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Carlo Flamigni: “l’aborto, problema sociale, male inevitabile”

  • di



CARLO FLAMIGNI
L’ABORTO , UN PROBLEMA SOCIALE
Un male inevitabile


Nessuno sa con certezza quanti aborti vengano procurati ogni
anno nel mondo : dati recenti parlano di 55 milioni, che
corrispondono a 70 per 1000 donne in età riproduttiva e a 300 per
1000 gravidanze. Anche se questi dati sono molto
approssimativi, è probabile che essi diano almeno un’idea di
quanto accade nella realtà. E poiché la maggior parte degli aborti
viene eseguita illegalmente, ne risulta che ogni giorno più di
150.000 donne si sottopongono a interruzione della gravidanza in
condizioni non igieniche, rischiando gravi complicazioni – e
spesso persino la morte – piuttosto che portare a termine la
gestazione.
Il ruolo dell’aborto nel controllo della crescita della popolazione
è stato oggetto di molte ricerche. Nel 1964 Mumford e Kessel
hanno messo a confronto aumento della popolazione e
percentuale di aborti in 116 dei più grandi paesi del mondo. Ogni
paese è stato classificato in base alla percentuale di aborti (molto
alta, alta, modesta, bassa) ; all’interno di ciascun gruppo è stata
poi calcolata la percentuale di donne in età compresa tra i 15 e i
44 anni che faceva uso di contraccezione. Nella valutazione
finale i due studiosi hanno poi tenuto conto del tasso di
incremento naturale della popolazione, della suddivisione della
popolazione per classi di età e della mortalità infantile, calcolata
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come percentuale di bambini che muoiono prima dei 5 anni. La
conclusione è stata che la disponibilità dell’aborto – cioè la
possibilità di poter contare sull’aborto legalizzato – era
essenziale ( le cose sembrano cambiate da allora, anche se
probabilmente in modo non sostanziale) per il controllo della
crescita della popolazione con due sole eccezioni, l’Irlanda e la
Svizzera. L’aumento della popolazione non è solo funzione
dell’uso degli anticoncezionali e della disponibilità dell’aborto,
ma anche della distribuzione della popolazione per classi di età e
della mortalità infantile. L’uso di anticoncezionali è condizione
necessaria, ma non sufficiente, per una bassa crescita della
popolazione e nello stesso modo una elevata percentuale di
aborti rappresenta una condizione necessaria. ma ancora una
volta non sufficiente per ottenere una crescita controllata della
popolazione.
Questi dati riguardano il 1964, più di 40 anni or sono, e
certamente non possono essere considerati attuali. Di tutti i
mutamenti occorsi, quello che ha inciso maggiormente sulla
frequenza delle interruzioni volontarie delle gravidanze è stata la
disponibilità di anticoncezionali sicuri, come la pillola, e
soprattutto la diffusione di una cultura specifica sui temi della
riproduzione e dei rischi connessi con la vita sessuale. Ciò
emerge molto chiaramente, come vedremo, dai dati relativi al
numero e alla frequenza degli aborti volontari nel nostro paese e
dal notevole impatto che su questi dati ha avuto l’arrivo di un
grande numero di nuove cittadine provenienti dall’Africa e
dall’Asia.
E’ vero infatti che molti paesi in via di sviluppo si trovano di
fronte a grossi ostacoli che riguardano proprio il controllo delle
nascite: molti di essi, infatti, per portare il proprio tasso di
crescita al di sotto dell’1% dovrebbero affidarsi all’aborto in
misura maggiore di quanto facciano i paesi industriali per una
serie di ragioni:
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  • la popolazione giovane contribuisce sostanzialmente alla
    crescita della popolazione, e questo problema non è
    modificabile perché la maggior parte delle donne che avranno
    bambini intorno al 2020 è già nata;
  • l’uso di anticoncezionali dipende sia dalla attitudine e dalle
    motivazioni delle persone in età riproduttiva che dalla
    diffusione dei servizi di pianificazione familiare; entrambi
    questi fattori possono essere influenzati dalla politica, ma nei
    paesi in via di sviluppo ciò avviene con particolare difficoltà,
    per la mancanza dei benefici connessi con lo sviluppo, che si
    possono identificare nei trasporti, nelle comunicazioni, nei
    sistemi di insegnamento e, in modo più generale,
    nell’educazione. Le donne di questi paesi non sono motivate
    ad avere famiglie poco numerose e la maggior parte di loro
    non fa uso di anticoncezionali e soprattutto non fa uso, non
    conosce o non accetta di usare anticoncezionali efficaci. Lo
    stesso metodo contraccettivo risulta molto meno utile nelle
    società in via di sviluppo di quanto non lo sia nelle società
    industriali.
    Dunque, gran parte dei paesi in via di sviluppo, se volessero
    controllare in modo efficace l’aumento della popolazione
    (controllo che è considerato molto utile anche sul piano
    economico) dovrebbe consentire ai cittadini un più facile accesso
    alle interruzioni di gravidanza, cosa che potrebbe risolvere solo
    in parte la mancanza di servizi di pianificazione familiare e le
    gravi carenze nell’educazione. E poiché oltretutto molte nazioni
    hanno deciso di non legalizzare l’aborto volontario per motivi
    religiosi, ne consegue che per loro assume particolare
    importanza la diffusione dell’aborto clandestino e la disponibilità
    di metodi alternativi.
    E’ di qualche interesse, a questo proposito, la tecnica definita
    “del controllo mestruale”, abbastanza diffusa nei paesi nei quali
    l’aborto è illegale ma dove le autorità di polizia sembrano
    accettare una sorta di compromesso, altrettanto pragmatico
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    quanto ipocrita, che consiste nel chiudere entrambi gli occhi sulle
    interruzioni illegali di gravidanza purché non vengano chiamate
    aborti. Questo metodo, oltre a sfuggire ai controlli della
    giustizia, trova una sorta di accettazione sociale in molte aree
    geografiche, un consenso acritico che generalmente precede
    l’approvazione morale.
    Moralmente, non c’è bisogno di dirlo, l’aborto non sembra avere
    molte giustificazioni, soprattutto quando si tratta di aborti tardivi
    che riguardano feti già molto vicini alla possibilità di vita
    autonoma. Ne consegue che assumono grande rilievo le ragioni
    che inducono a chiedere l’interruzione della gravidanza, che
    evidentemente non possono essere futili né conseguire a scelte
    capricciose e che soprattutto non debbono avere niente a che fare
    con la contraccezione e con il controllo delle nascite.
    D’altra parte, delle molte teorie sull’inizio della vita personale,
    sono ben poche quelle che non considerano persona un feto che
    ha superato il terzo mese di sviluppo intrauterino. Ecco perché il
    controllo mestruale, che è causa di interruzione delle gravidanze
    in epoca precocissima, in una situazione che a molti appare
    “pre-umana” dello sviluppo embrionale, sembra creare minori
    controversie.
    Per quanto mi è dato capire, l’interruzione volontaria della
    gravidanza viene considerata un male inevitabile, utile per le
    coppie che vedono fallire le loro precauzioni anticoncezionali e
    svanire il loro progetto di famiglia, indispensabile per i governi
    che debbono fare i conti con le disastrose conseguenze di una
    crescita incontrollata della popolazione. Si possono disegnare
    due tipi di società che possono fare a meno dell’aborto: la prima
    è una società nella quale ogni bambino che nasce è benvenuto,
    anche se sottrae il cibo necessario per la sopravvivenza dei
    fratelli; la seconda è una società nella quale ha avuto successo la
    diffusione della cultura, per cui tutti i cittadini sentono il peso
    della responsabilità sociale connessa con la vita sessuale e sanno
    utilizzare con discernimento i metodi anticoncezionali che la
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    scienza (che rappresenta il loro maggiore investimento e che è al
    loro servizio) mette a disposizione. Che poi luoghi come quelli
    descritti esistano veramente è un’altra faccenda.
    Quale sia la politica che i governi dovrebbero attuare per ottenere
    il miglior controllo possibile della crescita della popolazione è
    oggetto di controversie. Ad esempio le agenzie occidentali che si
    occupano del family planning ritengono che il modo migliore sia
    quello di sollecitare l’impiego di metodi anticoncezionali sicuri,
    arrivando molto vicini a una vera e propria imposizione,
    realizzata mediante pressioni di vario genere. Questa teoria si
    basa soprattutto sulla convinzione che la povertà di molti paesi
    è causata dall’eccesso di popolazione , ipotesi che ha giustificato
    l’invio, nei cosiddetti “paesi del terzo mondo”, di esperti del
    controllo delle nascite, veri e propri missionari al servizio del
    preservativo e della spirale. Chi governa questi paesi è invece
    convinto dell’inutilità di queste pressioni che inducono i cittadini
    a scegliere modelli e stili di vita in contrasto con la loro cultura,
    e, rovesciando i termini del problema, sostiene che l’eccesso di
    popolazione di molti paesi è la diretta conseguenza della loro
    povertà . Del resto non può essere casuale il fatto che gran parte
    dei tentativi fatti dalle associazioni mediche che hanno lavorato
    per le agenzie di family planning sono falliti. E’ noto – anche per
    esser stato il soggetto di un libro – il clamoroso insuccesso di un
    gruppo di medici e di paramedici americani che spesero più di tre
    anni ad insegnare tecniche contraccettive agli abitanti di un
    villaggio dell’India settentrionale e tornarono in patria solo dopo
    aver potuto constatare l’assoluta scomparsa di donne gravide .
    donne che in realtà erano state allontanate ed eventualmente
    scambiate con donne non gravide dei villaggi vicini e che
    rientrarono prontamente nelle loro case appena furono certe della
    partenza degli stranieri.
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    Le gravidanze indesiderate
    Ma questo è un problema che riguarda la politica e che non
    desidero trattare in questo libro. Voglio invece parlare
    brevemente del problema che mi sembra maggiormente collegato
    con l’aborto, che è quello delle gravidanze indesiderate.
    Le soluzioni proposte per risolvere questo problema – le
    gravidanze indesiderate ci sono sempre state e hanno sempre
    messo in grave imbarazzo le donne e le loro famiglie – sono
    molto diverse : le differenti culture hanno talora imposto, talora
    tollerato, scelte come il matrimonio riparatore, l’offerta del
    bambino per l’adozione, l’interruzione della gravidanza,
    l’infanticidio. E’ logico che per le ragazze nubili c’è sempre
    stata la possibilità di tenere il bambino, scelta relativamente
    semplice in alcuni contesti sociali, praticamente impossibile in
    altri.
    Per la giovane donna che scopre di essere incinta, il matrimonio
    rappresenta una scelta piuttosto frequente. Negli Stati Uniti, la
    sposa è già gravida, quando sale all’altare, una volta su tre e i
    problemi semmai vengono in seguito vista l’elevata incidenza di
    separazioni e di aborti volontari e considerando il fatto che per
    molte ragazze questo matrimonio non pianificato finisce col
    rappresentare un ostacolo per la carriera ed è spesso causa di
    frustrazione. Forse le cose andavano meglio nella Romagna nella
    quale sono nato, nella quale le gravidanze sono sempre state
    molto meno indesiderate di quanto un osservatore esterno potesse
    immaginare.
    La decisione di portare a termine la gravidanza e di offrire il
    bambino in adozione è divenuta meno frequente nei paesi nei
    quali è stato legalizzato l’aborto, ma resta la scelta prevalente in
    quelli nei quali questi bambini hanno un valore economico, cosa
    che sa bene chi si rivolge all’adozione internazionale. In linea di
    principio sembra però che questa esperienza sia tutt’altro che
    positiva per la madre biologica, il che rende poco accettabili le
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    proposte di adozione prenatale avanzate soprattutto da alcuni
    movimenti cattolici per cercare di diminuire l’incidenza degli
    aborti volontari.
    L’infanticidio
    La soluzione di gran lunga più utilizzata resta comunque quella
    dell’interruzione della gravidanza, e ciò malgrado l’aggressività
    con la quale i membri di alcune sette religiose si sono accaniti nel
    tentativo di contrastarla. Ma per un numero incalcolabile di anni
    e per nostra comune vergogna, la soluzione più comune è stata
    quella dell’infanticidio. Penso che debba essere ben chiaro che
    non ritengo che ci dobbiamo vergognare delle scelte fatte dai
    nostri antenati in epoche tanto lontane, povera gente obbligata a
    comportarsi seguendo regole dettate dalla necessità e per le quali
    non esistevano alternative. Mi vengono invece in mente gli
    infanticidi commessi in epoche molto più recenti, che certamente
    avrebbero potuto essere evitati se solo le società nelle quali
    quegli uomini e quelle donne vivevano fossero state più giuste.
    Ha poco senso parlare di genitori e di figli riferendosi a tempi
    che hanno preceduto il momento in cui l’uomo ha scoperto la vita
    associativa. Come e quando questa scoperta sia stata fatta e quali
    vantaggi gli uomini vi abbiano scorto, non lo so. Mi vengono
    però in mente le impronte lasciate in Tanzania, tre milioni e
    mezzo di anni or sono, da un gruppo di individui certamente
    molto simili a noi: orme nitide di due adulti e di un essere più
    piccolo che camminavano insieme, vicini, in posizione eretta.
    Viene da pensare a una famiglia.
    Immagino che la prima definizione di paternità si possa applicare
    a quei maschi che, dopo essersi allontanati per molti giorni dal
    luogo dove vivevano con la femmina e i piccoli, alla ricerca di
    una preda, quando l’hanno catturata ne hanno riportato una parte
    “a casa”. Con queste prime cure parentali quegli uomini hanno
    consentito alla prole di sopravvivere. Che alcuni di quegli uomini
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    non tornasse è stato normale fino a una certa epoca, poi è
    diventata una scelta molto simile a quella dell’infanticidio
    I primi infanticidi debbono essere stati necessariamente il frutto
    di scelte obbligate. Se la cacciagione è scarsa, se la forza e
    l’abilità del cacciatore diminuiscono, il cibo può essere
    sufficiente a nutrire solo una persona, e non credo che in
    circostanze come queste gli uomini abbiano avuto perplessità
    nelle decisioni. Su questa base, l’infanticidio si è perpetuato per
    secoli : le vittime di questa apparente brutalità sono state, almeno
    inizialmente. le creature più fragili, quelle malate, deformi o
    soltanto più piccole. In particolari circostanze la scelta deve
    essere stata fatta sulla base del sesso, e immagino che a pagare
    siano state quasi sempre le femmine.
    E’ un fenomeno che non è stato confinato a questa o a quella
    civiltà e che ha attraversato molte epoche storiche. Gli spartani
    abbandonavano i loro figli deformi fuori dalle mura della città,
    così come i giapponesi, nel loro medioevo, ritenevano lecito, nei
    periodi di carestia, sacrificare le figlie femmine. Entrava spesso
    in gioco la capacità del padre di stabilire quale poteva essere il
    massimo di competizione accettabile per le “cose che contano”.
    Ecco perché, in tante civiltà e in tante culture, la sopravvivenza
    di un nuovo nato veniva decisa dal padre: senza discussioni e
    senza alternative, pietà e compassione erano fuori luogo.
    E’ probabile che per molti secoli l’infanticidio non abbia avuto
    alternative: la nascita di un nuovo bambino sconvolgeva ogni
    possibilità di assistere i figli già nati, era semplicemente
    impossibile prendersi cura di lui. Poi la medicina – o la
    stregoneria, o l’esperienza, o la saggezza delle altre donne –
    hanno proposto un’altra soluzione, l’aborto, ed è stato possibile
    scegliere. Quello che non si deve credere è che la scelta tra
    abortire e far nascere il bambino per poi abbandonarlo o
    ucciderlo sia stata così semplice come può sembrare a prima
    vista. Per la nostra morale, che già condanna in linea di principio
    l’aborto, l’infanticidio è ripugnante, una delle forme più vili di
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    omicidio. Ma le donne hanno dovuto fare i conti per secoli con
    altri problemi. L’aborto ha spesso contemplato rischi maggiori
    del parto, o ha avuto costi così elevati che solo poche donne
    potevano permettersi. Per un lungo periodo di tempo, e
    certamente fino all’epoca della scoperta degli antibiotici, le
    infezioni puerperali, già molto frequenti dopo i parti, erano quasi
    la norma dopo un aborto procurato, che veniva quasi sempre
    eseguito in condizioni igieniche spaventose. In molte realtà
    sociali e, soprattutto, nelle società contadine, operavano
    mammane che confidavano nelle proprietà abortigene di droghe
    che spesso facevano abortire perché facevano morire. Quando le
    donne lo scoprivano, preferivano aspettare e partorire.: per
    sopprimere il bambino, poi, c’erano molti modi.
    Mi sto rendendo conto che sto parlando di infanticidio come se
    evitassi di condannarlo. E’ logico che non è così, la condanna è
    implicita. Ma non è possibile considerare questi fatti senza
    provare compassione. Nell’animo di chi commetteva il gesto
    brutale di uccidere il bambino appena nato non c’era né
    malevolenza né odio. Le donne romagnole, dei propri figli morti
    ( quanti spontaneamente ?) dicevano che “se li era presi Iddio” e
    a quel Dio certamente pietoso e comprensivo manifestavano
    gratitudine. D’altra parte l’alternativa era certamente
    drammatica. In molte famiglie la miseria consentiva a malapena
    una tormentata sopravvivenza per un certo numero di figli, e
    l’arrivo di un altro bambino avrebbe certamente catalizzato il
    disastro.
    Il modo di uccidere i bambini si è adattato ai cambiamenti delle
    norme giuridiche. Nei tempi in cui il destino dei figli era
    completamente affidato al giudizio dei padri, il bambino veniva
    lasciato morire di fame, abbandonato da qualche parte o ucciso
    con mezzi altrettanto cruenti quanto rapidi e pietosi. Quando la
    legge ha cominciato a punire l’infanticidio, considerandolo un
    crimine efferato e sottolineandone la gravità, le famiglie si sono
    adattate. Qualche volta, dopo essere riuscita a nascondere la
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    gravidanza fino alla fine, la donna è riuscita a seppellire il
    bambino appena partorito all’insaputa di tutti ; più tardi,
    mammane e ostetriche hanno suggerito modo più complessi di
    dare la morte al piccolo, senza lasciare tracce evidenti. Alla fine
    dell’800, alcune levatrici romagnole sapevano come inserire un
    lungo spillo nella gola del neonato fino a raggiungere il bulbo e
    ci sono voluti lustri perché i medici capissero che cosa
    significava quella piccola macchia rossa in fondo alla gola del
    nuovo nato. E poi i bambini venivano annegati, o soffocati con
    un cuscino, dopo di che i genitori denunciavano l’accaduto
    fingendo la più cupa disperazione e raccontando di averlo fatto
    involontariamente, rigirandosi nel sonno.
    Una forma molto comune di infanticidio era quella che
    prevedeva l’esposizione del nuovo nato, una sorta di affidamento
    a mani più generose, che potevano o non potevano essere trovate.
    Molto frequente nell’antica Roma, l’esposizione dei neonati fu
    ben presto assimilata all’infanticidio e all’aborto nelle condanne
    e trovò un assetto meno crudele solo quando i bambini
    cominciarono ad essere affidati a istituzioni che provvedevano,
    per quanto possibile, alla loro sopravvivenza.
    Nel 1556 la Francia approvò una legge che condannava come
    criminale ogni donna che avesse nascosto il suo stato di
    gravidanza e che avesse poi lasciato o fatto morire il suo
    bambino prima del battesimo. Alcuni decenni più tardi una legge
    inglese stabilì che doveva essere considerata colpevole quella
    madre di un figlio bastardo che avesse nascosto la sua particolare
    gravidanza e che avesse poi eventualmente affermato che il
    bambino era deceduto o era nato morto. Era una legge che
    stabiliva una presunzione di colpevolezza e obbligava le donne a
    dimostrare la propria innocenza, una di quelle leggi che vengono
    approvate solo quando il crimine che si vuole impedire è
    straordinariamente diffuso.
    Nel XVI e nel XVII secolo ci fu lo stesso numero di condanne a
    morte per infanticidio e per stregoneria, cosa comprensibile
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    perché le due colpe erano frequentemente associate nei
    documenti di condanna. In realtà i giudici cominciavano a
    rendersi conto che le sentenze, quando si basavano soltanto sul
    reato di stregoneria, erano assai poco credibili. Era dunque
    conveniente e più semplice giustificare una condanna per
    infanticidio : di bambini ne morivano continuamente in tutte le
    famiglie e la causa più frequente della loro morte era la
    denutrizione conseguente alla condizione di estrema povertà
    delle famiglie. Era dunque sufficiente mettere in discussione le
    cure che questi bambini avevano ricevuto per trovarsi tra le mani
    un bel caso di infanticidio.
    In quel periodo, in tutta l’Europa ci fu una vera e propria crociata
    contro l’infanticidio e ovunque crebbe il numero di condanne a
    morte per questo reato. E’ logico chiedersi se si sia trattato di un
    tentativo di reprimere un atto criminoso sino a quel momento
    tollerato, o se gli infanticidi fossero piano piano aumentati di
    numero fino a destare l’attenzione di una giustizia distratta e
    assonnata. In quei tempi la caccia alle streghe aveva intrappolato
    un numero crescente di ostetriche , ed è anche possibile che le
    donne venissero progressivamente private delle loro più valide
    consigliere in materia si contraccezione e di aborto. A causa di
    questa persecuzione, l’uso delle erbe che avevano un effetto
    anticoncezionale , già entrato in crisi per la crescente reticenza
    degli erboristi, restò a lungo affidato alla cultura delle donne
    anziane delle famiglie, che peraltro conoscevano solo (uso i
    termini di quei tempi) le “erbe dell’orto” e ignoravano “quelle
    del monte”. In circostanze come queste, l’infanticidio era in
    molti casi l’ultima spiaggia.
    Decidere di uccidere i bambini può essere anche una decisione
    ufficiale, presa da chi amministra e governa. Non c’è bisogno di
    ripescare Erode: nel 1700, il Parlamento inglese, dopo aver
    espresso la sua costernazione per il grande numero di creature
    innocenti che venivano trovate morte ogni mattina nelle strade
    delle grandi città, uccise soprattutto dalla fame, dall’oppio o dal
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    gin, istituì i brefotrofi. Nel primo di questi, aperto nel 1756,
    furono ricoverati 15.000 bambini in 4 anni: di questi, solo 4.000
    raggiunsero l’adolescenza, il che mi fa pensare che queste
    istituzioni fossero una anteprima dei campi di concentramento
    tedeschi. Giustamente sconcertati, i funzionari delle parrocchie
    cominciarono ad affidare i bambini abbandonati a “brave donne”
    che si offrivano di occuparsene per un modesto compenso.
    Ebbene, solo il 20% di questi bambini sopravvisse alle cure di
    queste megere , che sono passate alla storia col nome di “balie
    assassine”. E’ bene chiarire che questo non era solo un problema
    inglese: in Francia, nel periodo compreso tra il 1824 e il 1833
    furono affidati alle istituzioni, perché abbandonati, 336.000
    bambini, il 90% dei quali morì nel primo anno di vita.
    Ma c’è realmente bisogno di guardare al passato? L’ONU ha
    recentemente denunciato la mancanza di molti milioni di
    bambine, soppresse con l’aborto o con l’infanticidio in un certo
    numero di paesi, soprattutto asiatici, nei quali non è mai stato
    possibile sradicare la tradizionale preferenza per i figli maschi.
    Emily Oster, una giovane e brillante economista dell’Università
    di Harvard, ha cercato di giustificare l’anomalo rapporto
    numerico tra nascite di maschi e di femmine chiamando in causa
    particolari cause biologiche, come la presenza endemica di
    malattie virali epatiche, ma ci sono dati che nessuno riesce a
    giustificare: ad esempio, in Pakistan più del 65% dei casi di
    malnutrizione riguarda le bambine, un gran numero delle quali
    muore prima di raggiungere l’adolescenza.
