli? Qualcuno pensa che
lavorare al fianco di un collega che ti considera un assassino e
che tu consideri un disonesto sia privo di effetti? E in ogni caso,
cosa c’è di falso nelle dichiarazioni del documento?
Mi sono personalmente adoperato, per una buona parte della mia
vita, perché anche nel nostro paese si arrivasse ad approvare una
legge che consentisse la legalizzazione dell’aborto volontario. Mi
hanno sempre sollecitato a farlo due considerazioni: la prima che
l’alternativa ad abortire non è non abortire, ma abortire
clandestinamente, con tutti i rischi che dipendono dall’aborto
clandestino e con in più la profonda ingiustizia di esporre ai
rischi maggiori le donne più indigenti. La seconda
considerazione riguarda la mia personale convinzione che
decidere se portare a termine una gravidanza, in tutte le
circostanze nelle quali esistono gravi difficoltà di ordine
personale, familiare e sociale, lo può fare solo la donna. Del resto
a chi mi ha chiesto quando comincia, secondo me, la vita
personale di un embrione, ho sempre dato la stessa risposta:
quando viene accettato come figlio dalla donna che lo porta in
grembo.
Ricordo bene quei giorni, quelli della legge e quelli del
referendum, straordinari, chi è chiamato a battersi per i diritti di
tutti , ha un grande fuoco dentro di sé, sciogliere la propria libertà
nella libertà degli altri è un momento molto bello, vale una vita.
Sono passati molti anni da quei tempi, la legge che siamo riusciti
a far approvare è sotto un nuovo, durissimo attacco la mia
impressione – a la mia paura – è che non ci sia una reazione
adeguata delle donne, soprattutto delle donne giovani. Temo che
le ragazze nate dopo il 1978 siano convinte che i diritti acquisiti
dono definitivi, nessuno te li può più toccare, e non si rendano
ben conto di quanto sta accadendo. In realtà, basta dormire un
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po’ più a lungo che quando ti svegli i tuoi diritti non ci sono più,
qualcuno te li ha rubati, i ladri sono dappertutto.
Detto questo, sono anche dell’opinione che è compito dello stato
portare a compimento una vera campagna antiabortista,
eliminando le motivazioni sociali che sono così spesso causa di
aborto volontario, facendo promozione di cultura sui temi della
pianificazione della famiglia, investendo nella ricerca scientifica
sugli anticoncezionali, convincendo i giovani che l’esercizio
della libertà sessuale, a proposito del quale non credo che
esistano più riserve di sorta, non può essere dissociato da una
assunzione di responsabilità nelle quali ogni persona deve
cimentare la propria coscienza. Tutto questo, a mio personale
avviso, si chiama prevenzione dell’aborto.
Esiste, lo so bene, un altro concetto di prevenzione secondo il
quale sarebbe necessario inserire nei consultori familiari gruppi
di volontari che avrebbero l’unica funzione di dissuaderle dal
portare a compimento la propria scelta. Questo concetto nasce
dalla supposta presenza, nella legge 194, di una “preferenza per
la nascita” dalla quale discenderebbe la legittimità di una
prevenzione post-concezionale dell’aborto. Su questo concetto si
basa il tentativo, del quale esistono già alcuni esempi, di ottenere
un sistema di convenzione con il volontariato cattolico da parte
degli enti locali, eventualmente in accordo con i consultori, una
richiesta che in genere si accompagna a quella di riformare i
consultori, secondo il modello proposto dalla Germania.
Leggo queste proposte da molto tempo e ormai non mi
sorprendono più: non mi ha particolarmente sorpreso neppure il
fatto che nella Clinica Ostetrica dell’Università di Milano uno di
questi ambulatori cattolici è stato aperto di fianco alla porta della
segreteria alla quale le donne si rivolgono per mettersi in nota per
una interruzione di gravidanza. E’ vergognoso, ma non mi
stupisce. Non mi stupisce più il fatto che ci sia tanta gente che ha
tanto poco rispetto per la capacità delle donne di pensare e di
decidere con la propria testa e tanta diffidenza per le strutture
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socio-sanitarie da ritenerle incapaci di svolgere il compito loro
affidato. Non mi sorprende il fatto che esistano tanti cattolici che
non si rassegnano a vivere in uno stato laico.
Mi stupisce invece – invecchiare evidentemente non mi ha
insegnato molto – l’idea che esista qualcuno che vuol costringere
le donne a comportarsi secondo i propri principi morali
sottoponendole al giudizio umiliante e intimidatorio di un
tribunale religioso, sgradevole e dogmatico quanto è possibile
esserlo, anche se mascherato da laboratorio di buoni consigli e di
buone intenzioni. Credo di sapere perché mi stupisco: in fondo,
l’idea che mi sono fatto dei cattolici è molto migliore.
Testi consultati
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