    E’ sin troppo facile usare aggettivi che indichino esecrazione e
    condanna quando si parla di infanticidio. In realtà, si tratta di
    comportamenti che sono spesso determinati da problemi
    culturali, o sono indotti da necessità e da bisogni che non
    lasciano alternative. Quando non è possibile eseguire un
    controllo efficace della fertilità e quando la miseria è tale da
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    trasformare l’annuncio di una nuova nascita in una condanna a
    morte per fame dei figli già nati, i comportamenti vengono dettati
    esclusivamente da bisogno e il giudizio non può che ispirarsi alla
    compassione. Non credo che sia possibile provare sentimenti
    diversi nei confronti dell’aborto e mi sembra che questa difficoltà
    nell’esprimere un severo giudizio di condanna appaia evidente se
    si considerano le leggi che le differenti società si sono date al
    riguardo: in realtà è difficile condannare i crimini per i quali il
    sentimento prevalente non è l’orrore, ma la compassione.
    Le prime regole
    Gli Assiri approvarono in successione un certo numero di leggi
    che punivano in vario modo chi procurava un aborto. La
    protezione del feto c’entrava poco, gli Assiri ammettevano
    l’interruzione della gravidanza (qualora non fosse desiderata) e
    l’uccisione del feti malformati. In realtà, le leggi difendevano il
    diritto dei padri di veder nascere i figli che avevano generato.
    Una importante distinzione si deve a una legge ittita che stabiliva
    pene diverse a seconda dell’epoca di gravidanza nella quale era
    stato eseguito l’aborto. In questo modo si stabiliva una differenza
    di valore che dipendeva dallo stadio di sviluppo del feto e
    venivano autorizzate le interruzioni di gravidanza eseguite prima
    del 5° mese. E’ probabile che gli ittiti si riferissero a qualcosa di
    concreto, nella valutazione dell’epoca di gravidanza, visto che
    non potevano certamente disporre di strumenti capaci di
    definirla, e la maggior parte degli storici ritiene che il limite fosse
    segnato dal momento in cui la donna sentiva muovere il feto o
    questi movimenti potevano essere percepiti con la palpazione
    dell’addome.
    Le leggi religiose ebraiche erano ispirate dagli stessi principi ai
    quali si richiamavano le altre culture asiatiche e offrivano ben
    poca protezione al feto. Nell’Esodo (21:22) è scritto che se due
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    uomini lottano tra loro e nel lottare colpiscono una donna
    gravida, e lei espelle il feto, ma non ne consegue altro danno,
    l’uomo che l’ha colpita deve essere portato davanti al giudice dal
    marito di questa donna per essere condannato a pagare una multa,
    la cui entità dovrà essere decisa dal giudice. Come si vede, non
    c’è alcuna protezione per il feto, il problema riguarda solo il
    padre, privato del diritto di veder nascere il figlio che aveva
    concepito. Per la legge, dunque, il feto aveva diritto a una
    protezione dal momento della nascita e non prima. Il Talmud si
    riferisce a lui come a una parte della madre, analogamente alla
    definizione romana “pars viscerum matris”. Più avanti, L’Esodo
    (21-23) stabilisce che se la donna subisce un danno, allora dovrà
    essere restituita vita per vita, piede per piede, bruciatura per
    bruciatura, ferita per ferita, frustata per frustata. La traduzione in
    greco dell’espressione nefesh tahat nefesh, vita contro vita, che è
    stata ψυχήν αντί ψυχής, ne cambia il significato, introducendo il
    concetto di anima e facendo supporre che la punizione è imposta
    solo dopo che il concepito è formato.
    Nella visione ebraica, la condizione necessaria perché chi
    procura un aborto sia condannato soltanto a un’ammenda è legata
    al significato della parola “ason” che in ebraico dovrebbe
    indicare disgrazia (nei miei testi è tradotta anche come caso di
    morte e in un testo francese come “mais sans autre accident”.
    Questa parola è stata tradotta in greco con un termine che indica
    un’immagine, qualcosa di formato, per cui l’intera frase prende
    un significato completamente diverso: “….se non ci sarà danno,
    allora colui che l’ha percossa sarà costretto a pagare
    un’ammenda”; e ancora: “ e se invece ci sarà forma, allora metti
    vita per vita”. La traduzione dei 70 è stata l’unica versione greca
    del Vecchio Testamento fino al II secolo dopo Cristo e ha
    influenzato le prime versioni latine del III secolo, fino alla
    vulgata (fine IV, inizio V secolo). In questo modo è stata accolta
    la distinzione aristotelica tra feto formato e feto non formato ed è
    16
    stata stabilita, con l’applicazione della legge del taglione, la pena
    di morte per chi uccide un feto formato.
    Poiché la nascita di un bambino è un processo voluto da Dio,
    interrompere questo processo comporta una colpa grave: è Dio
    stesso che vieta all’uomo di uccidere il feto nel grembo della
    madre. Poiché però sia la Sacra Scrittura che la tradizione
    giuridica non considerano il feto una persona, l’aborto è un
    crimine meno grave dell’omicidio. Non assegnando
    all’embrione lo statuto di persona, gli ebrei non lo collocano
    sullo stesso piano della madre. La conseguenza inevitabile è la
    liceità dell’interruzione della gravidanza qualora sia in pericolo
    la vita o la salute della madre, interpretazione che mi è sembrata
    prevalente nel pensiero ebraico. Giulia Galeotti, nel suo libro
    “Storia dell’aborto”, ricorda che il rabbino David Rosen riteneva
    che una donna che avesse scelto di continuare una gravidanza pur
    essendo a conoscenza dei gravi rischi per la sua salute impliciti in
    questa scelta, doveva essere considerata come una suicida.
    Nel periodo compreso tra il 300 avanti Cristo e il 200 dopo
    Cristo cambiarono molti degli atteggiamenti relativi all’aborto,
    anche tra i filosofi che potevano definirsi laici. Alcune di queste
    perplessità sono esposte con chiarezza dal filosofo Porfirio (305
    dopo Cristo ): “La dottrina dell’animazione dei feti in vista della
    formazione di un nuovo essere umano ci ha colmato di
    incertezza. Se si potesse dimostrare che un embrione non è un
    essere vivente né reale né potenziale sarebbe facile dimostrare
    che l’anima entra in lui al momento della nascita, quando è
    espulso dall’utero. D’altra parte, se l’embrione è potenzialmente
    una cosa vivente, nel senso che ha ricevuto l’anima, allora
    bisognerebbe cercare di essere molto precisi sul momento in cui
    ciò avviene. Si può pensare che questo coincida con l’ingresso
    dello sperma nell’utero, nel qual caso il seme stesso non potrebbe
    essere ritenuto e divenire fertile se l’anima che giunge
    dall’esterno non è formata. Oppure si potrebbe pensare alla
    formazione dell’embrione, o ancora al momento in cui ha
    17
    cominciato a muoversi.” Domande che hanno continuato ad
    essere proposte per secoli e che non hanno mai ricevuto risposta..
    I primi cristiani avevano fatto tesoro della lezione di Gesù e
    l’avevano un po’ mescolata con idee che venivano dagli stoici. Il
    risultato era una posizione non molto diversa da quella degli
    Ebrei, dei Greci e dei Romani, con qualche dichiarazione più
    esplicita di disapprovazione nei confronti delle droghe utilizzate
    per interrompere le gravidanze ( e per controllare le nascite).
    La condanna cristiana più antica espressa nei confronti
    dell’aborto si trova nella Didaché, o dottrina dei dodici apostoli,
    scritta solo una sessantina d’anni dopo la morte di Cristo. Si
    tratta di un’opera anonima, probabilmente più antica degli stessi
    vangeli sinotttici, e che è stata tenuta in gran conto dalle prime
    generazioni cristiane, fino ad essere incorporata, nella seconda
    metà del IV secolo, nelle cosiddette Costituzioni Apostoliche.
    L’autore dovrebbe essere un ebreo convertito, almeno da come
    scrive e da come computa i giorni, e l’opera dovrebbe esser stata
    scritta tra la Palestina e la Grecia.
    La condanna dell’aborto compare al punto II del secondo
    capitolo ed è ribadita nel capitolo V in cui si fa riferimento agli
    “uccisori dei figli, che sopprimono con l’aborto una creatura
    di Dio”. Questa impostazione viene in seguito ribadita dalla
    lettera di Barnaba, falsamente attribuita al compagno di San
    Paolo, ma in realtà di autore sconosciuto e che dovrebbe esser
    stata scritta tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo,
    ad Alessandria d’Egitto. Questa lettera, che si distingue per la sua
    radicale avversione al giudaismo, nel capitolo che ha per titolo
    “Le vie della luce “, così recita: “ Non ucciderai il bambino con
    l’aborto e non lo farai morire appena nato”. La condanna viene
    ripresa in seguito, quando la lettera illustra “La via delle
    tenebre”: “… sono crudeli verso il povero, indolenti verso il
    sofferente, facili alla maldicenza, ingrati verso il loro creatore,
    uccisori di figli, distruttori del plasma creato da Dio, incuranti del
    18
    bisognoso, oppressori del tribolato, avvocati dei ricchi, giudici
    cattivi dei poveri, peccatori in tutto”.
    Anche se le conoscenze di quei tempi non consentivano di
    considerare il feto come un essere umano indipendente, i cristiani
    avevano fatto una diversa scelta, ritenevano che il feto fosse un
    essere umano e non davano valore al fatto che fosse dipendente
    dalla madre.
    Quando si cita la posizione dei primi cristiani sull’aborto, viene
    sempre richiamata una affermazione di Tertulliano (“L’aborto è
    un omicidio anticipato….è già uomo colui che lo sarà.”).
    L’espressione è molto bella, ma il fatto che sia di Tertulliano la
    rende meno efficace. Tertulliano era nato a Cartagine da genitori
    pagani tra il 150 e il 160 e si convertì solo tardivamente al
    cristianesimo. E’ considerato oggi uno dei maggiori polemisti
    cristiani, soprattutto per le sue aspre discussioni con gli gnostici.
    Intriso di cultura classica, attingeva a varie filosofie: ispirandosi
    agli stoici, ad esempio, affermava che tutto ciò che esiste è corpo
    e che dunque è corpo anche l’anima. Ma sentite quello che
    scriveva a proposito delle donne ( soprattutto nel De cultu
    feminarum e nel De virginibus velandis), che considerava esseri
    che Dio aveva voluto inferiori e “ianua diaboli”: “Tu donna hai
    con tanta facilità infranto l’immagine di Dio che è l’uomo. A
    causa del tuo castigo, cioè la morte, anche il figlio di Dio è
    dovuto morire. E tu hai in mente di adornarti al di sopra delle
    tuniche che ti coprono la pelle?”. A parte la sua posizione nei
    confronti delle donne, sempre fermamente negativa, non sempre
    Tertulliano era conseguente. Nel capitolo 25 del De Anima, ad
    esempio, contraddice le sue posizioni precedenti ammettendo
    l’embriotomia in casi particolari e considera l’aborto una
    “necessaria crudelitas” quando il feto si accinge a diventare
    matricida, una espressione molto simile a quella “assassino di
    sua madre” usata da alcuni rabbini.
    E’ dunque ben evidente che il feto deve essere tutelato molto al
    di là di quanto la legge abbia fatto fino a quel momento, e questi
    19
    principi sono chiari negli scritti di Marco Minucio Felice, di
    Barbo di Cesarea e di Clemente di Alessandria. Quest’ultimo
    (siamo più o meno nel 200 dopo Cristo) scrive che le donne che
    assumono farmaci per abortire, per nascondere una relazione
    extraconiugale, perdono, con il feto, anche la loro umanità.
    Forse per la prima volta il rispetto per l’embrione viene descritto
    come un sentimento che fa parte della natura umana.
    Atenagora ( siamo nel 177) nell’apologia indirizzata a Marco
    Aurelio e a Commodo, rifiuta l’accusa di cannibalismo che
    veniva indirizzata ai cristiani ( e che aveva a che fare con una
    particolare interpretazione dell’eucarestia) e scrive che non è
    serio accusare di infanticidio chi, considerando il feto come un
    essere senziente e protetto da Dio, ne rispetta la vita prima della
    nascita, volendo evidentemente sottolineare il fatto che il rispetto
    per la vita del feto garantisce il rispetto per la vita dell’adulto. Ed
    è nello stesso periodo che a Roma Marco Minucio Felice,
    affrontando lo stesso problema, chiama il feto “futurus homo” e
    paragona i pagani a Saturno, che divorava i propri figli. Minucio
    usa il termine “parricidio”, che nel diritto romano indicava
    l’uccisione di un parente, considerata un delitto particolarmente
    grave.
    Dal IV secolo le omelie dei santi si riferiscono all’aborto come a
    uno dei peccati più gravi che un cattolico possa commettere. Si
    tratta anche, così almeno mi sembra di capire, di una reazione ad
    una diminuita tensione morale che i cattolici avvertono
    all’interno della loro comunità. San Cipriano, in una lettera
    indirizzata a papa Cornelio nel 250, accusa un sacerdote di aver
    fatto abortire la propria moglie e San Geronimo investe con
    parole di fuoco le donne che muoiono di aborto e che egli
    considera responsabili di un triplice crimine: suicidio, adulterio e
    omicidio di figli non ancora nati.
    Le voci di condanna non sono però uniformi. Gregorio di Nizza
    (330-379) scrive che non si può parlare di omicidio quando il
    feto non è formato , perché un’anima vivente non può albergare
    20
    in un corpo senza forma, e così si richiama ad Aristotele, al
    pensiero ebraico e, per restare in ambito cristiano
    all’ilomorfismo. Basilio (330-379) condanna invece tutte le
    donne che “distruggono un feto” , non ha importanza che sia
    formato o no, e il riferimento è alla Sacra Scrittura e alle parole
    di Dio a Geremia: “ Io ti ho conosciuto avanti che ti formassi nel
    ventre e avanti che tu uscissi dalla matrice , io ti ho consacrato, io
    ti ho costituito profeta delle genti”. Secondo Basilio il peccato di
    queste donne è duplice: mettono a repentaglio la propria vita e
    derubano il feto della vita che avrebbe avuto. Questo accenno ai
    danni che l’aborto potrebbe procurare alle donne ha fatto pensare
    che Basilio si riferisse solo agli aborti tardivi, perché quelli
    precoci non avrebbero dovuto presentare rischi per la madre. E’
    una supposizione molto difficile da dimostrare, sia perché in quei
    tempi tutti gli aborti rappresentavano un rischio, sia perché si
    tendeva a far confusione tra aborto precoce e contraccezione (
    tanto che i farmaci utilizzati venivano indicati con lo stesso
    nome, emmenagoghi). E’ invece molto interessante il fatto che
    Basilio, pur considerando l’aborto un omicidio, non chiedesse,
    per chi se ne era reso colpevole, la stessa pena prescritta per gli
    assassini, la morte, ma si limitasse a proporre 10 anni di
    pentimento.
    Durante il regno di Enrico III ( 1216-1272) Henri de Bracton
    scrisse una sorta di “summa” delle leggi vigenti in Inghilterra,
    mescolando il diritto romano con la cosiddetta “common law” ,
    così come si poteva ricavare dai giudizi espressi dalle corti di
    giustizia che si erano pronunciate tra il 1220 e il 1230. A quale
    delle due normative appartenga la parte dedicata all’aborto è
    difficile da capire. La legge stabiliva che “ se qualcuno colpisce
    una donna o le dà un veleno, allo scopo di procurarle un aborto, e
    se il feto è già formato o animato, egli commette un omicidio”.
    Queste espressioni sono molto simili a quelle usate più tardi ,
    regnante Edoardo I ( 1272-1307) per dichiarare omicida chi
    “colpisce una donna o le da pozioni non consentendole di
    21
    concepire o causandole un aborto se il feto è formato e animato”
    Ed è omicida una donna che prende una pozione per uccidere il
    suo bambino nel ventre, sempre con la clausola che questo
    bambino deve essere formato e animato.
    Secondo un anonimo commentatore della stessa epoca, Fleta, la
    legge stabilisce che si tratta di un atto criminale “per sé” senza
    più fare riferimento ai diritti del padre, che pure si vede privato
    del figlio. Inoltre la legge ignora le interruzioni della gravidanza
    eseguite molto precocemente, che continuano ad essere un diritto
    delle famiglie, scelte personali che hanno a che fare con il
    controllo delle nascite e sulle quali il diritto non interviene.
    Bisognerà attendere il 1861 per veder approvata in Inghilterra
    una legge che condanna le donne che si procurano un aborto.
    Recentemente gli storici hanno esaminato alcuni dei processi per
    procurato aborto che si sono svolti in quell’epoca e che
    riguardavano gravidanze piuttosto avanzate: ebbene tutti questi
    processi si sono conclusi con l’assoluzione dei responsabili, il
    che costringe a considerare prive di solida base giuridica le
    opinioni di Bracton e di Fleta.
    Nel dicembre del 1588 papa Sisto V emanò una bolla che
    condannava insieme aborto e anticoncezione e affermava che “
    la più severa punizione deve essere comminata a coloro che
    forniscono veleni per distruggere e uccidere il concepito
    all’interno dell’utero, e a coloro che mediante veleni, pozioni e
    malefici inducono la sterilità nelle donne o impediscono loro, con
    l’impiego di medicine, di iniziare o di proseguire una
    gravidanza”. La condanna colpiva anche chi si limitava a
    consigliare l’anticoncezione o l’aborto, una scelta molto dura e
    certamente inattesa, alla quale si dice che il papa fosse arrivato
    dopo essersi reso conto del degrado morale nel quale stava
    affondando Roma. John Noonan ci ricorda che nel 1527 Roma
    aveva 50.000 abitanti e che tra di essi si potevano contare almeno
    1.500 prostitute tutt’altro che disoccupate.
    22
    Sisto V non era generalmente tenero con i peccatori, tanto che
    aveva stabilito che gli adulteri fossero mandati a morte. La sua
    Bolla sulla contraccezione e sull’aborto ebbe però scarso impatto
    e breve vita, tanto da essere abolita non appena lui morì, nel
  1. A dire il vero non sono mai riuscito a capire quale dei
    suoi successori si sia presa la responsabilità di tornare all’antico :
    Urbano VII fu papa per soli 10 mesi e il suo successore,
    Innocenzo IX, salito al soglio nell’ottobre del 1591, morì nel
    dicembre dello stesso anno. In ogni caso, nel 1592 la Chiesa era
    tornata a considerare la contraccezione un peccato e l’aborto un
    delitto, con la premessa che non si poteva palare di aborto fino al
    40° giorno, quando finalmente il feto entrava in possesso
    dell’anima.
    Le prime leggi
    La Francia approvò una legge che considerava l’aborto un atto
    criminale nel 1791, confermando così una serie di norme che le
    corti di giustizia locali avevano applicato fin dal medioevo. Nel
    1810 il Codice napoleonico modificò profondamente queste
    regole e stabilì (articolo 317) le pene carcerarie da comminare a
    chiunque, in qualsiasi modo, si rendesse colpevole di procurare
    un aborto, indipendentemente dal consenso della donna e senza
    tener conto dell’esito finale del suo atto. Era inclusa nella norma
    una condanna alla deportazione nelle colonie per i medici, il
    personale sanitario e persino i farmacisti che si fossero resi
    colpevoli della somministrazione di sostanze abortive.
    Gli aborti procurati con mezzi fisici erano genericamente indicati
    come “atti di violenza”; mentre non era prevista alcuna punizione
    per le donne che si procuravano o tentavano di procurarsi, da
    sole, una interruzione della gravidanza.
    Nel 1803 una commissione presieduta dal lord Ellemborough
    approvò una serie di norme penali che, nelle intenzioni,
    23
    avrebbero dovuto essere applicate nella sola Irlanda, ma che, in
    realtà, influenzarono tutti i paesi di lingua inglese. Nella parte
    dedicata agli avvelenamenti queste norme modificavano la
    vecchia legge di Giacomo I che considerava ree di infanticidio le
    donne che avevano partorito un figlio illegittimo e che non ne
    sapevano giustificare la morte o la scomparsa: questa volta era la
    giustizia che doveva dimostrare la condizione di illegittimità del
    neonato e chiarire le cause della sua morte. Inoltre queste nuove
    norme non facevano più questione di percezione o meno dei
    movimenti fetali e , almeno come principio, consideravano
    l’aborto un reato comunque e sempre: restava però il fatto che si
    trattava di un crimine che veniva punito in modo diverso a
    seconda dell’epoca di gravidanza in cui veniva eseguito. E’
    interessante sottolineare che l’attenzione dei legislatori era rivolta
    soprattutto alle gravidanze illecite e alle interruzioni ottenute con
    l’uso di mezzi farmacologici.
    Poiché le leggi di molti paesi punivano in modo diverso le
    interruzioni di gravidanza eseguite prima e dopo che la donna
    aveva avvertito i movimenti fetali, questa questione del
    “quickening” ( una espressione che indica qualcosa che anima,
    stimola, vivifica) finì col complicare un grande numero di
    processi, anche perché i medici non erano d’accordo sull’epoca
    della gravidanza nella quale i moti attivi fetali dovevano essere
    per la prima volta avvertiti dalle gravide. Anche dopo che fu
    siglato una specie di accordo che collocava questo evento intorno
    alla 18a settimana dopo il concepimento, questo problema
    continuò a essere una causa di confusione per molte corti di
    giustizia, confuse dalla incerta definizione di concepimento e
    dalla pratica impossibilità di collocarlo nel tempo.
    La maggior parte dei paesi europei non emanò nuove leggi
    sull’aborto per lo meno fino a tutta la prima metà del XIX secolo.
    Alcune nazioni accettarono di inserire nei propri ordinamenti
    giuridici alcune delle norme del codice napoleonico, ma nella
    maggior parte dei casi continuarono ad essere valide le vecchie
    24
    leggi medioevali quelle derivate dalla legge canonica e dalla
    legge romana.
    Negli Stati Uniti fu lo Stato del Connecticut ad approvare una
    legge che rappresentò per almeno vent’anni un modello per il
    resto del paese. Questa legge, che è del 1821, riprende parti
    importanti della normativa inglese , stabilendo le pene per chi
    somministra una pozione abortigena a una donna, nella certezza
    della sua gravidanza. Questa certezza era ancora una volta
    affidata all’esistenza dei moti attivi fetali, che dovevano essere
    percepiti dalla madre. La legge fu ripresa prima dallo Stato di
    New York e successivamente da altri 15 Stati. Solo nel 1858, su
    iniziativa dello Stato del Wisconsin, furono approvate norme che
    punivano le donne che si procuravano l’aborto da sole.
    Nel 1837 fu ancora l’Inghilterra a modificare la legge
    sull’interruzione della gravidanza, diminuendo le pene per chi lo
    procurava, ma stabilendo le stesse condanne senza tenere conto
    dell’epoca della gravidanza e della presenza dei movimenti attivi
    fetali. Fu così eliminata la pena di morte per i colpevoli di
    procurato aborto, cosa che determinò un aumento significativo
    del numero delle condanne. : fino a quel momento, infatti i
    giudici erano stati molto cauti e avevano fatto un modestissimo
    uso delle pene più severe, percependo l’opinione diffusa secondo
    la quale la pena di morte era una punizione davvero eccessiva per
    un crimine che, alla fin fine, nessuno considerava veramente
    efferato.
    Nell’insieme, le legislazioni dei vari paesi in materia di aborto
    erano molto eterogenee e davano una sensazione di grande
    confusione. A fianco di paesi nei quali l’aborto era quasi del
    tutto vietato e poteva essere tollerato solo se la salute della
    donna era messa a grande rischio dalla gravidanza, ce ne erano
    altri nei quali era possibile abortire se semplicemente si chiedeva
    di farlo. Dal punto di vista pratico, invece, la differenza tra i
    paesi era inesistente, il numero di donne che abortivano era molto
    elevato e gli abortisti finivano in tribunale solo se commettevano
    25
    errori fatali. Insomma, le leggi c’erano, ma nessuno sembrava
    minimamente intenzionato ad applicarle.
    La condanna delle religioni
    La Chiesa cattolica, che ha sempre condannato l’omicidio, ha a
    lungo cercato di capire da quale momento della gravidanza
    l’aborto possa essere equiparato a quel reato. Per stabilirlo, ha
    sempre fatto ricorso a norme canoniche che naturalmente erano
    obbligate a considerare le posizioni dei fisiologi e dei biologi
    contemporanei. Così nel medioevo essa asseriva che l’embrione
    diventa essere umano solo alcune settimane dopo il
    concepimento e vietava di battezzare residui abortivi che non
    avessero un aspetto chiaramente umano. Scrive, la
    Congregazione per la dottrina della fede, nella dichiarazione
    sull’aborto procurato : “certo, quando nel medioevo era generale
    l’opinione che l’anima spirituale non fosse presente che dopo le
    prime settimane, si faceva una differenza nella valutazione del
    peccato e nella gravità delle sanzioni penali. Eccellenti Autori
    hanno ammesso, per questo primo periodo, soluzioni casistiche
    più larghe, che respingevano per i periodi seguenti. Ma nessuno
    ha mai negato che l’aborto procurato fosse, anche in quei primi
    giorni, una grave colpa”.
    Grave colpa, certo, non omicidio. Bisogna arrivare al 1869 per
    verificare l’esistenza di un cambiamento definitivo. Scrive infatti
    Pio IX, nella Apostolicae Sedis, che incorrono nella scomunica
    automatica i responsabili di aborto procurato che sono riusciti
    nell’intento, e ciò senza fare alcuna distinzione tra feto animato e
    feto inanimato. Questo riconoscimento di una animazione
    immediata è annunciato, secondo Giulia Galeotti, già nella
    proclamazione della preservazione di Maria dal peccato originale
    fin dal primo istante del suo concepimento, proclamazione che
    risale al 1854. Questa teoria dell’animazione immediata è
    26
    talmente certa,secondo i cattolici , che diversi teologi avevano
    dichiarato, già nell’ottocento, che non c’era più alcun bisogno di
    continuare a disquisire sull’argomento.
    Con la costituzione Apostolicae Sedis viene riaffermata l’antica
    definizione di Sisto V del 1588, che all’epoca non aveva avuto
    alcun successo ed era stata prontamente abolita: condanna per
    tutti i procurantes abortum , non esclusa la madre, se lo scopo
    viene raggiunto, una definizione poi ripresa nel 1917 dal codice
    di diritto canonico (canone 2350). La scomunica, riservata ai
    vescovi, colpiva il procurato aborto senza tenere in alcun conto
    che il feto fosse formato. L’illiceità di qualsiasi aborto diretto, in
    quanto vero omicidio, violazione del comandamento di non
    uccidere, è sanzionata anche dalla sacra Congregazione del
    Sant’Uffizio.
    C’era però un problema pratico da risolvere, un problema che
    turbava soprattutto le coscienze dei medici: d’accordo che,
    quando madre e feto erano in pericolo, bisognava fare di tutto
    per salvare entrambi, ma quando questo non era possibile, si
    poteva considerare lecito salvare la madre sacrificando il feto?
    Per alcuni teologi si trattava di scegliere tra due mali, ed era
    evidentemente opportuno, in questi casi, scegliere il minore.
    Veniva chiamata in causa la difesa che la morale cattolica fa
    della liceità della pena capitale e dell’omicidio per legittima
    difesa., e si sosteneva che il feto, attentando con la sua presenza
    alla vita di sua madre finiva col diventarne l’ingiusto aggressore,
    l’assassino del quale parlano altre religioni per giustificare
    l’aborto terapeutico. Ci sono però molte voci contrarie e c’è
    addirittura chi afferma che è la madre ad aggredire il feto
    quando, a causa di un suo vizio pelvico, gli impedisce di venire
    alla luce. Dopo aver molto tergiversato – più volte la risposta ai
    quesiti fu interlocutoria in quanto il Magistero prendeva tempo
    perché il problema era ancora oggetto di studio – arrivò
    finalmente la risposta: non solo la craniotomia, ma ogni azione
    direttamente “uccisiva” del feto o della madre era vietata.
    27
    Successivamente arrivò una precisazione di grande importanza:
    bisognava distinguere tra azioni direttamente e indirettamente
    abortive. Le prime, tra le quali rientravano la craniotomia e
    l’embriotomia, erano dirette a sopprimere direttamente il feto ed
    erano pertanto illecite. Le seconde , rivolte a curare la madre,
    erano solo secondariamente e accidentalmente causa della morte
    del feto e potevano essere ammesse in caso di assoluta necessità.
    Questa posizione fu contestata da parte di molti autorevoli
    moralisti, per i quali, naturalmente in casi eccezionali, doveva
    essere considerato lecito praticare interventi abortivi diretti. Nella
    posizione che la Chiesa cattolica aveva assunto era evidente la
    necessità di rispettare un comandamento ( in analogia con quanto
    compare nella dichiarazione di avversione alla pena di morte)
    così come affermò nel 1951 Pio XII nella sua Allocuzione alle
    ostetriche: “Ogni essere umano, anche il bambino nel seno
    materno, ha il diritto alla vita direttamente da Dio , non dai
    genitori, né da qualsiasi società o autorità umana. Quindi non vi è
    nessun uomo, nessuna autorità umana, nessuna indicazione
    medica, eugenetica, sociale, economica, morale, che possa
    esibire o dare un valido titolo giuridico per una diretta deliberata
    disposizione sopra una vita umana innocente”.
    Anche per la legge islamica è fondamentale sapere in quale
    momento del suo sviluppo un feto diventa un essere umano. Le
    posizioni delle quattro scuole giuridiche islamiche, molto
    succintamente, sono queste:
  • la scuola malikita ritiene illecito l’aborto fin dal momento in
    cui è avvenuto il concepimento;
  • la scuola shafiita è su posizioni simili;
  • per las cuola hanafita, è considerato lecito l’aborto prima dello
    scadere del quarto mese solo se è in pericolo la vita della
    madre;
    28
  • -la scuola hanbalita è la più flessibile e considera praticabile
    l’aborto prima della fine del quarto mese in caso di pericolo
    per la vita della madre.
    C’è accordo comunque sul fatto che dopo il quarto mese l’aborto
    deve essere considerato un delitto grave e che nel caso che esista
    un rischio per la salute della madre il problema debba essere
    risolto sulla base del principio del male minore. Questa dottrina
    si basa sulla tradizione dei quaranta giorni, in cui il profeta rivela
    che il feto è trattenuto nell’utero 40 giorni come seme, 40 giorni
    come uovo fecondato e 40 giorni come carne. Vengono
    considerate lecite, in molte parti dell’Islam, le interruzioni di
    gravidanza eseguite prima dei 40 giorni.
    L’etica musulmana si ricollega molto all’etica medica, nel senso
    che l’aborto è consentito se vengono messe a rischio la vita o la
    salute della madre.
    Ci sono attualmente 53 nazioni nel mondo nelle quali la
    maggioranza della popolazione è musulmana e queste nazioni
    sono, tra l’altro, quelle che presentano i più elevati livelli di
    crescita demografica, oltre ad avere il primato della mortalità da
    parto. Nella maggior parte di queste nazioni è consentito l’aborto
    per ragioni mediche. In otto (Tunisia, Turchia, Malesia,
    Kazakistan, Karghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Bosnia)
    l’aborto è consentito su richiesta della donna, in due (Giordania e
    Sudan ) è ammesso se la gravidanza è il risultato di una violenza
    carnale e in quattro ( Burkina Faso, Costa D’Avorio, Mauritania
    e Niger) è illegale senza eccezione alcuna.
    Nel 1992 la Commissione per la Crisi demografica ha elaborato
    una scala con valori compresi tra 0 e 20 per graduare le
    possibilità di accesso all’aborto: tra i paesi musulmani la Tunisia
    ha il valore più alto, mentre Libia, Somalia e Kuwait hanno il
    valore più basso, molto vicino a zero. Nei paesi nei quali
    l’accesso all’aborto è più difficile, c’è un forte ricorso all’aborto
    clandestino, che è responsabile di elevati tassi di mortalità. Si
    calcola che nel solo Bangladesh muoiano ogni anno più di 8.000
    29
    donne a causa di complicazioni post-abortive.In molti di questi
    paesi si eseguono anche molti controlli mestruali, ma né i
    risultati di questi interventi né le complicazioni delle quali sono
    responsabili ci sono note.
    Le leggi moderne
    Nel mondo occidentale, il primo scossone relativo alla
    legislazione sull’aborto lo ha provocato l’Inghilterra con
    l’approvazione dell’Abortion Act, che è del 1967. A dire il vero
    l’atteggiamento della giustizia inglese nei confronti dell’aborto si
    era modificato già nel 1938, quando un medico – il dottor Aleck
    Bourne era stato assolto dal tribunale dall’accusa di aver
    interrotto la gravidanza di una quattordicenne che era stata
    violentata ed era in grave stato di shock: nella motivazione la
    sentenza considerava il fatto che il medico aveva agito per
    salvare l’equilibrio mentale della ragazza. Il progetto di legge
    approvato nel 1967 era stato presentato da David Steel, membro
    del partito liberale, ed era stato approvato dalla Camera dei
    Comuni con 229 voti a favore e 29 contrari. La normativa venne
    in parte rivista negli anni successivi a seguito di forti pressioni di
    alcune organizzazioni religiose, ma nel mio personale ricordo –
    ho lavorato al Chelsea Hospital for Women di Londra negli anni
    1969-1970 –si trattava pur sempre della legge più liberale
    esistente nel mondo occidentale.
    Negli Stati Uniti la prima importante mobilitazione in favore
    della legalizzazione dell’aborto era cominciata intorno al 1965.
    Nel 1967 alcuni Stati – tra i quali la California e il Colorado
    –avevano previsto la possibilità di consentire alle donne di
    abortire, in particolari circostanze, e avevano affidato la
    decisione ai medici e agli ospedali. Nel 1970 lo Stato di New
    York consentì l’aborto alle donne gravide da meno di 24
    30
    settimane purché l’intervento fosse eseguito da un medico in
    ambiente sanitario. Questa normativa creò grande subbuglio tra
    gli Stati americani, alcuni dei quali vararono immediatamente
    leggi altrettanto liberali mentre altri cercarono di impedire che la
    pratica si generalizzasse. Naturalmente la questione finì davanti
    alla Corte Suprema, che fu chiamata a giudicare il caso di Jane
    Roe, una ragazza di 23 anni di Dallas, madre di due figli e che
    voleva interrompere la sua terza gravidanza per ragioni
    economiche. Naturalmente la sentenza (Roe v.Wade, 1973)
    arrivò quando il bambino era già stato dato in adozione, ma sul
    piano del diritto scatenò un vero terremoto. I giudici infatti
    sancirono il diritto della donna di scegliere se interrompere la
    gravidanza, basandosi sul diritto della gestante alla privacy,
    sancito dal concetto di libertà personale garantito dal 14°
    emendamento della Costituzione americana- Si tratta
    fondamentalmente del diritto alla libertà di coscienza, un
    concetto abbastanza ampio da comprendere la scelta, da parte
    della donna, di portare a termine o di interrompere la propria
    gravidanza. I giudici avevano considerato le possibili
    conseguenze dannose, fisiche e psicologiche, che potevano
    conseguire a una maternità non voluta. La sentenza prevedeva
    anche che una volta raggiunta la vitalità del feto ( un’epoca
    stabilita al termine della dodicesima settimana ) lo stato avrebbe
    potuto proibire l’aborto, concedendo l’autorizzazione solo per
    salvare la salute o la vita della madre. Secondo Donald Dworkin,
    il punto centrale del dibattito affrontato dalla Corte non concerne
    il problema metafisico dello statuto ontologico del feto, né quello
    teologico della sua anima, ma quello, squisitamente giuridico,
    della sua acquisizione di quei diritti che la Costituzione
    attribuisce alla persona. Nella fattispecie, la Corte ha deciso che
    il feto non è persona agli occhi della Costituzione prima della
    nascita e che esiste invece un diritto costituzionale delle persone
    di controllare la propria capacità procreativa.
    31
    La decisione della Corte suprema ha fatto sì che negli Stati Uniti
    l’aborto è diventato un diritto costituzionale, una decisione
    paragonabile soltanto a quella del Sudafrica. Ciò ha naturalmente
    creato molti conflitti, inevitabili in un paese come gli Stati Uniti,
    nel quale esiste un forte movimento antiabortista, che ha un
    notevole potere politico e che riesce persino a condizionare
    alcuni dei candidati alla Casa Bianca. Così numerosi Stati hanno
    intrapreso azioni rivolte a limitare, ostacolare o impedire
    l’effettuazione degli aborti, e ostacoli di vario genere sono stati
    anche frapposti dalla stessa Corte e dal Senato. La prima, nel
    1977, emanò una sentenza che disponeva che gli Stati non erano
    obbligati a pagare quegli aborti che non erano considerati
    necessari dal punto di vista medico e che liberava gli ospedali
    pubblici dall’obbligo di fornire servizi di interruzione della
    gravidanza: il risultato fu che solo le organizzazioni federali che
    fornivano assistenza agli indigenti furono in qualche modo
    impegnate a sostenere finanziariamente le donne che volevano
    abortire.
    Successivamente il Senato stabilì che nessun fondo federale
    poteva essere utilizzato per i servizi di interruzione della
    gravidanza a meno che non esistesse un rischio per la salute della
    madre. Come conseguenza di questa decisione, a partire dal
    1987 i fondi dell’assistenza pubblica per l’aborto non furono più
    disponibili in 14 Stati e nel distretto delle Columbia, e da allora il
    numero di ospedali pubblici che forniscono un’assistenza per
    l’aborto è continuamente calato. Si deve aggiungere a tutto ciò il
    fatto che l’offerta dei servizi necessari per la pratica dell’aborto
    volontario e per gli interventi di contraccezione di emergenza
    diventa ogni giorno più a rischio via via che un numero sempre
    maggiore di istituzioni religiose diventa responsabile della salute
    delle comunità (P. Rodriguez e W.C.Shields, Contraception,
    2005, 71,302).
    Nel 2002 cinque delle dieci maggiori istituzioni terapeutiche
    americane erano di proprietà dei cattolici , che controllavano
    32
    complessivamente il 18% degli ospedali e il 20% dei letti
    ospedalieri, per un totale di 15 milioni di visite urgenti e 5,4
    milioni di ricoveri . Il problema è che per molte comunità gli
    ospedali cattolici rappresentano l’unica realtà esistente e che gran
    parte delle istituzioni religiose o semireligiose operano ignorando
    completamente le norme giuridiche vigenti in molti Stati. Questi
    comportamenti riguardano anche istituzioni non settarie, come
    quelle di ospedali affiliati e persino quelle di istituzioni che
    hanno acquistato ospedali religiosi e hanno accettato per
    contratto alcune delle limitazioni che questi si erano imposte.
    In Francia, agli inizi degli anni Settanta molto movimenti
    femminili facevano pressioni sul Governo per ottenere una legge
    più liberale sull’interruzione volontaria di gravidanza. Nel 1971
    343 donne francesi pubblicarono su Le Nouvel Observateur un
    manifesto in cui dichiaravano di aver abortito almeno una volta
    illegalmente. Due anni dopo si celebrò il processo a una ragazza,
    Michèle Chevalier, che a 16 anni aveva interrotto una gravidanza
    dopo essere stata violentata da un compagno di scuola.
    L’anomalia di questo evento stava anche nel fatto che era stato
    lo stupratore a denunciare la ragazza ( e sua madre) per aborto
    clandestino. Michèle fu difesa da Gisèle Halimi, la stessa che, in
    appoggio al manifesto delle 343 donne aveva fondato un
    movimento, Choisir, del quale era presidente Simone di
    Beauvoir. Alla fine del processo, che tenne a lungo le prime
    pagine dei giornali, e non solo dei giornali francesi, la ragazza fu
    assolta. Nel 1973 fu incriminata per aver eseguito una
    interruzione di gravidanza , una ginecologa, Annie Ferrey Martin
    : anche questo processo mobilitò l’opinione pubblica, molto
    colpita dalla giovane età della protagonista, una studentessa
    liceale sedotta da un uomo sposato e maturo. Un gruppo di
    medici, in appoggio alla loro collega, organizzarono un
    intervento di interruzione di gravidanza negli ambulatori del
    33
    Family Planning di Grenoble, per ottenere una incriminazione
    collettiva. L’intervento, al quale erano stati invitati molti
    giornalisti, fu vietato dal prefetto di polizia.
    Il diritto all’aborto, in Francia, risale a 1975, quando fu approvata
    la legge presentata da Simone Veil ( era presidente Giscard
    d’Estaing e primo ministro Chirac) La legge è stata modificata
    nel 2001 ( ad esempio il periodo legale per interrompere la
    gravidanza è passato dalla decima alla dodicesima settimana) ma
    in modo solo marginale. E’ stato calcolato che prima della legge
    Veil gli aborti in Francia fossero circa 300.000 all’anno e che da
    molti anni si siano stabilizzati intorno ai 200.000. L’IVG è legale
    ma le donne che intendono farvi ricorso incontrano difficoltà
    sempre maggiori. Ogni anno circa 2.500 donne superano il limite
    delle 12 settimane e debbono emigrare ( in Olanda, in Inghilterra
    e in Spagna). Negli ospedali pubblici i medici che praticano
    l’IVG sono sempre meno numerosi e le code si allungano.
    E’ opinione comune che su molte delle decisioni prese in
    Germania sui temi della riproduzione – l’aborto volontario, ad
    esempio, e le indagini genetiche sugli embrioni – abbia molto
    pesato il ricordo della drammatica esperienza nazista. Nel 1974
    la Germania ha riesaminato la legislazione in vigore – sulla base
    di una petizione popolare- e ha liberalizzato l’aborto nei primi tre
    mesi di gravidanza. Nel 1975 la Corte Costituzionale tedesca ha
    dichiarato le nuove norme incompatibili con quelle già esistenti a
    tutela della vita. Il problema riguardava la possibilità di abortire
    in assenza di una qualsiasi motivazione, cosa che fu considerata
    anticostituzionale: la Corte indicò invece come lecita la
    cosiddetta soluzione delle indicazioni (espressa enunciazione
    delle condizioni che rendono ammissibile l’aborto). Secondo la
    Corte, quindi, non esiste un diritto illimitato alla pratica abortiva,
    il che oltretutto “ è una reazione all’annientamento della vita, non
    degna di essere vissuta, alla soluzione finale e alle liquidazioni
    34
    attuate dal regime nazionalsocialista come compiti dello stato”.
    Secondo gli stessi giudici, “di fronte all’onnipotenza dello stato
    totalitario la Costituzione ha costruito un sistema di valori che
    pone il singolo uomo, con la sua dignità, al centro di tutte le sue
    norme. Dunque, non si può distruggere una vita senza una valida
    ragione che lo giustifichi , con l’unico limite del rischio di morte
    per la madre, o di una grave minaccia per la sua salute. Il
    Bundestag ha approvato dunque una legge più restrittiva che
    limita il diritto a ricorrere all’aborto legale. Il problema però si è
    riproposto dopo l’ unificazione delle due Germanie, perché la
    legge della ex Repubblica Democratica Tedesca – che era del
    1972 – disciplinava le materia secondo criteri che la
    giurisprudenza della Germania occidentale considerava
    anticostituzionali. E’ stata allora redatta una nuova normativa
    (luglio 1992) ulteriormente modificata l’anno seguente a seguito
    di un ulteriore intervento della Corte Costituzionale , poiché i
    giudici erano stati di nuovo critici nei confronti di un passaggio,
    che definiva “ non contrario alla legge” l’aborto -come
    espressione della libera scelta della donna -nelle prime 12
    settimane di gravidanza. Ancora oggi la giurisprudenza tedesca si
    distingue per il riconoscimento del diritto alla vita del concepito,
    uguale per dignità e valore a coloro che sono già nati. In ogni
    caso, le norme di quest’ultima legge, che risale al 1995,
    stabiliscono che non è punibile l’aborto richiesto da una donna,
    purché non siano passate più dodici settimane dal concepimento,
    purché presenti un certificato di un centro di consultazione e
    purché l’intervento sia eseguito da un medico. Si possono
    interrompere gravidanze dopo la dodicesima settimana solo per
    indicazioni mediche ( e non, ad esempio, in caso di stupro).
    La legge danese, approvata il 15 settembre del 1986, autorizza
    l’interruzione volontaria di gravidanza entro le 12 settimane di
    amenorrea ( cioè dieci settimane dal concepimento) e prevede
    35
    l’autorizzazione di una commissione ad hoc, chiamata in causa
    per giudicare una serie di casi per una serie di casi quando la
    gravidanza ha superato la dodicesima settimana. Tra questi
    motivi ci sono l’incesto e lo stupro, l’eccessiva giovinezza delle
    madre , la sua incapacità di occuparsi della famiglia e il rischio
    che il bambino nasca con anomalie fisiche o mentali. Per le
    minori non è prevista alcuna autorizzazione da parte dei genitori.
    L’articolo 286 del codice penale olandese considera
    l’interruzione volontaria della gravidanza come un reato; di
    conseguenza, la legge del 1° maggio 1981, entrata in vigore nel
    1984 e poi più volte modificata, indica in quali circostanze
    questo atto non rappresenta una infrazione. Il limite estremo per
    poter interrompere una gravidanza è indicato nelle 24 settimane,
    perché oltre quell’epoca si ritiene che il feto abbia raggiunto la
    condizione di vitalità. La ragione per richiedere l’interruzione di
    gravidanza è unica e viene indicata come “lo stato di necessità”.
    Per quanto riguarda le ragazze che hanno meno di 16 anni è
    previsto il consenso dei genitori, che però non hanno l’ultima
    parola, che spetta sempre al minore.
    In Svizzera era l’articolo 120 del codice penale, in vigore dal 1°
    gennaio del 1942, che precisava le situazioni nelle quali
    l’interruzione volontaria della gravidanza non era punibile:
    nell’articolo non erano indicati particolari scadenze ed era preso
    in considerazione un solo motivo: un pericolo che non può essere
    altrimenti evitato e che minaccia la vita della madre o mette a
    repentaglio la sua salute in modo grave e permanente. La donna
    doveva firmare un consenso e l’intervento doveva essere eseguito
    da un medico e approvato da un secondo sanitario.
    L’interpretazione del concetto di salute non era la stessa in tutti i
    Cantoni: per alcuni la definizione corretta coincideva con quella
    dell’OMS, secondo la quale la salute non consiste solo
    nell’assenza della malattia, ma è uno stato di completo benessere
    36
    fisico, psicologico e sociale; in altri Cantoni le definizioni erano
    molto più restrittive. Ne conseguiva che l’interpretazione della
    legge cambiava di luogo in luogo e che molte cittadine svizzere
    erano spesso costrette a cercare assistenza nei Cantoni più
    liberali. Le minorenni non avevano bisogno dell’approvazione
    dei genitori, in quanto la legge presumeva che fossero
    sufficientemente capaci di discernere.
    La pratica dell’IVG non ha però mai smesso di liberalizzarsi e tra
    il 1970 e il 2002 il numero di cantoni “liberali “è passato da 6 a
    19.
    Il diritto delle donne di decidere da sole se interrompere una
    gravidanza non desiderata ( la cosiddetta soluzione dei termini) è
    stato oggetto di un referendum il 2 giugno 2002: la soluzione dei
    termini è stata approvata con una maggioranza del 72,2%, mentre
    l’iniziativa estremista che chiedeva il divieto dell’aborto è stata
    respinta con l’81,7% dei voti. Attualmente la Svizzera è in testa
    al piccolo gruppo di paesi che hanno la percentuale più bassa di
    aborti e i dati del 2006 ( meno di 7 aborti per 1000 donne in età
    riproduttiva) confermano questo primato.
    Gli aborti clandestini – circa 50.000 all’anno negli anni sessanta –
    sono praticamente scomparsi e attualmente le IVG legali non
    sono più di 11.000, con un tasso di 6,6 aborti per mille donne in
    età riproduttiva e di 14 aborti per 100 nascite. Tra l’altro sono
    assai poco rappresentate le adolescenti, mentre figurano in
    elevata percentuale straniere e immigrate.
    La legge spagnola, approvata il 5 luglio 1985 , ha modificato
    l’articolo 417 bis del vecchio codice penale precisando le
    condizioni nelle quali l’interruzione volontaria della gravidanza
    non costituisce un reato. Tra l’altro questo articolo 417 bis è
    rimasto in vigore anche dopo l’abrogazione del vecchio codice e
    la sua sostituzione con il nuovo. L’aborto non è punibile quando
    37
    è richiesto da una donna e questa richiesta è stata approvata da
    uno specialista, che non deve essere lo stesso che eseguirà
    l’intervento. La motivazione della richiesta deve riguardare il
    rischio che la gravidanza metta in pericolo la salute fisica o
    psicologica della donna. Non viene stabilito in assoluto un
    preciso limite di tempo. Se la gravidanza è la conseguenza di
    uno stupro, l’interruzione può essere praticata prima della fine
    della dodicesima settimana di gestazione, mentre se sono state
    diagnosticate gravi malformazioni o deficit mentali del prodotto
    del concepimento l’interruzione può essere eseguita entro la
    ventiduesima settimana, con l’unica clausola che i danni del feto
    debbono essere certificati da due diversi specialisti. Le minorenni
    hanno bisogno del consenso dei genitori. Anche se negli ultimi
    anni la pratica si è notevolmente liberalizzata, nel 2007 è stata
    proposta una soluzione dei termini: la decisione passerebbe
    completamente alla donna e il limite dovrebbe essere spostato al
    termine della 14a settimana di gravidanza.
    Il Belgio ha precisato, con una legge approvata il 3 aprile 1990,
    le circostanze nelle quali l’aborto non costituisce un reato. La
    richiesta della donna deve essere prima presentata al medico e
    poi ribadita per iscritto, almeno sei giorni dopo la prima
    consultazione, al momento dell’intervento che deve comunque
    essere eseguito entro dodici settimane dopo il concepimento. Il
    limite delle dodici settimane si applica anche ai casi di stupro,
    mentre può essere superato se esiste un pericolo grave per la
    salute della donna o quando sono state diagnosticati importanti
    deficit o condizioni morbose gravi e incurabili del feto. In linea
    di principio c’è bisogno del consenso dei genitori per i minori,
    ma l’Ordine dei medici chiede che si tenga conto del possibile
    raggiungimento dell’età della ragione, quella che consente di
    discernere e la cui presenza può essere riconosciuta solo dal
    38
    medico. Dopo l’approvazione del Parlamento la legge avrebbe
    dovuto essere ratificata dal Re del Belgio, Baldovino, che- da
    buon cattolico – rifiutò di farlo, dichiarando che la sua coscienza
    glielo impediva. Il Re chiese al Primo Ministro di trovare una
    soluzione giuridica che gli consentisse di agire secondo i propri
    principi e che contemporaneamente non creasse ostacoli alla
    democrazia parlamentare. La legge è stata così ratificata dai
    ministri riuniti in consiglio, utilizzando la previsione
    costituzionale che prevede che le funzioni del re siano così
    sostituite quando egli è per qualche ragione nell’impossibilità
    temporanea di assolverle. Qualcosa del genere è accaduto nel
    1994 in Polonia, protagonista il cattolico Lech Walesa,
    presidente della repubblica. Il 13 aprile del 2007, cercando di
    approfittare della maggioranza ottenuta in Parlamento, i cattolici
    polacchi hanno cercato di inserire nella Costituzione il concetto
    di “protezione della dignità umana fin dal concepimento”, ma la
    proposta non è stata approvata per un pugno di voti.
    Anche il Portogallo ha approvato una legge che legalizza l’aborto
    volontario entro le prime 10 settimane di gravidanza, dopo un
    referendum che è stato caratterizzato soprattutto da un’astensione
    del 60% degli aventi diritto al voto. La legge è in vigore dal 15
    luglio 2007. In passato era stato calcolato che nel paese c’erano
    circa 20.000 aborti clandestini ogni anno, con interventi piuttosto
    rari della magistratura e della polizia.
    Nel Liechtenstein il Parlamento ha respinto, nell’aprile del 2007,
    la proposta di creare una commissione cui affidare l’incarico di
    elaborare una legge anche solo un po’ più permissiva di quella
    attualmente in vigore. In precedenza era stata anche avanzata una
    proposta di vietare totalmente l’aborto, proposta bocciata nel
    novembre del 2005 da un referendum.
    39
    Fino a non molto tempo fa, il paese più antiabortista in Europa
    era certamente l’Irlanda, dove continuava ad essere in vigore la
    legge vittoriana sull’aborto, promulgata dal Parlamento di
    Londra nel 1861 ( Offences Against the Person Act): la legge
    considerava reato sottoporsi a una interruzione di gravidanza o
    aiutare una donna a farlo e fissava come condanna la
    carcerazione fino all’ergastolo. Nel 1967 il parlamento britannico
    ha legalizzato l’aborto volontario in Gran Bretagna, abrogando
    gli articoli 58 e 59 della legge del 1861, ma senza estendere
    questa abrogazione alle sei contee dell’Irlanda del Nord; anche le
    26 contee della repubblica hanno mantenuto in vigore la legge
    vittoriana.
    Nel 1983 nella repubblica irlandese un referendum popolare ha
    approvato, con una maggioranza dei due terzi dei voti validi,
    l’inserimento di un emendamento nell’articolo 40.3 della
    Costituzione che dice: “ Lo stato riconosce il diritto alla vita del
    non ancora nato , nel rispetto dell’uguale diritto alla vita della
    madre e garantisce nelle sue leggi di rispettare e, per quanto
    possibile di difendere e tutelare tale diritto con leggi opportune”.
    Un nuovo referendum, nel 1992, ha approvato l’inserimento
    nello stesso articolo di due nuovi paragrafi che tutelano il diritto
    di viaggiare e di ricevere informazioni sull’interruzione
    volontaria della gravidanza, assicurando alle donne irlandesi il
    diritto di abortire nelle strutture pubbliche della Gran Bretagna.
    Nel 1995 , allo scopo di dare articolazione legale agli
    emendamenti del 1992, il Parlamento ha approvato la “Legge
    sulla Regolamentazione dell’Informazione “ che stabilisce le
    condizioni in cui possono essere date informazioni riguardo
    all’interruzione volontaria della gravidanza. Rimaneva tuttavia
    una lacuna nella legislazione ordinaria, che riguardava la
    legittimità dell’interruzione di gravidanza nel caso di rischio di
    suicidio della donna incinta.
    40
    Nel marzo del 2002 è stato sottoposto a referendum popolare il
    “ Disegno di legge per il venticinquesimo emendamento alla
    costituzione (protezione della vita umana durante la gravidanza)
    “presentato dal Governo e approvato dal Parlamento. Il
    referendum riguardava due commi o sottosezioni da aggiungere
    all’articolo 40.3. Il primo comma dichiarava : “In particolare la
    vita nell’utero del non ancora nato verrà protetta da quanto viene
    stabilito dalla legge per la protezione della vita umana durante la
    gravidanza del 2002”. Il secondo comma stabiliva che la legge in
    questione non avrebbe potuto essere cambiata dal solo
    Parlamento, ma che ogni cambiamento avrebbe dovuto essere
    sottoposto a un referendum popolare. La legge proposta
    eliminava il rischio di suicidio della donna incinta quale motivo
    legalmente accettabile di interruzione della gravidanza, una
    modifica attesa e che quasi tutti i parlamentari ritenevano
    necessaria. In una seconda parte, però, definiva l’aborto
    volontario come “distruzione intenzionale, effettuata con
    qualsiasi mezzo, della vita umana non ancora nata dopo che sia
    stata innestata nell’utero”. Questa definizione poneva
    esplicitamente fuori dalla protezione della nuova legge
    l’embrione non impiantato, salvaguardando la legalità della
    pillola del giorno dopo e della spirale e aprendo la porta alla
    sperimentazione sugli embrioni in vitro e alla produzione di
    cellule staminali embrionali. Le ragioni della richiesta di questa
    modifica della legge, evidentemente in aperto contrasto con il
    principio guida delle gerarchie ecclesiastiche romane, non sono
    mai state del tutto chiarite. Tra le altre cose l’approvazione di
    queste modifiche avrebbe vanificato i dichiarati intenti dei gruppi
    cattolici più radicali che progettavano sottoporre al Parlamento
    alcuni disegni di legge rivolti a limitare scelte e comportamenti
    in campo riproduttivo che venivano considerati immorali. Si
    pensi, ad esempio, che in Irlanda vengono consumate, ogni anno,
    oltre 250.000 pillole post-coitali, e che era già stata resa nota
    41
    l’intenzione di proibire la vendita del farmaco, un progetto che
    l’emendamento proposto dal governo avrebbe reso inutile.
    La legge stabiliva infine che un procedimento abortivo eseguito
    da un medico in un luogo riconosciuto ufficialmente dal
    Ministero della Sanità, eseguito per prevenire un rischio reale ed
    elevato di morte della donna gravida non sarebbe stato
    considerato aborto volontario; dalle motivazioni accettate era
    però escluso il rischio di suicidio.
    Per comprendere le ragioni che hanno sollecitato certi gruppi
    sociali o religiosi a schierarsi per il sì o per il no bisogna
    conoscere a fondo la situazione politica e la storia del paese,
    anche perché la posta in gioco non era la legalizzazione
    dell’aborto volontario, illegale in tutte le contee e che tale
    sarebbe rimasto quale che fosse stato l’esito del referendum.
    C’è anche da sottolineare al fatto che il diritto all’aborto, in
    Irlanda, non ha forti motivazioni: le donne che vogliono abortire,
    lo fanno nelle strutture pubbliche inglesi, con un costo
    complessivo di circa 500 euro, viaggio incluso e non si
    registrano casi di aborto clandestino. Era piuttosto in discussione
    l’influenza della Chiesa cattolica sulle leggi dello Stato e
    sull’opinione pubblica e la sua capacità di far coincidere le leggi
    dello stato con quelle della Chiesa.
    In questa occasione l’episcopato irlandese ha cercato, con
    qualche opportunismo pragmatico, di riaffermare la propria
    posizione anti-aborto inserendola nelle leggi dello stato, ma ha
    contemporaneamente voluto ottenere un vantaggio su un altro
    terreno, andando incontro alle posizioni del governo in cambio di
    un sostegno economico. Incombeva sui vescovi la questione
    degli ingenti risarcimenti da destinare alle centinaia di vittime di
    abusi sessuali compiuti da membri del clero soprattutto nel
    periodo tra il 1950 e il 1970, (l’apogeo del potere della Chiesa
    cattolica nell’isola) ai danni di bambini affidati alle loro cure
    nelle molte istituzioni che essi gestivano. Il potere che la Chiesa
    esercitava sul paese e la deferenza acritica della popolazione nei
    42
    confronti del clero avevano mantenuto il segreto su questi eventi
    fino agli anni Novanta. I discreti negoziati tra episcopato e
    governo avevano prodotto un compromesso: il governo
    accettava che l’onere maggiore di questi risarcimenti venisse
    assunto dallo Stato e la Chiesa dava la sua approvazione alla
    proposta governativa sull’aborto, anche se era in chiaro dissenso
    con la linea ufficiale della Chiesa romana. I gruppi cattolici
    integralisti hanno rifiutato questo compromesso e si sono
    schierati a favore del no, accusando l’episcopato di aver “
    barattato la morale con i soldi” e svenduto la difesa della vita in
    cambio di vantaggi politici.
    Solo il 42% dei cittadini irlandesi ha votato per il referendum,
    che si è concluso quasi in pareggio ( 49,58% di sì, 50,42% di no),
    un risultato ambiguo che non consente a nessuno di cantare
    vittoria. I commentatori politici hanno però indicato gli sconfitti
    di questa competizione. Anzitutto la Chiesa cattolica, nella sua
    dimensione di organismo politico diretto dall’episcopato, che ha
    pagato caramente il suo tentativo di compromesso, considerato
    immorale da molto fedeli. Significativo il commento del
    giornale cattolico The Irish Catholic: “ I vescovi hanno investito
    gran parte della propria autorità a favore di questo emendamento
    costituzionale e la sconfitta che esso ha subito ha reso chiara e
    impossibile da negare una cosa, cioè che la loro autorità è ormai
    respinta , implicitamente o in modo aperto, non solo da molti
    cattolici liberali, ma anche da molti cattolici conservatori.
    Se persino i conservatori non ubbidiscono più ai vescovi, allora i
    vescovi sono davvero nei guai”. Sconfitti, insieme alla chiesa,
    sono stati anche alcuni movimenti politici, come l’ala del Fianna
    Fàil legata all’episcopato, il partito dei democratici progressisti e
    alcuni personaggi politici saliti, certo non casualmente, sul carro
    sbagliato. Si tenga comunque anche conto del fatto che il 9
    agosto del 2005 l’Associazione Irlandese di Pianificazione
    Familiare ha inoltrato ricorso alla Corte Europea per i diritti
    43
    dell’uomo contro le norme esistenti attualmente in Irlanda in
    materia di aborto volontario.
    Aggiungo ancora due cose a proposito dell’Europa: il Parlamento
    Europeo, il 26 settembre del 2002, ha raccomandato ai paesi
    membri di legalizzare l’aborto; nel luglio del 2004 la Corte
    Europea per i diritti dell’uomo ha rifiutato di attribuire la qualità
    di persona all’embrione e al feto.
    Ho già commentato le posizioni dei differenti paesi islamici in
    materia di inizio della vita personale, posizioni che naturalmente
    condizionano le varie legislazioni in materia di aborto volontario.
    Ad esempio:
    Afghanistan, Iran, Egitto, Oman, Siria, Yemen, autorizzano
    l’interruzione della gravidanza solo quando è dimostrata
    l’esistenza di uno stato di necessità, cioè di un rischio
    significativo per la vita della madre;
    Algeria, Marocco, Giordania, Pakistan, Arabia Saudita,
    estendono il consenso ai casi in cui il rischio riguarda la salute
    fisica e psicologica della donna;
    Kuwait e Qatar, ammettono l’aborto anche nei casi in cui sia
    dimostrata l’esistenza di una malformazione fetale;
    Tunisia e Turchia, che hanno approvato norme più simili a
    quelle della maggior parte dei paesi occidentali, ammettono
    motivazioni basate sul disagio economico e sociale oltre a quelle
    della violenza carnale e dell’incesto;
    l’Etiopia ha approvato, l’11 giugno del 2005 una normativa che
    ammette l’interruzione volontaria della gravidanza se esistono
    rischi per la salute fisica o mentale della madre, in caso di stupro,
    se sono state accertate malformazioni fetali e se la ragazza
    incinta è considerata troppo giovane per potersi assumere l’onere
    dell’educazione di un figlio.
    44
    Recentemente (aprile del 2007) il Distretto Federale di Città del
    Messico ( otto milioni e mezzo di abitanti) ha approvato una
    legge che depenalizza l’aborto entro le prime 12 settimane di
    gravidanza, legge contro la quale è già stato presentato un ricorso
    alla Corte Suprema.
    Nell’America Latina, continua comunque a distinguersi il
    Nicaragua che, il 18 Novembre del 2006, ha approvato il divieto
    assoluto dell’aborto volontario: anche nei confronti di questa
    legge c’è un ricorso per anti-costituzionalità, che ha poche
    probabilità di essere accolto.
    L’aborto nel mondo
    Molte Istituzioni e molte agenzie hanno cercato di riportare dati
    corretti sul numero di aborti eseguiti nei paesi nei quali
    l’interruzione della gravidanza è autorizzata dalla legge, e tutti
    ammettono di aver incontrato molte difficoltà. Ci sono paesi
    come la Corea del Sud che non hanno un registro nazionale; in
    alcune parti del mondo, come nella Federazione russa, può
    accadere che le statistiche tengano conto degli aborti spontanei e
    non degli aborti procurati nelle primissime settimane di
    gravidanza. In Cina, le statistiche del Ministero della Sanità non
    tengono conto degli aborti procurati con il mifepristone ed
    escludono spesso i dati relativi alle donne non sposate; inoltre
    possono mancare dati di alcuni ospedali e ci sono province che
    non li raccolgono anche per interi anni.
    Con tutta l’approssimazione che deriva da queste difficoltà,
    comunque qualche valutazione generale la si può azzardare. Il
    Family Planning International ha calcolato che nel 1995 ci sono
    stati, nel mondo, più di 45 milioni di aborti, 20 dei quali illegali.
    45
    Se consideriamo l’indice più significativo (l’abortion rate,
    numero di aborti per 1000 donne in età riproduttiva; l’altro indice
    è l’abortion ratio, cioè il numero di aborti per 100 gravidanze),
    risulta ampiamente in testa il Vietnam con un 85 per 1000 (il
    significa che una donna vietnamita ha in media 2,5 aborti durante
    la sua vita riproduttiva), che oltretutto riguarda soltanto i dati del
    settore pubblico; se si include anche il settore privato s arriva al
    111 per mille . Difficile stabilire quanti siano gli aborti in
    Romania, perché i dati del settore privato mancano quasi
    completamente dalle statistiche. Nel 1956 l’abortion rate di
    queso Paese era di 252 per 1000, ma l’indice era sceso a 182 nel
    1990 e addirittura a 30 nel 2004 . I dati della Cina (78 per 1000)
    includono i controlli mestruali, che vengono eseguiti senza un
    test di gravidanza preliminare che hanno rappresentato fino al
    60% degli interventi, e che non tengono conto di tutti gli aborti
    farmacologici.
    Degli altri paesi con elevati indici di abortività, molti facevano
    parte dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche. I dati
    dovrebbero essere completi peraltro solo per quattro di questi
    Stati, Bielorussia (51,3 per 1000). Estonia (53,8), Kazakistan
    (43,9 per 1000) e Lettonia (44,1 per 1000), mentre ci sono molti
    dubbi per tutti gli altri, dalla Russia all’Armenia, all’Ucraina alla
    Georgia. Malgrado l’incompletezza dei dati Russia e Bielorussia
    hanno indici molto elevati, rispettivamente pari al 55,3 e al 67,5
    per 1000; in questi paesi ci sono anche moltissimi aborti illegali,
    una dato che risulta indirettamente dalle migliaia di casi trattati
    annualmente in questi paesi per complicazioni dovute proprio ad
    aborti clandestini.
    In Europa, indici inferiori al 10 per 1000 vengono attribuiti a
    Belgio, Germania, Olanda , Svizzera e Spagna. I dati relativi
    all’Irlanda sono falsati dal fatto che i centri inglesi che praticano
    l’interruzione delle gravidanze di queste donne spesso non
    registrano il loro indirizzo in Irlanda, e questi interventi non
    vengono perciò inseriti nelle statistiche. La Finlandia ha un
    46
    indice di poco superiore a 10, un punto meno dell’Italia, e sotto a
    20 si trovano Danimarca, Canada, Lituania, Norvegia, Francia,
    Svezia.; sopra a 20 si incontrano Stati Uniti, Ungheria e Bulgaria.
    Nei paesi che non ammettono l’interruzione della gravidanza o la
    limitano notevolmente, sono naturalmente molto numerosi gli
    aborti illegali, eseguiti in parte in luoghi tecnicamente ed
    igienicamente affidabili, in parte da personale poco esperto e in
    condizioni igieniche inaccettabili. Ciò fa fluttuare notevolmente
    la percentuale di complicazioni di varia gravità e l’indice di
    ospedalizzazione, che può variare dal 3 al 15 per mille. Sia per
    questi dati che per l’indice di mortalità gli epidemiologi si
    dichiarano incapaci di calcolare cifre che non siano a rischio di
    errore. Quello che sappiamo è che nei paesi nei quali esiste ed è
    diffuso, l’aborto clandestino è la causa più importante di
    mortalità materna in gravidanza, con cifre particolarmente
    impressionanti in Africa e in alcuni paesi del Sud America.
    I dati più recenti dell’OMS (10 novembre 2006) sono comunque
    questi: ogni anno muoiono, nel mondo, oltre cinquecentomila
    donne per complicazioni dovute alla gravidanza e al parto; ogni
    anno si verificano più di ottanta milioni di gravidanze non
    desiderate e quarantacinque milioni di esse vengono interrotte; è
    stato calcolato – con i limiti di errore ai quali ho accennato – che
    diciannove milioni di questi quarantacinque sono eseguiti in
    condizioni che rappresentano un rischio per la vita o per la salute
    delle donne; ne consegue che ogni anno tra settantamila e
    centomila donne muoiono di aborto e che alcuni milioni di donne
    accusano menomazioni di vario genere secondarie soprattutto a
    complicazioni infettive.
    L’aborto in Italia
    L’Italia, paese profondamente cattolico e, oltre tutto, sede
    dell’autorità pontificia, si è avvicinata alla discussione di una
    47
    legge sull’interruzione volontaria della gravidanza con e
    altrettante perplessità. Al momento dell’approvazione della
    Costituzione , nell’immediato dopoguerra, erano rimaste a
    regolare la vita quotidiana dei cittadini un gran numero di leggi
    fasciste, tra le quali apparvero particolarmente difficili da
    smantellare quelle relative al controllo delle nascite, perché sia le
    norme che proibivano persino la propaganda anticoncezionale
    che quelle che condannavano a pene molto severe chiunque si
    fosse trovato implicato in una interruzione di gravidanza avevano
    l’appoggio incondizionato del principale partito polittico del
    paese, la Democrazia Cristiana, che si accingeva a governare per
    molti lustri l’Italia. Il cambiamento di queste norme giuridiche
    avrebbe richiesto tempi ancor più lunghi se i movimenti laici e i
    movimenti femminili non avessero trovato solidarietà e
    comprensione nella Magistratura.
    Il primo tentativo di richiamare l’attenzione sul problema
    dell’aborto clandestino è da accreditare a Noi Donne, settimanale
    dell’Unione Donne Italiane, un importante movimento che
    raccoglieva soprattutto donne iscritte a partiti della sinistra, da
    quello comunista a quello repubblicano. Il giornale pubblicò una
    inchiesta intitolata “I figli che non nascono” che portò alla luce
    per la prima volta le miserie e le sofferenze dell’aborto
    clandestino. Si trattava tra l’altro di un problema che sottolineava
    ancora una volta i diversi destini delle differenti classi sociali: la
    borghesia trovava asilo in cliniche private di lusso o passava il
    confine per cercare soluzione ai suoi problemi in Svizzera,
    mentre le persone meno abbienti dovevano ricorrere all’opera di
    vecchie artigiane dell’aborto che se la cavavano come potevano e
    si rendevano spesso responsabili di veri e propri disastri,
    perforando uteri, causando gravi infezioni pelviche o usando in
    modo scorretto decotti e pozioni che talora si rivelavano mortali.
    A partire da 1973 ebbero particolare risonanza alcuni processi
    che riguardavano giovani donne e che rappresentavano casi
    umani ai quali il paese finì col guardare con simpatia. Nel 1974
    48
    il procuratore della repubblica di Torino incriminò 263 donne per
    procurato aborto : l’inchiesta era stata motivata dalla morte di
    una ragazza, ricoverata in ospedale per le complicazioni seguite a
    un aborto clandestino. Il ginecologo responsabile teneva in
    bell’ordine nel suo ambulatorio le cartelle cliniche delle sue
    pazienti, e ciò permise al magistrato di incriminarle tutte. In
    quella occasione cominciarono a muoversi gli iscritti al Partito
    Radicale e in particolare il Movimento di liberazione della
    Donna, fondato nel 1971, e il CISA ( Centro Informazioni
    Sterilizzazione e Aborto) che Adele Faccio aveva fondato nel
  1. Quasi tutti i gruppi femminili intervennero, organizzando
    manifestazioni e campagne di stampa , affrontando insieme il
    problema del controllo delle nascite e quello della
    liberalizzazione dell’aborto. Un grande contributo a queste
    campagne fu offerto dall’AIED (Associazione Italiana
    educazione Demografica ) e dal suo presidente Luigi De Marchi.
    Nel gennaio del 1975 la polizia arrestò Gianfranco Spadaccia,
    segretario del Partito radicale, Adele Faccio e un ginecologo di
    Firenze, il dottor Conciani, in una clinica di Firenze nella quale si
    praticavano aborti, e si chiarì subito il pieno coinvolgimento dei
    radicali e in particolare di Marco Pannella, che era il loro Leader.
    Nello stesso periodo divennero molto attivi i movimenti
    femministi, che organizzarono centri di self-help nei quali le
    gravidanze venivano interrotte con una tecnica di aspirazione del
    contenuto uterino , il cosiddetto metodo Karman, che utilizzava
    sistemi elementari come le pompe generalmente usate per
    gonfiare le ruote delle biciclette.
    A partire dal gennaio del 1975 l’Espresso, insieme alla lega del
    13 maggio ( data della vittoria del referendum che era stato
    inutilmente promosso dai cattolici contro il divorzio) aveva
    intrapreso una campagna per promuovere un nuovo referendum
    per abrogare gli articoli del codice penale che vietavano
    l’interruzione volontaria della gravidanza. La campagna era stata
    aperta il 19 gennaio da una copertina del settimanale che ritraeva
    49
    una donna nuda, gravida, crocefissa. Il titolo: “Aborto: una
    tragedia italiana”. Nel 1976 scoppiò il caso di Seveso, un paese
    della Brianza dove era esploso un reattore di una fabbrica chimica
    , l’ICMESA, di proprietà della multinazionale svizzera Hoffmann-
    La Roche. L’esplosione causò la formazione di una vera e propria
    nube di diossina, una sostanza che può essere responsabile di
    gravi malformazioni fetali. I giornali avevano accusato le autorità
    di non informare le donne del rischio che i loro figli stavano
    correndo e della possibilità di ricorrere all’aborto terapeutico, che
    era comunque disponibile. Alla fine furono interrotte 26 delle 462
    gravidanze accertate dagli ambulatori ginecologici e fece molto
    scalpore il fatto che la prima interruzione fosse eseguita da
    Giovanni Battista Candiani, professore universitario
    dell’Università di Milano, cattolico e uomo assai stimato per il suo
    alto senso della morale.
    Ho detto che la magistratura diede un importante contributo alla
    battaglia che era ormai in atto per cancellare le norme più
    retrograde del vecchio codice penale fascista. Il primo di questi
    aiuti risale addirittura al 1971, quando la Corte Costituzionale
    abrogò la norma che impediva la diffusione e il commercio dei
    metodi anticoncezionali, aprendo finalmente la strada al controllo
    delle nascite. Ma la vera novità fu introdotta dalla sentenza n 27
    del 18 febbraio 1975, sulla quale conviene spendere qualche
    parola.
    La Corte ritenne fondata la questione sollevata con ordinanza del
    giudice istruttore di Milano (2.10.1972) che denunciava
    l’illegittimità costituzionale dell’articolo 546 del codice penale in
    riferimento agli articoli 31 e 32 della Costituzione “nella sola
    parte in cui punisce chi cagiona l’aborto di donna consenziente e
    la donna stessa, anche quando sia accertata la pericolosità della
    gravidanza per il benessere fisico e per l’equilibrio psichico della
    gestante, ma senza che ricorrano tutti gli estremi dello stato di
    necessità previsto dall’articolo 54 del codice penale”.
    50
    La decisione fu molto importante perché il riferimento
    all’equilibrio psicologico della gestante aprì una strada che
    poteva essere percorsa in molte e differenti circostanze. Ma ecco
    i punti fondamentali della decisione:
  • il prodotto del concepimento è stato alternativamente ritenuto
    semplice parte dei visceri materni, speranza di uomo, soggetto
    animato fin dall’inizio, persona solo dopo un periodo più o
    meno lungo di gestazione.,
  • la situazione giuridica del concepito, sia pure con le particolari
    caratteristiche sue proprie, non può non collocarsi tra i diritti
    inviolabili dell’uomo, riconosciuti e garantiti dall’articolo 2
    della Costituzione;
  • questa premessa giustifica di per sé l’intervento del legislatore
    rivolto a prevedere sanzioni penali;
  • l’interesse costituzionalmente protetto relativo al
    concepimento può venire in collisione con altri beni che
    godano pur essi di tutela costituzionale e, di conseguenza, la
    legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta,
    negando ai secondi adeguata protezione;
  • non esiste equivalenza fra (id est, vi è prevalenza del) diritto,
    non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già
    persona come la madre, e la salvaguardia dell’embrione, che
    persona deve ancora diventare;
  • è obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per
    impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti
    sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe
    derivare alla madre dal progredire della gestazione: e perciò la
    liceità dell’aborto deve essere ancorata a una previa
    valutazione della sussistenza delle condizioni atte a
    giustificarla.
    Con questa sentenza, molto criticata – ovviamente per opposti
    motivi – sia da parte laica che da parte cattolica, la Corte
    affermava che il nascituro non è ancora persona , ma
    contemporaneamente individuava il fondamento costituzionale
    51
    della tutela del concepito mediante un richiamo ai diritti
    inviolabili dell’uomo. Su questo punto la decisione della Corte
    apparve a molti contraddittoria, perché da un lato affermava che
    l’embrione non era persona, dall’altro lo considerava titolare dei
    diritti inalienabili dell’uomo. A molti parve di potere interpretare
    l’opinione della Corte nel senso che l’embrione ( e poi il feto)
    doveva essere salvaguardato per il valore che gli veniva
    attribuito dal fatto di poter diventare persona e la tutela di questa
    speranza di vita veniva ricollegata alla tutela che la Costituzione
    garantisce a chi è già persona, cioè al nato. Il richiamo
    all’articolo 2 era dunque solo mediato e la Corte lo chiariva in
    modo esplicito: “l’articolo 2 della Costituzione riconosce e
    garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, ai quali non può
    ricollegarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie,
    la situazione giuridica del concepito”.
    Solo in questa prospettiva si giustificava dunque il fatto che il
    diritto alla vita e alla salute (intesa come benessere fisico ed
    equilibrio psichico) proprio di chi è già persona, potesse
    prevalere sulla salvaguardia dell’embrione, che persona deve
    ancora diventare.
    In sostanza la Corte Costituzionale riconosceva che la tutela del
    concepito –speranza di vita, uomo in divenire – si ricollega
    all’articolo 2 della Costituzione il che giustifica un intervento del
    legislatore anche con sanzioni penali, ma ha anche stabilito che
    altri intessi, quelli di chi persona è già, possono entrare in
    conflitto con la salvaguardia del feto e possono essere ritenuti
    prevalenti, possibilità che toglie ogni fondamento alla sanzione
    penale. Questa decisione – che riguarda solo il caso che era stato
    sottoposto al giudizio della Corte – aveva lasciato aperto un
    problema, quello della possibile esistenza di altre situazioni
    capaci di entrare in conflitto con la tutela del nascituro.
    Questa sentenza ha evidentemente escluso dall’area di ciò che è
    penalmente vietato l’aborto terapeutico – inteso in una accezione
    52
    molto ampia, se si considera il riferimento esplicito all’equilibrio
    psichico della gestante – aprendo la via al legislatore per una
    depenalizzazione (condizionata a certe situazioni) dell’aborto
    motivato da indicazioni sociali e dell’aborto eugenetico – fatta
    salva la possibilità di comprendere il problema delle
    malformazioni fetali tra quelli che sono responsabili di un danno
    psicologico della madre.
    Un ulteriore passo avanti sulla strada della modernizzazione del
    paese, soprattutto per quanto concerne la pianificazione della
    famiglia, è stata certamente l’approvazione della legge 405/1975
    sull’istituzione dei consultori familiari. Nella legge si
    attribuiscono a questi servizi compiti che fino a pochi anni prima
    sarebbero stati impensabili, come “la somministrazione dei mezzi
    necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla
    coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile, nel
    rispetto delle convinzioni etiche e della integrità fisica degli
    utenti”. Due straordinarie novità: la procreazione non è più un
    dovere, ma una scelta, collegata con la responsabilità dei
    soggetti.; esistono differenti visioni morali del mondo che
    debbono essere tutte ugualmente rispettate.
    Per almeno cinque anni nel Parlamento italiano c’è stato un
    dibattito che in qualche momento è diventato piuttosto rovente.
    La prima proposta di legge risale addirittura al 1973 ed è stata
    presentata da Loris Fortuna, un socialista; hanno fatto seguito le
    proposte presentate dai socialdemocratici, dai comunisti, dai
    repubblicani e dai liberali. Persino la Democrazia Cristiana ha
    elaborato un progetto che però non prevedeva la
    depenalizzazione del reato, ma si limitava ad indicare alcune
    attenuanti, come il dubbio di malformazioni del feto, lo stupro,
    l’esistenza di condizioni economiche e sociali così disagiate da
    far considerare impossibile il mantenimento del figlio.
    Naturalmente sono intervenuti nel dibattito quasi tutti gli
    intellettuali italiani, che hanno preso ovviamente differenti
    posizioni: si era comunque diffusa la sensazione che l’opinione
    53
    pubblica fosse ogni giorno di più in favore della legalizzazione
    dell’aborto.
    Nel 1977 il Parlamento costituì una Commissione ristretta della
    quale facevano parte rappresentanti di tutti i partiti che avevano
    presentato una proposta di legge; La Commissione elaborò un
    progetto unificato che fu approvato dalla Commissione giustizia
    della Camera e poi dall’aula della Camera stessa, ma fu poi
    bocciato in Senato dove si votò a scrutinio segreto, un voto
    viziato da una innaturale alleanza tra democristiani e missini e
    nel quale si contarono almeno sette franchi tiratori. Si trattò di un
    vero colpo di mano che ebbe fortissime risonanze nel Paese : ma
    la legge, con un testo molto simile a quello elaborato dalla
    commissione ristretta, fu definitivamente approvata l’anno
    successivo, e l’ultimo “sì” arrivò proprio dal Senato con 160 voti
    contro 148. Questa legge (194/1978) fu sottoposta a referendum
    abrogativo tre anni dopo e superò la prova con il 68% di voti
    contrari.
    La legge 194
    La legge 194 ha contenuti molto complessi sui quali ancora
    dibattono, con qualche accanimento, medici, filosofi, biologi e
    bioeticisti. Anche se il significato più concreto e più profondo
    della legge è ben chiaro – si tratta di riconoscere alle donne il
    diritto di interrompere la gravidanza in particolari circostanze –
    non si può evitare di ammettere la fondamentale ambiguità del ti
    titolo – Norme per la tutela sociale della maternità – e dei primi
    due commi dell’articolo 1 –Lo stato garantisce il diritto di
    procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore
    sociale della maternità e tutela la vita umana fin dal suo inizio
    ….L’interruzione volontaria della gravidanza ….non è mezzo di
    controllo delle nascite -. In realtà, molte delle parole spese per
    definire e commentare queste nuove norme sono il risultato di un
    compromesso e contengono una certa quantità di ipocrisie. Solo
    54
    per fare un esempio, se lo stato tutela la vita umana fin dal suo
    inizio, sarà bene che questo inizio venga definito con precisione,
    visto che ci sono almeno una dozzina di definizioni possibili e
    che su questo tema bioeticisti e biologi si stanno dilaniando da
    tempi immemorabili. Se poi si vuole essere minimamente
    credibili, è necessario inserire meccanismi che impediscano
    l’uso della interruzione di gravidanza come anticoncezionale, una
    generica dichiarazione che cerca di stabilire un principio è solo
    sgradevole supponenza. L’idea che la distruzione di un embrione
    o di un feto dovrebbe rappresentare una sorta di “ultima ratio”
    alla quale ricorrere solo in casi (umani, clinici, sociali) estremi e
    altrimenti non risolvibili, con l’unica finalità di proteggete la
    salute della donna gravida, è certamente lontana dalla realtà dei
    fatti. Anzitutto, nella definizione di salute che viene oggi
    accettata comunemente, non c’è e non ci può essere alcun
    riferimento a una condizione “estrema” di malessere, non è
    necessario arrivare a tanto per distruggere la vita di un qualsiasi
    cittadino e, ancor di più, di una qualsiasi cittadina. Dovrebbe poi
    essere noto a tutti – e certamente era noto agli estensori della
    legge – il fatto che in quasi tutti i paesi del mondo la
    pianificazione della famiglia deve potersi avvalere sia della
    contraccezione che dell’interruzione volontaria della gravidanza
    e che le conseguenze di un mancato controllo della propria
    fertilità possono essere straordinariamente gravi.
    La situazione italiana era caratterizzata, prima dell’avvento di
    questa legge, da un frequente ricorso all’aborto clandestino e da
    una progressiva (ma ancora inadeguata) diffusione dei metodi
    contraccettivi, che riguardava soprattutto le regioni dell’Italia
    settentrionale e centrale. Lentamente l’abortività clandestina è
    stata riassorbita dalle interruzioni di gravidanza legali, tranne
    forse che per una quota minore, probabilmente abbastanza
    variabile negli anni, rappresentata dagli interventi eseguiti sulle
    minorenni e sulla nuove cittadine. In ogni caso il numero di
    aborti legali è diminuito progressivamente, almeno fino a poco
    55
    tempo fa, ed è persuasione generale che, tranne rare eccezioni,
    l’uso dell’aborto risponda alle logiche dell’emergenza e non
    esista una reale tendenza a utilizzare l’interruzione della
    gravidanza come un mezzo anticoncezionale.
    Per secoli le donne hanno pagato altissimi prezzi alla decisione di
    interrompere una gravidanza non desiderata : molte donne sono
    morte; molte altre sono diventate sterili o hanno perduto una
    parte della loro salute. Questi prezzi erano dovuti a ragioni
    diverse: l’aborto è stato a lungo punito dalla legge e considerato
    un reato infamante, e perciò affidato alle mani di persone
    disoneste e molto spesso poco affidabili. Per procurare gli aborti
    sono state utilizzate a lungo e empiricamente tecniche improprie
    e pericolose e sostanze tossiche di difficile uso. Ci sono stati
    periodi nei quali le infezioni pelviche post-abortive erano
    diventate così frequenti da aver assunto un carattere quasi
    epidemico ed era stata definita “miseria genitale” la parametrite
    cronica, cioè l’infezione cronica del tessuto cellulare lasso
    contenuto all’interno del legamenti larghi, che sostengono
    lateralmente l’utero, che impediva qualsiasi attività di lavoro ad
    un gran numero di donne che si erano sottoposte a interventi per
    interrompere le loro gravidanze.
    Migliorate le tecniche, potendo utilizzare gli antibiotici per
    evitare le complicazioni infettive, la prognosi delle interruzioni di
    gravidanza ( clandestine o criminose, come venivano chiamate)
    era migliorata – ma non per tutte le donne – nell’ultimo
    dopoguerra. Si era determinata così una netta differenza, per
    quanto riguardava risultati e complicazioni, tra chi poteva
    permettersi interventi costosi, ma privi di esiti patologici degni di
    nota, e chi doveva affidarsi alle “mammane” o a inaffidabili
    metodologie empiriche, accettando rischi sempre molto elevati.
    L’esistenza di queste differenze tra le varie classi sociali fu forse
    una della spinte più forti per l’approvazione di una legge.
    56
    La legge 194 che disciplina l’interruzione volontaria della
    gravidanza considera separatamente due periodi della gestazione,
    calcolati a partire dal concepimento: i primi 90 giorni e quelli
    successivi. Nei primi 90 giorni possono chiedere l’interruzione
    delta gravidanza le donne che ritengono che dalla prosecuzione
    della stessa, dal parto e dalla condizione di maternità che ne
    potrebbe conseguire, o a seguito delle circostanze nelle quali si è
    verificato il concepimento, potrebbero derivare pericoli per la
    loro salute fisica o psichica in rapporto al loro stato di salute, alle
    loro condizioni economiche, sociali e familiari alla possibilità
    che il concepito possa essere malformato. Per essere autorizzata
    ad abortire, la donna può recarsi presso un consultorio pubblico,
    presso una struttura privata abilitata dalla Regione o da un
    medico di fiducia ( dal suo ginecologo, o dal suo medico di
    famiglia). Si tratta dunque, in ogni circostanza, di problemi di
    salute, non di capricci e tantomeno di bizzarrie. Insinuare che
    così non sia rappresenta un insulto alla ragionevolezza, al buon
    senso e alla moralità delle donne di questo Paese; cercare di
    frapporre manipoli di dissuasori nel percorso che queste donne
    sono costrette ad affrontare rende questo insulto ancora più
    odioso.
    Gli operatori medici sono tenuti a considerare in modo obiettivo
    le ragioni della donna, suggerendo possibili soluzioni dei
    problemi proposti , sempre nel rispetto della dignità della donna e
    della sua riservatezza. Non sono richiesti particolari accertamenti
    , a parte quelli necessari per confermare l’esistenza di una
    gravidanza in evoluzione. Al termine del colloquio il medico
    rilascia un documento che attesta che la donna è gravida e che ha
    chiesto di abortire. Trascorsi sette giorni dal rilascio di questo
    documento, la donna può chiedere di essere sottoposta a un
    intervento in un ospedale pubblico o in una casa di cura
    convenzionata con la Regione. In alcuni casi il medico può
    ritenere che l’intervento abbia carattere di urgenza e consentire
    alla donna di presentarsi senza indugio nella sede prescelta.
    57
    I presidi sanitari che eseguono questi interventi chiedono alle
    donne di eseguire alcuni esami utili per l’anestesia e comunque
    necessari per l’atto operatorio. L’intervento non richiede in
    genere una reale degenza e viene d’abitudine eseguito in Day
    Surgery, in anestesia locale, in analgesia profonda e talora anche
    in anestesia generale o locale.
    Il padre del concepito può essere ascoltato solo se la donna lo
    consente, un punto molto controverso che, secondo alcuni, ignora
    il valore costituzionale dell’unità familiare. La Corte
    Costituzionale, interpellata anche recentemente su questo punto,
    ha risposto che la norma è il risultato della scelta politicolegislativa
    di considerare la donna unica responsabile della
    decisione di interrompere la gravidanza. La questione
    dell’esclusione del padre da ogni possibilità di far sentire la
    propria opinione, è oggetto di controversie anche in altri paesi
    europei ed è stata sottoposta, senza successo, all’attenzione degli
    organi competenti europei.
    L’interruzione volontaria della gravidanza può essere autorizzata
    anche dopo il 90° giorno di gravidanza, ma solo in due casi
    specifici: quando gravidanza e parto comportino un grave
    pericolo per la vita della donna e quando siano accertati processi
    patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie e
    malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo
    per la salute psichica e fisica della donna, ipotesi che coincidono
    con quelle che, in passato, consentivano l’aborto terapeutico.
    Non ci sono evidentemente problemi interpretativi per quanto
    riguarda il primo punto. Circa il secondo, invece, è da escludere
    che sia sufficiente l’accertamento delle anomalie del nascituro
    perché si possa giustificare l’interruzione della gravidanza: è
    infatti indispensabile un secondo requisito, che cioè
    l’accertamento di queste anomalie determini un pericolo per la
    salute della donna. Poiché è quest’ultimo l’oggetto principale
    delle indagini, sono possibili casi in cui l’impossibilità di
    accertare queste anomalie non impedisce l’interruzione, che può
    58
    essere eseguita quindi anche sulla base di una malformazione
    soltanto probabile. Deve essere ben chiaro che mentre prima del
    90° giorno è la donna ad operare la scelta, in seguito tutta la
    responsabilità cade sulle spalle del medico, che può, se lo
    richiede opportuno, chiamare in causa altri specialisti, ma può
    anche assumersi tutta la responsabilità della decisione.
    La legge stabilisce che nel caso in cui esista la possibilità di vita
    autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza si può eseguire
    solo se la gravidanza e il parto comportano un grave pericolo per
    la vita della donna e impegna il medico ad adottare ogni misura
    idonea a salvaguardare la vita del feto. Questo è un punto molto
    delicato sul quale conviene soffermarci.
    L’articolo 6 della legge 194 stabilisce che l’interruzione
    volontaria della gravidanza, dopo il 90° giorno, può essere
    praticata solo :
    a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo
    per la vita della donna;
    b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli
    relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che
    determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica
    della donna.
    All’articolo 7, però, dopo una premessa che riguarda gli
    accertamenti sulla salute e sulla normalità del feto, troviamo
    scritto che “ quando l’interruzione di gravidanza si renda
    necessaria per imminente pericolo per la vita della donna,
    l’intervento previsto può essere praticato anche senza le
    procedure previste…… Qualora sussista la possibilità di vita
    autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere
    praticata solo nel caso della lettera a) dell’articolo 6 e il medico
    che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a
    salvaguardare la vita del feto”.”
    Dunque, nel caso in cui il medico riconosca al feto capacità di
    vita autonoma la scelta di interrompere la gravidanza può essere
    fatta solo nel caso che lo stesso medico identifichi, nel
    59
    proseguimento della gestazione, un grave pericolo per la vita
    della donna. Ciò ci riconduce alla prassi in uso prima del varo
    della legge 194, quando l’interruzione legale della gravidanza
    poteva essere eseguita solo se si creavano le condizioni di uno
    stato di necessità, avendo il medico accertato che la scelta di non
    intervenire avrebbe con ogni probabilità determinato un
    significativo rischio di morte per la madre. Debbo dire che tra il
    1958 e il 1974 ho visto applicata questa norma, nella Clinica
    Ostetrica di Bologna, non più di una dozzina di volte e sempre
    dopo molte perplessità e infiniti ripensamenti.
    I problemi e le critiche
    Il problema vero, l’unico che mi sembra di scorgere a questo
    proposito, riguarda il momento della gravidanza nel quale può
    essere identificato l’inizio della vita autonoma. C’è, su questo punto,
    una discussione che coinvolge le diverse scuole di neonatologia e
    che è arrivata fino al Comitato Nazionale di Bioetica: è vero infatti
    che nessun feto sopravvive se è costretto a nascere entro le 22
    settimane di gestazione , ma – a parte la difficoltà di stabilire sempre
    e con precisione l’epoca di gravidanza – è anche vero che nessun
    feto nato alla 24ma settimana sopravvive se la madre lo partorisce in
    un piccolo ospedale, lontano dai grandi centri di rianimazione
    neonatale, o se è portatore di una grave malformazione per la quale,
    ad esempio, debba essere sottoposto a un intervento chirurgico
    urgente. D’altra parte stiamo parlando di eventi assai poco frequenti:
    nel 2005 gli interventi eseguiti dopo la 21ma settimana sono stati
    poco più di 800, quasi tutti, poi, completati prima del termine della
    22ma, quando ancora la possibilità di sopravvivenza del feto è
    considerata nulla. E’ comunque necessario che si debba cercare di
    stabilire con la massima precisione possibile l’epoca della
    gravidanza e il peso del feto, tenendo conto del fatto che quando il
    60
    peso alla nascita è inferiore ai 400 grammi i tentativi di
    rianimazione sono considerati inutili. E’ teoricamente possibile che
    una gravidanza venga interrotta in un’epoca di possibile vitalità
    autonoma del feto, che i neonatologi riescano nell’intento di
    rianimare il neonato e che dopo opportune cure lo restituiscano alla
    madre, e che questa si ritrovi in braccio un bambino sofferente della
    patologia congenita per la quale era stata giustificata l’interruzione
    della gravidanza e con i possibili ulteriori problemi determinati dalla
    prematurità. Vale a questo punto la pena di sottolineare la saggezza
    della legge 194, che non considera termini precisi, tenendo
    evidentemente in gran conto i progressi della scienza e
    dell’assistenza medica, e si limita a stabilire che è nelle capacità e
    nella responsabilità del medico capire quando la gravidanza è giunta
    ad un’epoca che comporta possibilità di vita autonoma per il feto.
    Quello che è accaduto nei fatti dà ragione alle scelte del legislatore:
    da un lato i centri di terapia intensiva sono in grado oggi di
    rianimare feti che nel 1978 non venivano neppure presi in
    considerazione, dall’altro gli accertamenti relativi alle condizioni di
    salute e di normalità dei prodotti del concepimento vengono
    continuamente anticipati. Si tratta dunque di scegliere tra prevedere,
    stabilendo acconce linee guida qualche modificazione dei tempi di
    accertamento , cercando di anticiparli e di completarli
    (possibilmente) entro la 21a settimana, o affidare tutte queste
    considerazioni alla responsabilità dei medici curanti. La mia
    propensione per questa seconda ipotesi è dovuta al fatto che non si
    possono formulare linee guida generali in un Paese nel quale
    l’assistenza medica varia in modo così notevole e grave nelle varie
    Regioni e dove un sensato tentativo di rianimazione in Lombardia
    potrebbe diventare accanimento terapeutico in Lucania.
    Recentemente ci sono stati vari interventi sempre relativi al
    problema della rianimazione dei feti nati in epoca di gravidanza
    particolarmente precoce e con perso molto basso, e malgrado
    alcune dichiarazioni (invero assai poco credibili) intese a
    sostenere che si trattava di prese di posizione che non avevano
    61
    niente a che fare con la legge 194, è sempre stato più che
    evidente che in realtà si trattava di attacchi preordinati e che
    l’obiettivo di questi attacchi era proprio la legge . Nel febbraio
    del 2008 sono stati i ginecologi delle Università romane in
    concomitanza, guarda un po’, con l’ennesima giornata cattolica
    in favore della vita, per affermare due principi: il primo, riguarda
    la rianimazione dei neonati , che deve essere almeno tentata in
    qualsiasi epoca di gravidanza e quale che sia il peso alla nascita;
    il secondo principio afferma l’opportunità che i genitori del
    bambino, sprovveduti, confusi e ignoranti, debbano essere trattati
    con cortesia, sopportati con pazienza, ma messi fuori dall’uscio e
    comunque mai ascoltati. La prima parte del documento è
    praticamente priva di significato, è evidente che tutti i bambini
    che nascono hanno diritto alle cure dei medici, a meno che queste
    cure non siano decisamente inutili, tanto da configurare un caso
    di accanimento terapeutico. Lasciare invece fuori dalla porta
    della stanza nella quale si prendono le decisioni i genitori,
    invece, è francamente odioso. Anzitutto il buon senso dovrebbe
    dire a tutti che la stragrande maggioranza dei genitori è molto più
    interessata dei medici nella sopravvivenza e nella salvezza del
    proprio figlio, pur mancando loro la forte stimolazione legata
    alla speranza di battere un record e di finire nel Guiness dei
    primati per vere fatto sopravvivere il bambino più piccolo della
    storia. Esistono però circostanze, che posso immaginare essere
    straordinariamente rare, nelle quali i genitori possono pensarla
    diversamente e non ascoltarli, in questi casi, mi sembra
    francamente delittuoso. Posso immaginare, ad esempio, che i
    genitori si dichiarino contrari alla rianimazione del loro bambino
    se la prognosi , ancor dubbia per quanto riguarda la vita, è già
    chiaramente sfavorevole per quanto concerne le capacità
    cognitive, quando la prospettiva è di lasciar sopravvivere un
    bambino-vegetale o di portare a casa un creatura per la quale è
    prevista sofferenza, solo sofferenza, mai altro se non sofferenza.
    E’ evidente che qui si scontrano due concetti antitetici, quello
    62
    della sacralità della vita con quello della qualità della vita, valori
    che non possono essere imposti a chi non li condivide. E un
    secondo esempio può essere quello in cui le cure che i medici si
    apprestano a erogare debbono essere considerate sperimentali, un
    evento molto frequente se i medici sono onesti, rarissimo se non
    lo sono. Del resto, se è vero che esiste un diritto alle cure, esiste
    anche ( proprio nella nostra Costituzione) il diritto a rifiutarle, e
    immagino che debbano essere proprio i genitori a chiedere che
    questo diritto venga rispettato, in circostanze del tutto speciali.
    Non può comunque essere un caso che su questo argomento, il
    giorno dopo che i ginecologi romani si sono espressi, è
    intervenuto lo stesso Pontefice. E non può essere un caso che il
    CNB abbia approvato recentemente un documento che è sulla
    stessa linea e che ribadisce questo incredibile principio, che mi
    sembra realmente fuori da ogni regola morale: la madre non ha
    voce quando si tratta di stabilire il destino di suo figlio, in nome
    di un principio che è proprio solo della religione cattolica: la vita
    è sacra, quale che sia la sua qualità. E deve essere sacra per tutti,
    quale che siano i loro principi religiosi e morali. Un atto di
    violenza straordinario, comprensibile solo come momento della
    “crociata della disperazione” che caratterizza questi primi anni
    del pontificato di papa Benedetto XVI. Essendo membro del
    CNB da molto tempo, debbo ammettere che molti dei documenti
    approvati in questi lunghi anni mi hanno imbarazzato: nessuno,
    però, quanto questo.
    L’obiezione di coscienza
    La legge 194, è cosa nota, prevede l’obiezione di coscienza per
    il “personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie,” in altre
    parole ginecologi, anestesisti, ostetriche e infermieri. Gli ultimi
    dati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità ci dicono che il
    63
    59,5% dei sanitari che operano nelle strutture nelle quali si
    praticano le interruzioni volontarie di gravidanza è obiettore.
    Ricordo che circa dieci anni or sono furono pubblicati dati molto
    significativi su questo argomento; non ne ricordo con precisione
    le cifre, ma il senso della ricerca era questo, che tra gli stessi
    professionisti operanti al di fuori delle strutture pubbliche o
    impegnati in attività che non li mettevano a contatto con le
    interruzioni di gravidanza, gli obiettori erano meno della metà.
    Nel 2001, i dati ISTAT relativi al rapporto tra offerta potenziale
    e offerta effettiva di ginecologi in due differenti Regioni, il
    Piemonte e la Puglia, mostravano già differenze altamente
    significative: stessa disponibilità potenziale ( 48 ginecologi per
    100.000 donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni) ma
    disponibilità reale pari a 21 ginecologi in Piemonte e 9 in Puglia.
    Oggi, la percentuale di medici obiettori è del 92% e oltre in
    Basilicata, dell’80% in Veneto, del 78% nelle Marche, del
    77%nel Lazio e del 76% in Puglia; è veramente consolante –ma
    fin troppo atipico – il 20% della Valle d’Aosta. Leggo in vari
    documenti che il numero di obiettori è in continua crescita e che
    molti ospedali stentano a organizzare i servizi necessari; ho
    anche molte perplessità per quanto riguarda correttezza della
    scelta, almeno per un certo numero dei miei colleghi.
    Quando il personale medico e paramedico scende al di sotto di
    certi livelli numerici si creano inevitabilmente condizioni che
    mettono a rischio la salute di un grande numero di donne. Il
    primo evento sfavorevole che si verifica è l’allungamento dei
    tempi di attesa che, con la rarefazione dei giorni di intervento,
    sposta in avanti il momento nel quale le gravidanze vengono
    interrotte. Le conseguenze sono duplici : alcune donne scelgono
    la via dell’aborto clandestino, vanno all’estero o assumono
    prostaglandine, scelte che spesso significano un aumento dei
    rischi per la salute; tutte le altre vedono automaticamente
    aumentare il rischio per la salute, per la fertilità e persino per la
    vita, perché le probabilità che l’intervento si complichi e abbia
    64
    effetti collaterali sfavorevoli , immediati o a distanza, sono tanto
    maggiori quanto più avanzata è la gravidanza. Non è cosa di
    poco conto né è previsione per il futuro: in molti ospedali è già
    emergenza.
    La clausola dell’obiezione di coscienza era pienamente
    giustificata solo ai tempi in cui la legge è entrata in vigore: i
    medici cattolici o comunque contrari all’aborto volontario che
    lavoravano negli Ospedali furono sorpresi da una innovazione
    alla quale non avevano pensato nel momento in cui avevano fatto
    la loro scelta di lavoro e avevano il diritto di dissociarsi. Certo,
    sarebbe stato lodevole se avessero dedicato il tempo risparmiato
    a fare promozione di cultura su uno dei tanti temi che riguardano
    il controllo delle nascite, un modo per dimostrare la coerenza
    delle loro scelta, ma non si può pretendere troppo. Attualmente,
    però. chi sceglie una specializzazione o decide di lavorare in un
    Ospedale pubblico sa bene cosa lo aspetta e se lo fa sapendo di
    essere ben determinato a ignorare i diritti di molte pazienti (
    diritti ai quali dovrebbero corrispondere altrettanti doveri dei
    medici) compie un gesto molto discutibile sul piano umano e su
    quello morale. E’ bene ricordare ancora una volta che la richiesta
    di abortire non è la conseguenza di una scelta capricciosa,
    riguarda la salute, un problema che non può essere disatteso e
    che carica i medici di una responsabilità ineludibile.
    Potrei fare una miriade di esempi tutti relativi a come non ha
    alcun senso mettere persone sbagliate in luoghi sbagliati, non
    credo che ne valga la pena. Credo però che sia giunto il momento
    di cambiare la legge 194 su questo solo punto, eliminando il
    diritto all’obiezione di coscienza.
    Luci ed ombre
    65
    ” e sanno che nessuno le apprezzerebbe se non appartenessero a
    tecnici colti e preparati.
    Chiamati a svolgere uno dei più difficili e ingrati compiti della
    medicina –incontrare donne che hanno deciso di abortire
    cercando di capire le loro motivazioni, ma senza mai violare la
    loro intimità – sono riusciti a farlo realizzando risultati
    straordinari: la progressiva diminuzione degli aborti legali è
    anche opera loro, della loro capacità di interpretare un ruolo così
    difficile e di privilegiare la prevenzione. In cambio hanno avuto
    ben poco. Ogni volta che gli amministratori di una ASL hanno
    dovuto tagliare, hanno risparmiato sui consultori. E’ noto a tutti
    che ci sono molto meno consultori di quanti ce ne dovrebbero
    essere e meno medici nei consultori di quanti sono necessari. E
    oltre a ciò, di tanto in tanto qualche uomo politico in cerca di
    notorietà decide di metterli sotto inchiesta.
    La Chiesa cattolica italiana, con una cadenza che ormai si può
    stabilire mensile, chiede che la legge 194 sia sottoposta a
    revisione o che per lo meno se ne dia una lettura più aderente al
    suo spirito, uno spirito che i medici avrebbero tradito.
    Secondo una delle più insistenti critiche cattoliche in realtà la
    legge 194 affiderebbe la decisione finale al medico e non alla
    donna, come è ormai diventato prassi comune. Questa critica
    nasce da una lettura molto particolare dell’articolo 4, e in
    particolare del punto in cui recita che l’aborto può essere
    autorizzato quando esistono “ circostanze per le quali
    l’interruzione della gravidanza, il parto o la maternità
    comporterebbero un serio pericolo per la sua ( inteso, della
    donna) salute fisica o psichica”. L’unica persona competente alla
    quale affidare questa valutazione sarebbe dunque, secondo questa
    critica, il medico. In realtà, basta continuare a leggere l’articolo 4
    per capire quanto surrettizia e capziosa sia questa interpretazione.
    Questo pericolo deve essere infatti valutato “ in relazione o al suo
    stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali, o
    familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o
    66
    a previsioni di malformazioni o anomalie del concepito”.
    Problemi di salute a parte, nessuna di queste condizioni e di
    queste circostanze è di competenza del medico e alcune di loro
    sono talmente personali che qualsiasi intervento esterno deve
    essere considerato come una sgradevole, prepotente e
    inaccettabile intrusione. Se si continua la lettura delle norme, si
    scopre ben presto che il percorso che la donna deve seguire e il
    limite dell’intervento del medico sono chiaramente delineati
    nell’articolo 5, sia nei casi in cui esiste sia in quelli in cui non
    esiste una urgenza. Una volta che una donna ha deciso di
    interrompere la sua gravidanza – ammesso che sia ancora entro ai
    90 giorni e che i motivi della scelta siano tra quelli indicati
    nell’articolo 4 – l’unico impedimento alla realizzazione del suo
    desiderio sta nella richiesta di soprassedere per una settimana, un
    periodo di ripensamento che il legislatore ha voluto inserire e nel
    quale si può riconoscere una fondamentale saggezza. Il compito e
    i limiti del potere del medico sono chiaramente delineati: deve
    valutare con la donna le circostanze che la inducono a chiedere
    l’interruzione della gravidanza ( è sempre possibile, ad esempio,
    che si sia lasciata fuorviare da errate interpretazioni dei rischi
    connessi con eventi in realtà insignificanti), verificare che la
    gravidanza esista e valutarne l’epoca di sviluppo, informarla
    circa i suoi diritti e circa gli interventi di carattere sociale ai quali
    può fare ricorso e di verificare l’esistenza di un carattere di
    urgenza. I suoi compiti si fermano qui: a questo punto può solo
    consegnarle un certificato nel quale sono registrate le sue
    intenzioni e chiederle di attendere 7 giorni prima di presentarsi a
    una delle sedi autorizzate nella quale l’intervento verrà eseguito,
    indipendentemente dalla personale opinione del medico.
    Ho già spiegato come la critica cattolica al lavoro dei consultori
    mi sembri del tutto inaccettabile, i medici consultoriali svolgono
    il loro lavoro con passione e competenza e non si limitano
    certamente ad autorizzare le interruzioni. Quanto alla richiesta di
    inserire all’interno dei consultori e dei reparti di maternità degli
    67
    uffici di consulenza, gestiti da personale cattolico e dedicati ad
    un’opera di dissuasione, mi sembra una inaccettabile
    prevaricazione, tanto più odiosa in quanto ha a che fare con una
    scelta alla quale la maggior parte delle donne arriva dopo molta
    sofferenza e che merita di essere rispettata.
    La legge, dunque, ha dato buona prova di sé e riaprire su di essa
    una discussione sembra oggi assai pericoloso, considerata la
    visceralità e la totale assenza di raziocinio delle accuse che le
    vengono mosse. Ciò non significa che, in momenti diversi e con
    uno spirito laico e costruttivo al momento inesistente, non si
    potrebbero prendere in esame alcuni dei difetti che nella 194
    possono essere riconosciuti.
    Un problema reale riguarda, ad esempio, gli interventi che si
    eseguono dopo il 90° giorno di gravidanza nei casi in cui
    vengano riscontrati “ processi patologici, tra cui quelli relativi a
    rilevanti anomali o malformazioni del nascituro che determinino
    un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna “.
    Esistono, a questo proposito, due diversi elementi di rischio. Il
    primo, che riguarda i tempi dell’accertamento, è un rischio
    assolutamente teorico, e ne ho già scritto. Il secondo ha a che
    fare con la progressiva scomparsa , nella lettura della norma
    giuridica, delle aggettivazioni: le rilevanti anomalie sono
    diventate anomalie , il grave pericolo si è ridotto a pericolo tout
    court. Il timore è che non si cerchi più, con le varie analisi che la
    fisiopatologia prenatale propone, una malattia capace di alterare
    profondamente la qualità della vita del bambino, ma
    semplicemente una causa di imperfezione, qualcosa che allontani
    il bambino dai caratteri idealizzati del figlio immaginario. Questo
    problema fa parte della complessa discussione relativa alla
    eugenetica positiva migliorativa , un tema che al momento è stato
    solo sfiorato dalla bioetica.
    Si tratta dunque, ancora una volta, di un problema culturale, e
    criticare e offendere le donne perché muoiono di dolore quando
    scoprono che il figlio che portano in grembo non è normale (
    68
    senza saper distinguere una anencefalia da una sindrome di
    Klinefelter) è come picchiare un bambino perché non sa leggere
    in un Paese che non ha costruito le scuole. E trovo altrettanto
    calunnioso accusare queste donne di agire secondo i principi
    dell’eugenetica, accusa altrettanto ipocrita quanto stupida, queste
    donne non cercano figli perfetti o “migliori”, desiderano, questo
    sì, avere un figlio normale. Ma ho sentito un medico cattolico, un
    pediatra piuttosto noto, dichiarare pubblicamente che “l’handicap
    è bello”, una dichiarazione che non mi pare meriti commenti.
    Le tecniche
    L’aborto è stato praticato per molti secoli con metodi molto
    diversi, correlati soprattutto con l’uso di pozioni e di decotti
    preparati utilizzando un grande numero di erbe. Dal punto di
    vista meccanico l’interruzione di gravidanza è stata eseguita
    soprattutto inserendo sonde nel canale cervicale e perforando le
    membrane che avvolgono il feto con differenti strumenti e
    lasciando poi che il sopraggiungere di una infezione creasse le
    condizioni necessarie per la morte del prodotto del concepimento
    e per la sua successiva espulsione. In tempi abbastanza vicini
    esistevano donne che riuscivano a compiere da sole questa
    operazione utilizzando un ferro da calza. Credo che non ci sia
    bisogno di spiegare le ragioni di una così elevata percentuale di
    complicazioni , dovute soprattutto al diffondersi dell’infezione o
    ai traumatismi : le complicazioni più gravi e più frequenti erano
    le pelviperitoniti, le setticemie, le perforazioni dell’utero e i
    possibili traumi intestinali che ad esse conseguivano.
    Negli ospedali pubblici si eseguivano pochissimi interventi di
    interruzione di gravidanza, tutti connessi con una condizione di
    necessità, cioè con l’esistenza di un grave rischio per la madre.
    L’intervento veniva generalmente eseguito con la classica tecnica
    69
    della dilatazione strumentale del canale cervicale, eseguita con
    l’uso di sonde metalliche di diametro progressivo, o con
    l’inserimento di un bastoncino di laminaria digitata, un’alga nota
    per la sua idrofilia e che dilatava progressivamente il collo
    dell’utero. Successivamente si asportavano i residui abortivi con
    l’impiego di pinze ad anelli e si eseguiva il cosiddetto
    “raschiamento”, la revisione strumentale della cavità uterina,
    utilizzando cucchiai fenestrati con bordo tagliente. Ma l’impegno
    più frequente dei medici ospedalieri era quello di completare un
    aborto che era stato iniziato altrove. E’ bene sottolineare il fatto
    che la maggior parte di questi raschiamenti venivano eseguiti in
    assenza di anestesia.
    Oggi le tecniche sono migliorate e si può scegliere anche un
    metodo di interruzione della gravidanza che sia adatto al periodo
    della gestazione.
    Se la gravidanza è iniziata da poco, cioè se le settimane di
    amenorrea sono meno di sei, la tecnica di elezione è quella
    dell’isterosuzione, anche se c’è chi ritiene opportuno, per evitare
    insuccessi, attendere almeno l’arrivo della settima settimana.
    L’isterosuzione, o aspirazione sotto vuoto, è stata utilizzata per la
    prima volta dai medici cinesi alla fine degli anni Cinquanta ed è
    poi diventata molto popolare tra i gruppi femministi che
    praticavano il self-help e riuscivano a interrompere le gravidanza
    senza neppur dilatare il canale cervicale e utilizzando strumenti
    di emergenza, come le pompe da bicicletta. Questa tecnica ha
    poi trovato ampia diffusione in Russia e successivamente in altri
    paesi dell’Europa dell’Est e ora viene praticata ovunque. La
    cannula utilizzata per l’aspirazione può essere metallica o di
    plastica, di differente diametro, naturalmente cava, con una
    apertura ovale posta all’estremità distale che è arrotondata e
    chiusa. I margini dell’apertura ovale sono taglienti e possono
    essere utilizzati per raschiare la cavità dell’utero dopo che lo
    svuotamento è stato completato. La cannula viene collegata
    mediante un tubo di gomma a una pompa per aspirazione che
    70
    fornisce la pressione negativa . All’interno del sistema
    pressurizzato vengono interposti contenitori che raccolgono il
    liquido amniotico, il sangue e i tessuti fetali e placentari.
    D’abitudine si impiegano pompe elettriche ma si possono usare
    pompe basate su sistemi idraulici o attivate dagli stessi operatori
    a mezzo di un pedale. Se è necessario dilatare il canale cervicale
    si può eseguire una anestesia locale, ad esempio con un blocco
    paracervicale. ; in molti casi è sufficiente la somministrazione di
    un analgesico. Questa procedura, che può essere eseguita
    ambulatoriamente o in day-surgery, è quasi sempre preferita
    nelle gravidanze giunte alla 6a-8a settimana di amenorrea. Nelle
    gravidanze più avanzate è necessario prevedere l’uso di cannule
    di diametro maggiore e perciò una maggior dilatazione
    cervicale. : in questi casi c’è ancora che preferisce il vecchio
    metodo badato sulla dilatazione del canale cervicale e sul
    successivo svuotamento strumentale, completato da raschiamento
    (quello che gli anglosassoni chiamano D&C, dilatazione e
    courettage) . Per raggiungere la dilatazione necessaria, oltre alla
    laminaria digitata e ai dilatatori metallici, si può ricorrere
    all’inserimento in vagina di candelette contenenti analoghi delle
    prostaglandine. In questi casi è spesso opportuna una anestesia
    generale .
    L’isterosuzione è efficace nel 98% dei casi e ha una percentuale
    di complicazioni molto variabile, generalmente compresa tra l’1
    e l’8%. Le complicazioni più frequenti sono le emorragie, le
    infezioni, formazione di aderenze all’interno della cavità
    dell’utero e traumatismi del corpo dell’utero (prevalentemente
    perforazioni) e del canale cervicale. Purtroppo le casistiche
    pubblicate su questo tema non sono omogenee, perché
    considerano in modo diverso il tipo e la gravità degli effetti
    collaterali m( ad esempio, non vengono quasi mai presi in esame
    gli effetti collaterali dell’anestesia e disturbi considerati banali
    come la nausea e il vomito) e questo giustifica la notevole
    discordanza tra i dati.
    71
    Il controllo mestruale
    Il controllo mestruale ( o estrazione mestruale, o regolazione
    mestruale) è una forma di isterosuzione che può essere utilizzata
    sia per rimuovere tutto l’endometrio nel periodo mestruale che
    per eseguire una interruzione di gravidanza nelle sue primissime
    fasi. Il criterio fondamentale che ispira questa tecnica è la
    rinuncia al ricorso di indagini istologiche che possano chiarire se
    il materiale asportato è solo tessuto endometriale o se in esso è
    contenuto il prodotto di un concepimento. La tecnica è molto
    simile a quella che si usa per porre fine a una gravidanza
    indesiderata, ma ne differisce notevolmente dal punto di vista
    storico, politico e legale: in realtà il metodo è stato proposto da
    persone che volevano aggirare le leggi che proibivano di
    ricorrere all’aborto volontario ed è stato ed è tuttora utilizzato per
    questo specifico scopo.
    Nel 1971, due membri di un gruppo femminista che praticava il
    self help, Lorry Rothman e Carol Downer modificarono gli
    strumenti utilizzati per l’aspirazione manuale sotto vuoto (MVA)
    per utilizzarli ad uso clinico. Misero insieme una cannula di
    Karman, siringhe, valve e vari tipi di contenitori e li utilizzarono
    per estrarre il contenuto uterino, con lo scopo dichiarato di poter
    interrompere le gravidanze in un’epoca in cui l’aborto
    volonatario, negli Stati Uniti, era proibito.
    Per evitare i rigori della legge, le due donne organizzarono un
    sistema di aspirazioni del contenuto uterino che poteva essere
    attuato da altre donne, non esperte e con una competenza
    specifica veramente minima, con interventi reciproci eseguiti
    nel periodo perimestruale, senza alcun preliminare controllo
    sull’esistenza in quel momento di una gravidanza iniziale. E’
    logico che se in quell’utero si fosse appena impiantato un
    72
    embrione, sarebbe stato estratto insieme al sangue e
    all’endometrio, ma in modo fortuito. La Rothman e la Downer
    girarono per gli Stati Uniti facendo propaganda alla loro
    invenzione e si calcola che in brevissimo tempo furono eseguiti
    oltre 20.000 controlli mestruali. Gli ambulatori di self help nei
    quali operavano furono perquisiti dalla polizia più volte, nel
    corso del 1971, ma l’unico segno di una attività illegale fu un
    barattolo di yogurt che veniva usato per curare le vaginiti
    micotiche. A causa di questo ritrovamento la Downer fu arrestata
    con l’accusa di aver praticato la professione medica pur non
    essendo laureata e lo yogurt fu portato in tribunale come prova
    del reato. Nel dicembre del 1972 la Downer fu assolta, dopo un
    breve processo passato alla storia soprattutto per la scomparsa del
    vasetto di yogurt dal commissariato di polizia che lo aveva in
    custodia e tutta la storia restò negli annali femministi come “the
    great yogurt conspiracy”. Dopo che la sentenza della Corte
    Suprema autorizzò l’aborto volontario, un certo numero di donne
    americane continuò a utilizzare il controllo mestruale, con la
    motivazione che “ un aborto fatto a casa tua dalle tue amiche è
    molto migliore di quello eseguito in un qualsiasi ambulatorio
    medico” ( anzi il termine esatto è “surgical speakeasy”.
    Il controllo mestruale viene comunemente eseguito in molti paesi
    nei quali l’aborto è illegale e serve naturalmente per aggirare la
    legge: si calcola ad esempio che nel Bangladesh vengano eseguiti
    circa mezzo milione di controlli mestruali ogni anno. Ma anche a
    Cuba, dove l’aborto volontario è legale, alle donne che hanno un
    ritardo mestruale di meno di due settimane si offre un controllo
    mestruale, senza alcun test di gravidanza preliminare, una scelta
    evidentemente intesa a risparmiare sui costi.
    Naturalmente il controllo mestruale ha le sue complicazioni e i
    suoi insuccessi, ma dati statistici su di essi non ne troverete da
    nessuna parte. Chi lo pratica dovrebbe almeno sapere che ritarda
    la diagnosi di gravidanza extrauterina e che non dovrebbe essere
    mai eseguito nelle donne che hanno mestruazioni irregolari.
    73
    Gli aborti tardivi
    Interrompere una gravidanza dopo i primi 90 giorni non è più una
    cosa semplice e priva di rischi e richiede tecniche diverse e più
    complesse. Fino alla ventesima settimana si possono ancora usare
    strumenti che consentono di svuotare la cavità uterina dopo aver
    provveduto all riduzione dei diametri fetali e aver ampiamente
    dilatato il canale cervicale. Più comunemente si usano
    prostaglandine, sostanze che possono essere somministrate per
    via intramuscolare, introdotte nella cavità amniotica o inserite in
    vagina sotto forma di gel o di candelette. Le prostaglandine sono
    quasi sempre in grado di indurre l’aborto e di consentire
    l’espulsione spontanea – non sempre però completa – del
    prodotto del concepimento. In alcuni casi, però, la loro efficacia
    si evidenzia solo dopo numerose somministrazioni eseguite
    giornalmente. Anche se non sono prive di effetti collaterali,
    queste sostanze hanno fatto abbandonare tecniche molto in uso
    negli anni passati quali l’introduzione di una soluzione salina o
    ipertonica o di urea nella cavità amniotica, tecniche che
    necessitano di un’assistenza ospedaliera affidata a mani esperte e,
    malgrado ciò, gravate da una elevata percentuale di
    complicazioni.
    Le prostaglandine sono acidi grassi con 20 atomi di carbonio,
    arrangiati a formare un anello ciclopentanico. Le più comuni
    prostaglandine naturali sono al PGF2α e la PGE2α che stimolano
    le contrazioni dell’utero gravido e che sono efficaci anche a
    concentrazioni molto basse. Analoghi delle prostaglandine
    vengono così utilizzati sia per ottenere la dilatazione del canale
    cervicale sia per indurre le contrazioni uterine necessarie per il
    distacco e l’espulsione del prodotto del concepimento. Nella
    maggior parte dei casi la procedura di completa entro 24 ore ,
    durante le quali si possono verificare effetti collaterali sgradevoli
    74
    (in particolare nausea e vomito). In molti protocolli l’uso delle
    prostaglandine è associato a quello dell’ossitocina, somministrata
    per infusione intravenosa lenta. E’ comunque spesso necessario
    completare l’espulsione del materiale fetale con una revisione
    strumentale della cavità uterina.
    I farmaci
    Poiché l’impianto dell’uovo e tutte le prime fasi della gravidanza
    dipendono soprattutto dal progesterone, l’ormone steroideo che
    viene prodotto dal corpo luteo gravidico, è possibile impedire
    l’impianto e interferire con l’annidamento e lo sviluppo
    dell’embrione somministrando un progestinico che esercita
    effetti di inibizione nei confronti dell’ormone naturale essendo in
    grado di competere con lui per i suoi recettori senza esercitare
    successivamente alcuna azione progestazionale. Sono stati
    studiati sperimentalmente un grande numero di steroidi
    antiprogesteronici e uno di essi, il mifepristone o RU486, si è
    dimostrato molto efficace nell’interruzione delle gravidanze
    iniziali e viene utilizzato oggi, in molti paesi, a questo specifico
    scopo. L’RU486 viene utilizzato nei primi 56 giorni di
    amenorrea , quasi esclusivamente in associazione con le
    prostaglandine , che servono per l’espulsione del prodotto del
    concepimento dopo che la gravidanza è stata interrotta.. In questo
    modo è possibile ottenere l’aborto in una elevata percentuale di
    casi senza poi dover eseguire interventi chirurgici
    complementari.
    Il mifepristone, che è un 19norsteroide, è stato sintetizzato dai
    ricercatori francesi della Roussel Uclaf nel 1980 nel corso di
    studi sugli antagonisti dei recettori per i glicocorticoidi. I test
    clinici relativi alle sue proprietà abortive sono cominciati nel
    75
    1982 e nel 1988 il Ministero della Sanità francese ne approvò
    l’uso, in combinazione per una prostaglandina , con il nome di
    Mifegyne. Ottenuta la licenza, ma prima che il farmaco fosse
    messo in vendita, la Roussel Uclaf ne annunciò il ritiro,
    motivandolo con le forti pressioni subite da parte dei movimenti
    pro-vita che minacciavano di boicottare tutti i farmaci prodotti
    dall’industria. Due giorni dopo il governo francese,
    comproprietario della Roussel Uclaf, intervenne in favore della
    ripresa della produzione e della distribuzione del farmaco. Il
    ministro della salute, in quella occasione, dichiarò: “Non posso
    permettere che il dibattito sull’aborto privi le donne di un
    prodotto che rappresenta un progresso della medicina. Dal
    momento in cui il Governo francese ne ha approvato l’impiego,
    l’RU486 è diventato di proprietà morale delle donne”.
    Nel 1990 un gruppo di ricercatori dell’ospedale Necker di Parigi,
    dopo aver controllato i risultati relativi all’uso del farmaco in
    30.000 donne chiese al Governo francese di ritirarlo
    urgentemente: questa richiesta indusse il Ministero della salute a
    stilare nuove linee guida che ridussero notevolmente l’incidenza
    delle complicazioni.
    L’Italia non è mai stato considerato un mercato attraente per la
    pillola abortiva, secondo esplicite dichiarazione della Exelgyn, la
    casa farmaceutiche che lo produce, che ha sempre lamentato una
    sin troppo esplicita ostilità del Vaticano. Etienne Baulieu, il
    ricercatore al quale si deve la sintesi del mifepristone, ha
    dichiarato in un recente convegno medico: “Quindici anni or
    sono ho cominciato a parlare della pillola col Vaticano e con
    l’allora cardinale Ratzinger. I contatti sono continuati, ma il
    dialogo non ha fatto passi avanti perché dalla Santa Sede ci è
    sempre stato detto che la vita va salvaguardata fino dal primo
    istante. Noi abbiamo cercato di far capire che questo era un modo
    di far soffrire meno le donne… “.
    76
    Il mifepristone è stato approvato negli Stati Uniti dalla FDA nella
    seconda parte della sottosezione H, che riguarda i farmaci per i
    quali non solo esistono restrizione nell’uso per ragioni di
    sicurezza ma per i quali è anche richiesta una sorveglianza dopo
    la messa in commercio per verificare che i risultati ottenuti nei
    trials clinici siano confermati da quelli relativi all’impiego
    generalizzato. Nel 2004 più del 9% degli aborti eseguiti negli
    Stati Uniti sono stati praticati utilizzando il mifepristone.
    In Europa solo Irlanda e Polonia hanno vietato l’uso del farmaco.
    Se si fa riferimento agli aborti eseguiti entro le prime 9 settimane
    di gravidanza, risulta evidente come l’uso del mifepristone sia
    particolarmente diffuso: più del 42% in Francia, 42% in
    Inghilterra e nel Galles, 77,8% in Scozia, 60,6% in Svezia, più
    del 60% in Danimarca.
    Nelle altre parti del mondo l’approvazione dell’uso del
    mifepristone è relativamente recente: in Australia e in Nuova
    Zelanda, malgrado l’assenza di ostacoli giuridici, l’impiego non è
    ancora iniziato. In molti altri paesi l’approvazione è giunta dopo
    il 2000 e per molti di essi mancano ancora riferimenti clinici
    relativi alla frequenza dell’impiego e ai risultati ottenuti.
    L’RU486 (o RU 38486) si lega ai recettori per il progesterone
    con un’affinità 5 volte superiore a quella dell’ormone maturale.
    Una volta legato al progesterone, il mifepristone determina una
    down-regulation dei geni progesterone-dipendenti con necrosi
    deciduale e distacco del prodotto del concepimento ; oltre a ciò,
    agisce sui vasi endometriali, aumenta l’eccitabilità della
    muscolatura miometriale e causa dilatazione del canale cervicale.
    Si somministra una pillola contenente tra 200 e 600 μg di
    mifepristone per os ,seguita dopo 30-60 ore da una
    prostaglandina ( sulfostrone, 1 mg in vagina; gemeprost ;
    misoprostol,400-600 μg per os in dosi singole o refratte o 800
    μg in vagina ). Nel 92-96,5 dei casi si ottiene l’espulsione totale
    del prodotto del concepimento; nell’1 –1,5% dei casi la
    gravidanza non viene interrotta; nel 3-4% dei casi è necessario un
    77
    intervento di isterosuzione o un raschiamento. Questi dati
    riguardano un ampio studio europeo eseguito entro i primi 49
    giorni di gestazione ed è logico che se viene utilizzato in
    gravidanze più avanzate – come molti ospedali hanno scelto di
    fare – il mifepristone è meno efficace. Uno studio multicentrico
    fatto negli Stati Uniti tra il 1994 e il 1995 ha dimostrato una
    efficacia leggermente più bassa ( intorno al 92%9) , un dato che è
    stato attribuito alla mancanza di esperienza e al particolare
    disegno dello studio.
    In Europa e in Cina è previsto un periodo di osservazione dopo la
    somministrazione del farmaco, una cautela che non viene
    consigliata negli Stati Uniti. Molti paesi hanno adottato le linee
    guida della Società inglese di ostetricia e ginecologia che
    stabiliscono che:
  • l’aborto medico eseguito con l’impiego di mifepristone e
    prostaglandine è il metodo più efficace per interrompere una
    gravidanza di meno di 7 settimane;
  • prima della settima settimana l’isterosuzione dovrebbe essere
    evitata;
  • se si opta per una isterosuzione è opportuno utilizzare un
    protocollo molto rigoroso, che includa un accurato controllo
    del materiale aspirato e il dosaggio della gonadotropina
    corionica nel follow-up, sempre tenendo conto che la
    frequenza dei fallimenti è comunque superiore a quella che si
    verifica con l’aborto chirurgico;
  • l’interruzione della gravidanza eseguita con l’impiego del
    mifepristone e delle prostaglandine continua ad essere un
    metodo appropriato anche per le gravidanze tra la settima e la
    nona settimana.
    Negli studi clinici quasi tutte le donne che hanno assunto
    mifepristone hanno sofferto di dolori e crampi addominali,
    emorragie e spotting vaginale per periodi variabili tra 9 e 16
    giorni. Circa l’8% delle pazienti ha accusato qualche tipo di
    emorragia genitale per 30 o più giorni ; sono inoltre frequenti
    78
    sintomi come la nausea, il vomito, la diarrea, l’astenia e la
    febbre. L’intervento del medico – prevalentemente una
    isterosuzione – si rende necessario per la comparsa di vere e
    proprie metrorragie e per espulsione incompleta del contenuto
    uterino e complessivamente tra il 4 e il 7% delle donne debbono
    essere ricoverate per un intervento chirurgico: questi dati sono
    diversi da quelli che ho precedentemente riportato perché si
    riferiscono a casistiche che comprendono anche gravidanze
    interrotte dopo le prime 7 settimane e che naturalmente soffrono
    di una maggior frequenza di complicazioni. Esiste sempre un
    rischio, generalmente considerato molto modesto, di
    complicazioni più severe come le sepsi e lo shock settico e sono
    stati registrati alcuni decessi.
    Il mifepristone è controindicato in presenza di un IUD, di
    insufficienza surrenalica, di disturbi congeniti della
    coagulazione, di porfiria, di terapie croniche con anticoagulanti o
    con corticosteroidi. Secondo l’FDA dovrebbero essere escluse
    dal trattamento anche le fumatrici e le donne di età superiore ai
    35 anni.
    Il mifepristone può essere utilizzato anche nella contraccezione
    di emergenza, per prevenire l’ovulazione: a questo scopo, 10 mg
    si sono dimostrati altrettanto efficaci di 600, naturalmente con
    minori effetti collaterali. La maggioranza degli studi eseguiti
    nella nostra specie dimostra che l’azione è contraccettiva e che
    l’inibizione dell’impianto dipende dal dosaggio utilizzato ed è
    praticamente costante se si somministrano più di 200 mg.
    Altre applicazioni mediche dell’RU486 riguardano il trattamento
    dei fibromi dell’utero, dell’endometriosi, delle forme più severe
    di depressione con aspetti psicotici, dei meningiomi, dei tumori
    del seno, dei tumori ovarici, dei carcinomi della prostata e di
    alcune varietà di sindrome di Cushing.
    Non sono stati ancora condotti studi a lungo termine per valutare
    il potenziale carcinogenetico del mifepristone , che comunque
    non è mai emerso, almeno fino ad oggi, dagli studi in vitro, anche
    79
    se esiste una ricerca sperimentale che ha dimostrato una
    connessione con la diminuzione dell’apoptosi nelle cellule
    epatiche dei ratti trattati. L’esposizione di ratti appena nati a una
    unica dose di mifepristone non ha effetti sull’apparato
    riproduttivo . Gli studi sperimentali hanno dimostrato che il
    farmaco è teratogeno nel coniglio, ma non nel ratto ; per quanto
    riguarda gli studi clinici la percentuale di feti malconformati nati
    dopo fallimento di un aborto farmacologico è molto bassa e
    sembra comunque dovuta alle prostaglandine.
    Una analisi della FDA, pubblicata nel settembre del 2006,
    riferisce che a partire dall’anno dell’approvazione del
    mifepristone negli Stati Uniti – il 2000 – sono morte 8 donne
    negli USA, una in Svezia, una in Canada e due in Inghilterra.
    Secondo una agenzia governativa americana la mortalità da
    mifepristone raggiungerebbe , negli USA, l’1,39 su 100.000,
    certamente maggiore di quella imputabile all’aborto chirurgico
    nelle prime otto settimane ( che peraltro, per ammissione della
    stessa agenzia, viene calcolata per difetto) e analoga a quella
    associata complessivamente a tutti i casi di aborto provocato e a
    quelli di aborto spontaneo. E’ anche possibile – ma piuttosto
    improbabile – che alcuni casi di morte non siano stati registrati,
    ma questo vale anche per le altre tecniche.
    Recentemente l’FDA ha pubblicato i particolari relativi a 5
    decessi occorsi negli Stati Uniti, tutti associati alla
    somministrazione intravaginale di misoprostol, che tra l’altro non
    è stata approvata dall’agenzia.
    Nel maggio del 2006 gli esperti di microbiologia si sono riuniti
    ad Atlanta per discutere delle possibili connessioni tra l’uso
    dell’RU486 e le infezioni da Clostridium Sordellii, poiché i 5
    casi letali descritti erano tutti collegati con questi microrganismi.
    Ora il Clostridium è presente nella flora batterica vaginale del 5-
    10% delle donne, una percentuale che aumenta in gravidanza,
    mentre le infezioni da clostridium sono molto rare e si verificano
    anche dopo parti fisiologici. E’ emersa dalla discussione la
    80
    possibilità che l’uso delle prostaglandine possa determinare una
    immuno-soppressione e favorire così le infezioni batteriche.
    Secondo altri esperti anche il mifepristone potrebbe avere effetti
    negativi sulla risposta immunologia alle infezioni. Una terza
    ipotesi chiamerebbe in causa la confluenza di una combinazione
    di eventi che favorirebbero le infezioni e il conseguente shock
    tossico. In ogni caso è bene che tutti ricordino che si tratta di
    numeri molto piccoli e che in questi casi è sempre possibile che
    la valutazione statistica dei dati, specie quando deve valutarne la
    significatività, è molto fallace. L’ultimo Up-to-date
    sul mifepristone, pubblicato dopo l’estate del 2007, afferma che
    gli epidemiologi consultati non ritengono che possa essere
    considerata significativa la presenza di un numero tanto piccolo
    di casi letali e che gli interventi di alcune agenzie a questo
    proposito dovrebbero essere considerati atti di terrorismo e
    comunque non hanno molto a che are con la ricerca scientifica.
    Anche se il mifepristone è utilizzato in modo routinario in molti
    paesi, l’Italia non lo ha ancora registrato soprattutto per una fiera
    resistenza del mondo cattolico, il quale teme che l’impiego di
    questo farmaco incoraggi l’uso dell’aborto per il controllo delle
    nascite. In realtà questo non è accaduto altrove e non vedo
    proprio perché dovrebbe accadere in Italia. Personalmente credo
    che questo genere di timori non tenga in alcun conto il solido
    buonsenso delle donne italiane, a nessuna delle quali piace l’idea
    di abortire e che non hanno bisogno di esser prese per mano dai
    moralisti cattolici per essere portate alla salvezza. D’altra parte
    nelle farmacie sono già in vendita le prostaglandine e molte
    nuove cittadine le usano per abortire. Nel secolo scorso in quasi
    tutte le farmacie italiane c’erano grandi vasi di vetro che
    contenevano compresse di apiolo, la sostanza estratta dal
    prezzemolo che fa abortire, e non mi consta che moralisti e
    carabinieri si siano mai preoccupati di sequestrarle.
    81
    Molte regioni italiane hanno però deciso di consentire
    l’mportazione dell’RU486 per impieghi mirati e certamente i
    risultati di questo impiego compariranno nella relazione del
    Ministro della salute a partire dal 2008. Intanto, nel febbraio del
    2008 l’Ru486 ha ricevuto il primo via libera alla
    commercializzazione nel nostro paese. La commissione tecnicoscientifica
    dell’Agenzia italiana del farmaco ha dato parere
    favorevole alla richiesta di autorizzazione al commercio,
    attraverso la procedura di mutuo riconoscimento ( che coinvolge
    anche altri Paesi europei che sono rimasti ultimi a farne
    richiesta, è cioè Portogallo, Ungheria e Lituania). E’ ’il primo
    passo sulla strada che potrebbe rendere disponibile il
    mifepristone in Italia in tempi relativamente brevi per un impiego
    esclusivamente ospedaliero, perché l’iter per l’entrata in
    commercio del farmaco è di soli 90 giorni e la procedura si
    concluderà dopo un parere del Comitato tecnico- scientifico
    seguito dalla ratifica da parte del consiglio di amministrazione
    dell’AIFA e dalla pubblicazione del provvedimento di
    registrazione nella Gazzetta Ufficiale. Naturalmente
    l’utilizzazione del farmaco dovrà essere compatibile e coerente
    con la legge 194 e per questo la sua assunzione dovrà essere fatta
    rigorosamente in ospedale. E’ dunque evidente che i farmacologi
    di tutti i Paesi europei – e non solo europei – considerano il
    mifepristone un farmaco utile e con un rapporto costi-benefici
    favorevole; dall’altra parte, a definirlo con espressioni roboanti (
    pillola morte!) ci sono, al momento, un paio di ragazzotte
    incompetenti e un Cardinale.
    Altri farmaci che possono essere utilizzati per determinare
    l’interruzione della gravidanza sono l’Epostano e il Metotrexate,
    Il primo, una molecola steroidea modificata, diminuisce la sintesi
    del progesterone dal pregnenolone per inibizione dell’enzima
    82
    specifico ( la 3β olodeidrogenasi); il secondo, un antagonista
    dell’acido folico, interferisce con la sintesi del DNA.
    Le prostaglandine, che stimolano le contrazioni dell’utero, sono
    state utilizzate da sole : il misoprostol, alla dose di 400- 3200 γ,
    determina l’aborto solo nel 4-10% dei casi e sempre che la
    gravidanza non abbia superato le otto settimane. Questo farmaco,
    oltretutto poco costoso, si trova nelle farmacie perché viene
    utilizzato come trattamento di prevenzione dell’ulcera peptica
    conseguente all’assunzione di farmaci antinfiammatori non
    steroidei. L’assunzione di questa prostaglandina è associata alla
    comparsa di un gran numero di effetti collaterali, inclusi gravi
    incidenti cardiocircolatori. Nel caso di fallimento bisogna poi
    tener presente che queste prostaglandine sono teratogene. Di
    questo farmaco fanno illegalmente uso molte donne (soprattutto
    nuove cittadine immigrate dall’Europa dell’EST) che riescono a
    farseòo prescrivere e ne assumono quantità rilevanti :sono già
    stati registrati numerosi ricoveri, soprattutto per la comparsa di
    complicazioni cardiocircolatorie, ma non mi consta che ci siano a
    questo proposito interventi della Magistratura.
    I moralisti cattolici equiparano all’aborto i metodi che
    impediscono l’impianto nell’utero dello zigote che risulta dall’
    avvenuta fecondazione ( una tecnica che definiscono come
    intercezione) e quelli che eliminano l’embrione appena
    impiantato ( che gli stessi moralisti definiscono contragestione). I
    metodi intercettivi apparterrebbero i dispositivi intrauterini, la
    pillola del giorno dopo, i progestinici in pillole, le iniezioni e gli
    impianti sottocutanei di progestinici. I metodi di contragestione
    sarebbero invece rappresentati dai vaccini anti hCG, dal
    mifepristone e dalle prostaglandine. Alcuni di questi metodi sono
    certamente abortivi e mi sembra un po’ strano definirli con nomi
    ambigui. Altri non c’entrano assolutamente niente con l’aborto e
    inserirli nella lista degli interventi satanici è insieme il risultato di
    83
    una bieca ignoranza e di una presunzione acritica che solo i
    bioeticisti cattolici possono esprimere senza sentirsi ridicoli.
    In realtà penso che sia molto difficile essere
    contemporaneamente scienziati onesti e bravi cattolici, almeno
    da quanto risulta dal lungo dibattito che c’è stato nel Comitato
    Nazionale per la Bioetica a proposito della pillola del giorno
    dopo, un progestinico a dosaggio relativamente basso che la
    morale religiosa condanna e per il quale molti medici e alcuni
    farmacisti hanno chiesto di poter opporre obiezione di coscienza.
    Il CNB ha optato per la condanna della pillola, basandosi
    soprattutto su un presunto effetto di inibizione dell’impianto
    dell’embrione ( effetto definito “uccisivo” o “occisivo” dai
    cattolici), pur in assoluta assenza di prove scientifiche e cliniche.
    Recentemente è stato pubblicato su Human Reproduction
    (P.G.I.Laliktumar e coll., 2007,22.2031) uno studio di grande
    rilevanza scientifica che ha confrontato gli effetti del
    levonorgestrel (la pillola del giorno dopo) e del mifepristone
    sull’impianto dell’embrione in utero. Questa ricerca, la prima ad
    affrontare in modo diretto il problema, si è valsa di un modello
    sperimentale messo a punto dai ricercatori del Karolinska
    Institutet di Stoccolma che ha costruito un modello uterino
    tridimensionale capace di sopravvivere a lungo in coltura e che
    viene preparato coltivando insieme cellule endometriali stromali
    ed epiteliali in fase luteale iniziale. La ricerca, che è stata
    eseguita utilizzando embrioni umani soprannumerari o congelati
    per più di 5 anni, ha dimostrato che solo il mifepristone inibisce
    l’impianto della blastocisti e ha confermato quanto già tutti
    sapevamo, che cioè il levonorgestrel ha effetti del tutto diversi,
    esercitati con ogni probabilità sui meccanismi dell’ovulazione e
    della fecondazione dell’oocita. Al momento, purtroppo, non sono
    ancora arrivate le scuse dei ricercatori cattolici.
    Le complicazioni
    84
    Quando l’aborto viene eseguito da personale esperto in strutture
    ospedaliere ,gli effetti collaterali dell’intervento sono abbastanza
    contenuti e i rischi, soprattutto quelli a breve termine, facilmente
    prevedibili. Quando invece l’interruzione della gravidanza viene
    affidata a mani inesperte o viene eseguita in strutture
    igienicamente non adeguate, allora le complicazioni divengono
    molto più frequenti e, per evidenti ragioni, assai più difficili da
    quantificare. Le complicazioni sono comunque in stretto
    rapporto, oltre che con l’esperienza dell’operatore e con la
    qualità delle strutture mediche,con la tecnica utilizzata e con
    l’epoca di gravidanza alla quale l’aborto viene eseguito. Come è
    logico, i dati relativi agli aborti eseguiti nei paesi nei quali
    l’interruzione di gravidanza è legale non sono noti se non in
    misura approssimativa e non possono essere confrontati con
    quelli dei paesi in cui l’aborto è proibito dalla legge.
    In Italia la mortalità da aborto è molto bassa e diminuisce anno
    dopo anno. Nel sito del Ministero della salute italiano di
    mortalità da aborto non si parla , ma non sono così ottimista e
    così ingenuo da ritenere che ciò corrisponda a un dato reale. Ho
    sotto gli occhi una tabella della Svezia – abbastanza vecchia, ma
    certamente ancora valida – che denuncia una mortalità da aborto
    volontario pari allo 0,9 per 100,000 aborti tra il 1977 e il 1983 e
    leggo le dichiarazioni di alcuni esperti che affermano che questo
    – 1 o 2 casi di morte ogni 100.000 interventi – è l’obiettivo che
    tutti dovrebbero ripromettersi di raggiungere. Leggo anche che il
    rischio di morte aumenta del 30% per ogni settimana di
    gestazione, cosa che dovrebbe convincere tutti che , una volta
    che la decisione è stata presa, l’intervento dovrebbe essere
    considerato urgente e che parla in favore di una modificazione
    sostanziale della norma che prevede la obiezione di coscienza,
    responsabile di enormi ritardi nell’esecuzione degli interventi in
    molti ospedali.
    85
    Le cause più frequenti di morte sono rappresentate da infezioni,
    embolie ed emorragie, nonché da complicazioni dell’anestesia.
    Naturalmente la mortalità da aborto è più alta quando
    l’interruzione viene eseguita per motivi medici , perché in questi
    casi si deve tener conto delle complicazioni dovute alla malattia
    di base.
    Non è stato ancora trovato un metodo attendibile per calcolare la
    mortalità da aborto illegale, così che le stime che si trovano nella
    letteratura medica dono tutte molto diverse tra loro e debbono
    essere considerate poco attendibili. Facendo una media tra i dati
    che ho potuto trovare – e dopo aver scelto con cura i dati
    bibliografici più attendibili – credo che sia verosimile accettare
    una cifra pari a 500 morti ogni centomila interruzioni di
    gravidanza, una ogni cento interventi . Poiché gli aborti illegali
    ammontano a decine di milioni, è molto probabile che le vittime
    di questi interventi siano tra le 100.000 e le 200.000 ogni anno.
    Sempre nel nostro paese, le complicazioni precoci dell’aborto (un
    termine con il quale vengono generalmente indicati solo gli
    effetti collaterali di una certa gravità) sono generalmente
    comprese tra il 3 e il 5 per mille, un dato molto simile a quello
    denunciato dagli altri paesi. Il rischio è generalmente più elevato
    per le gravidanze interrotte in epoca più avanzata ; le
    complicazioni più frequenti riguardano le perforazioni dell’utero,
    i traumi e le lacerazioni cervicali , le sepsi,e le emorragie;
    frequenti anche le ritenzioni di materiale abortivo e non rari i
    fallimenti totali dell’intervento, che non porta a termine lo scopo
    che si era prefisso, quello di interrompere la gravidanza. E’
    opinione diffusa che alcuni dati non vengano registrati nelle
    cartelle : accede ad esempio con una certa frequenza che le donne
    rientrino in ospedale dopo circa un mese dall’intervento
    accusando perdite ematiche atipiche, talora maleodoranti e
    vengano sottoposte a revisioni strumentali della cavità uterina. Di
    questi interventi non c’è quasi mai traccia nelle statistiche.
    86
    Quali e quanti siano le complicazioni degli aborti illegali non lo
    sappiamo, possiamo solo dedurlo valutando il numero di ricoveri
    ospedalieri e la mortalità in gravidanza dei paesi nei quali
    l’aborto non è stato legalizzato. Ma la maggior parte delle donne
    si cura a casa e si fa ricoverare in ospedale solo se c’è costretta.
    Anche per le sequele tardive dell’aborto abbiamo informazioni
    incerte e incomplete: esistono forma di patologia ginecologica
    che vengono addebitate all’intervento abortivo in modo acritico e
    spesso poco verosimile e ci sono conseguenze che sono molto
    probabilmente, ma solo molto probabilmente, correlate con
    l’aborto, e noi sappiamo che questa correlazione non saremo mai
    in grado di dimostrarla.
    La sequela tardiva che mi viene in mente per prima è comunque
    la perdita della fertilità meccanica, che ha un preciso rapporto
    statistico con l’aborto, sia volontario che spontaneo. La sterilità
    secondaria, quella che si manifesta dopo una gravidanza,
    comunque questa si sia conclusa, è frequentissima sia nei paesi
    nei quali è molto diffuso l’aborto clandestino sia in quelli nei
    quali l’assistenza al parto avviene in ambienti igienicamente
    impropri. In questi casi le indagini laparoscopiche mostrano,
    almeno nella maggior parte dei casi, gli esiti di una flogosi
    pelvica pregressa.
    Un’altra complicazione possibile, ma certamente meno frequente
    della precedente, è la sindrome di Asherman, che consiste nella
    formazione di sinechie uterine, tralci aderenziali che connettono
    le opposte pareti della cavità e che possono arrivare, nei casi
    limite, ad occluderla completamente. La sindrome di Asherman è
    prevalentemente iatrogena e la responsabilità del medico consiste
    generalmente nell’aver eseguito un raschiamento con eccessiva
    energia, denudando due parti contrapposte della cavità, parti che
    finiscono per collabire e saldarsi tra loro. E’ una complicazione
    certamente più frequente nei casi di aborto settico essendo più
    facile danneggiare una cavità infetta, e ciò fa immaginare che la
    sua frequenza sia sostanzialmente maggiore nei casi di aborto
    87
    illegale. Solo a una parte di queste sindromi si può porre rimedio
    con interventi chirurgici isteroscopici.
    Le dilatazioni traumatiche – eseguite con eccessiva energia,
    troppo rapidamente o con dilatatori di diametro eccessivo – sono
    responsabili dell’insufficienza cervico-segmentaria,
    l’incompetenza cervicale che predispone all’aborto spontaneo nel
    secondo trimestre di gravidanza, quando l’orifizio interno del
    canale cervicale prima e poi tutto il collo dell’utero non sono più
    capaci di sostenere l’aumento di pressione che è determinato
    dalla gravidanza in evoluzione e cede, più o meno
    improvvisamente. Sono aborti tardivi, che si verificano senza una
    sintomatologia dolorosa premonitrice e che portano a una rapida
    espulsione del feto. In questi casi, si possono eseguire interventi
    preventivi ( i cosiddetti cerchiaggi) che hanno buone probabilità
    di successo, mentre molto meno efficaci sono gli interventi “a
    caldo”, eseguiti quando l’insufficienza si è già manifestata.
    Alcune casistiche denunciano un aumento delle gravidanze extrauterine
    nelle donne alle quali è stato procurato un aborto. E’ una
    complicazione possibile, considerata la relazione esistente tra le
    gravidanze tubariche e gli esiti delle flogosi pelviche.
    Nei casi in cui la gravidanza viene interrotta nelle prime due
    settimane di amenorrea non si verificano isoimmunizzazioni Rh;
    via via che aumenta l’amenorrea diventa sempre più probabile
    che nel corso dell’intervento si determini il passaggio di globuli
    rossi Rh positivi nel sangue della madre Rh negativa e che a ciò
    consegua la produzione di anticorpi anti Rh. Questo rischio può
    naturalmente essere eliminato somministrando alla madre, subito
    dopo l’aborto, immunoglobuline specifiche anti-Rh.
    Negli ultimi trent’anni, le tecniche di procreazione medicalmente
    assistita e, soprattutto, le terapie di induzione dell’ovulazione con
    88
    gonadotropine hanno determinato un enorme aumento delle
    gravidanze multiple: l’incidenza delle gravidanze trigemine o di
    ordine superiore è aumentata di quasi 10 volte rispetto al passato.
    Queste gravidanze sono associate a un aumento della mortalità
    materna e soprattutto a un aumento della morbilità e della
    mortalità perinatale legata soprattutto alla elevata incidenza dei
    parti pretermine. . E’ pur vero che l’imperativo è quello di evitare
    l’insorgenza di gravidanze multiple, ma cosa si può fare una
    volta che si sono instaurate? Una possibile strategia è
    rappresentata dalla riduzione embrionaria selettiva.
    Il primo intervento di questo genere è stato eseguito nel 1978 da
    A.Aberg in una gravidanza gemellare per interrompere lo
    sviluppo di uno dei due feti che era affetto da sindrome di
    Hurler.Da allora gli interventi si sono moltiplicati e si sono
    moltiplicate anche le tecniche proposte. Una delle prime
    procedure introdotte è stata l’aspirazione transcervicale di uno o
    più sacchi, dopo aver dilatato il canale cervicale. Attualmente le
    tecniche più utilizzate sono quelle che prevedono un approccio
    transaddominale e un approccio transvaginale, sotto controllo
    ecografico. Con queste tecniche viene iniettato circa 1 ml di una
    soluzione ipertonica di cloruro di potassio nella cavità toracica
    del feto. ; nelle fasi iniziali della gravidanza questa tecnica può
    essere sostituita dall’aspirazione diretta dell’embrione. In verità è
    preferibile eseguire questi interventi alla 11a-12a settimana in
    modo da poter eseguire preliminarmente un’indagine genetica sui
    villi coriali. Sempre nel caso di gravidanze multiple, qualora uno
    dei feti risulta gravemente malformato, si può procedere alla
    chiusura del suo cordone ombelicale, un intervento che è
    possibile eseguire utilizzando il fetoscopio.
    I vantaggi maggiori della riduzione fetale si hanno nei casi di
    gravidanza quadrigemina o di ordine superiore, ma anche nelle
    gravidanze trigemine sembra che i benefici superino i rischi
    dovuti alla tecnica per sé. Dopo l’intervento la percentuale di
    aborti spontanei varia dal 2 al 15%. In Italia questa riduzione
    89
    continua ad essere eseguita ed è frequentemente proposta nei casi
    nei quali uno dei feti sia risultato affetto da anomalie genetiche.
    Viene contestato da alcuni il fatto che l’intervento venga
    generalmente eseguito senza sottostare a tutte le regole imposte
    dalla legge 194. C’è anche molta bibliografia relativa ai danni
    psicologici subiti dalle madri che si sottopongono a questi
    interventi e che sono chiamate ad approvare una scelta
    certamente molto difficile.
    Conclusioni
    Mi sembra evidente che il problema dell’aborto è il problema
    centrale della pianificazione della famiglia nel mondo. Mi
    sembra anche ormai chiaro che anche i cattolici più ortodossi
    hanno capito che non si possono avere tutti i figli che il destino
    sarebbe disponibile a inviarci ( si potrebbe dire che non tutto
    quello che è naturalmente possibile è umanamente accettabile).
    La scelta di un controllo delle nascite basato sul ritmo è
    comunque la scelta di un mezzo anticoncezionale , separa la vita
    sessuale da quella riproduttiva, anche se per strani motivi non è
    considerata una offesa della dignità della procreazione , ma, al di
    là di tutto, la maggioranza dei cattolici l’ha ripudiata. Molti di
    noi si chiedono cosa potrebbe accadere se potessimo disporre di
    una anticoncezione migliore, se nelle scuole si insegnasse
    educazione sessuale, se esistesse un minimo di giustizia sociale.
    Diminuirebbero gli aborti? Molto probabilmente sì.
    Scomparirebbero? Molto probabilmente no. Vale ugualmente la
    90
    pena di battersi per una diffusione della cultura, per un
    miglioramento delle tecniche, per una società più giusta? Sempre
    a mio avviso, sì.
    Molte donne continuano a sostenere il principio
    dell’autodeterminazione, per molti è un problema di libertà e di
    diritti che riguarda tutti i cittadini, non solo le donne. Quella
    dell’interruzione volontaria della gravidanza, è in ogni caso una
    storia di straordinaria tristezza. L’aborto è sempre stato una sorta
    di ombra nera che ha seguito le donne nel loro percorso di vita,
    da sempre, qualche volta uccidendole, sempre riempiendole di
    angoscia, mai realmente scelta o diritto, sempre destino doloroso.
    Stabilire il terreno dello scontro ideologico sul terreno dei valori
    è assurdo, significa stabilire l’esistenza di criteri dogmatici per
    giudicare le scelte dei cittadini, secondo la mia morale tu sei un
    assassino, la mia morale ti condanna, nessuna compassione,
    nessuna capacità di ascolto. I valori – lo scrive Gustavo
    Zagrebelsky- sono tirannici, contengono una dimensione
    totalitaria che annulla ogni propensione contraria e si combattono
    reciprocamente fino a che uno solo prevale sugli altri. Il
    principio invece è un bene iniziale che chiede di realizzarsi
    attraverso attività che prendono da esso avvio e che si sviluppano
    di conseguenza; inoltre i principi non contengono una
    dimensione totalitaria, e quando una stessa questione ne
    coinvolge più di uno possono bilanciarsi, combinarsi in maniera
    che ci sia posto per tutti. Chi si ispira all’etica dei principi sa di
    dover essere tollerante e aperto alla ricerca della giustizia
    possibile, una giustizia che spesso si identifica con la capacità di
    individuare la minor quantità possibile di ingiustizie. In nome di
    questa morale, che non concede nulla all’assolutismo e che non
    ha niente da spartire con il relativismo, si può affermare che nella
    questione dell’aborto ci sono due principi, che equivalgono a due
    diritti: quello alla vita del feto e quello alla libertà e alla salute
    della donna. e il confronto tra diritti, come quello tra principi,
    consente di stabilire priorità, evita che il Paese si spezzi in due.,
    91
    come sta avvenendo, come certamente avverrà se l’attuale
    crociata delle gerarchie ecclesiastiche contro le donne, contro la
    scienza e contro la laicità continuerà con lo stesso impeto
    impietoso. Ci sono certamente casi in cui occorre operare in
    modo da salvare sia la vita e la salute della madre che la vita del
    feto. Quando questo non è possibile, quando i due diritti entrano
    in collisione, prevale il principio secondo il quale deve prevalere
    l’interesse e la salute della donna ( che è già persona) rispetto al
    diritto alla vita del concepito, ( che persona deve ancora
    divenire). Non c’è alcun accenno, come si vede, al diritto
    potestativo della donna di interrompere la gravidanza né al suo
    eventuale dovere di portarla a termine, un modo per evitare il
    conflitto, un giusto tentativo di mediazione. Come giustamente
    ha scritto Piero Ostellino, il pluralismo dei valori esclude che
    tutte le questioni morali abbiano una sola risposta corretta ,
    riconducibile ad un unico sistema etico, una definizione in cui si
    concreta la differenza tra Chiesa e Stato, tra peccato e reato, cioè
    il concetto di laicità. E, scrive ancora Gustavo Zagrebelsky, in
    molte circostanze è la gravidanza stessa ad avere un forte
    contenuto di violenza, tutta esercitata contro la donna , quando ne
    minaccia la salute, del corpo e della mente, e quando induce
    sentimenti di sopraffazione, di colpa, di indigenza, di solitudine e
    di abbandono. La donna incinta, continua Zagrebelsky, è
    l’orgoglio della società di cui è parte, ma nelle situazioni
    anormali può diventarne la vergogna e il peso, al punto da essere
    tenuta ai margini e mal tollerata. La parola dominante, in questo
    gioco, è dunque la violenza: violenza della natura sulla società,
    della società sulla donna, della donna sul proprio grembo, che si
    tratti di una cosa o di un figlio potrà deciderlo solo dopo molta
    sofferenza e molte umiliazioni.
    Non è disonorevole cercare compromessi, una società composita
    come la nostra, oltretutto continuamente stimolata al litigio da
    una Chiesa prepotente e incapace di compassione, ne deve
    cercare continuamente. Sarebbe però disonesto tacere il fatto che
    92
    per me e per molte persone come me accettare questo
    compromesso è come trangugiare un po’ di veleno, e purtroppo
    su questi temi non c’è mitridatismo. La mia convinzione è che
    esiste un preciso diritto all’autodeterminazione della donna e che
    non esiste un figlio, nel suo grembo, se lei non lo riconosce come
    tale. Del resto siamo anche tutti convinti che la legge 194, che
    consideriamo una buona legge, è anche una legge
    fondamentalmente ipocrita, che ha rappresentato e rappresenta il
    più alto compromesso possibile in un Paese nel quale, per ragioni
    storiche, il problema dell’aborto potrebbe diventare con facilità
    una ragione di conflitti ancora più dilanianti.
    Ma quanto è realmente buona questa legge? Il 25 febbraio del
    2008 la FNOMCeO ( Federazione Nazionale degli Ordine dei
    Medici Chirurghi e degli Odontoiatri) ha reso pubblico un
    documento sui problemi connessi alla procreazione, alla
    contraccezione e alla interruzione della gravidanza . Si legge nel
    documento che si possono mettere in evidenza luci e ombre sullo
    stato di applicazione della legge 194: è soprattutto
    insoddisfacente l’attività consultoriale e sono evidenti forti
    carenze organizzative dovute soprattutto al grande numero di
    medici obiettori. D’altra parte, continuano i medici, non possono
    essere ignorate né la sostanziale scomparsa dell’aborto
    clandestino, né la sostanziale riduzione del numero degli
    interventi, diminuiti, dopo 30 anni, del 46%. Questi risultati
    confortano il grande valore civile e sociale della legge che, a
    distanza di tanti anni, dimostra tutta la solidità e la modernità del
    suo impianto tecnico-scientifico, giuridico e morale.
    Questo documento è stato molto contestato dai medici cattolici
    che hanno sostenuto – ed è probabile che abbiano ragione – che
    in realtà si tratta di una relazione che non è stata sottoposta al
    voto (e non è stata perciò approvata) e che ignora la posizione di
    un buon numero di professionisti che, in materia, ha opinioni
    molto diverse. E se anche fosse vero? E’ comunque giusto che
    su questo problema intervenga, con cattiveria e prepotenza, il
    93
    Magistero cattolico, ponendo le basi di un conflitto tra i medici
    che potrebbe avere esiti molto sgradevoli? Qualcuno pensa che
    lavorare al fianco di un collega che ti considera un assassino e
    che tu consideri un disonesto sia privo di effetti? E in ogni caso,
    cosa c’è di falso nelle dichiarazioni del documento?
    Mi sono personalmente adoperato, per una buona parte della mia
    vita, perché anche nel nostro paese si arrivasse ad approvare una
    legge che consentisse la legalizzazione dell’aborto volontario. Mi
    hanno sempre sollecitato a farlo due considerazioni: la prima che
    l’alternativa ad abortire non è non abortire, ma abortire
    clandestinamente, con tutti i rischi che dipendono dall’aborto
    clandestino e con in più la profonda ingiustizia di esporre ai
    rischi maggiori le donne più indigenti. La seconda
    considerazione riguarda la mia personale convinzione che
    decidere se portare a termine una gravidanza, in tutte le
    circostanze nelle quali esistono gravi difficoltà di ordine
    personale, familiare e sociale, lo può fare solo la donna. Del resto
    a chi mi ha chiesto quando comincia, secondo me, la vita
    personale di un embrione, ho sempre dato la stessa risposta:
    quando viene accettato come figlio dalla donna che lo porta in
    grembo.
    Ricordo bene quei giorni, quelli della legge e quelli del
    referendum, straordinari, chi è chiamato a battersi per i diritti di
    tutti , ha un grande fuoco dentro di sé, sciogliere la propria libertà
    nella libertà degli altri è un momento molto bello, vale una vita.
    Sono passati molti anni da quei tempi, la legge che siamo riusciti
    a far approvare è sotto un nuovo, durissimo attacco la mia
    impressione – a la mia paura – è che non ci sia una reazione
    adeguata delle donne, soprattutto delle donne giovani. Temo che
    le ragazze nate dopo il 1978 siano convinte che i diritti acquisiti
    dono definitivi, nessuno te li può più toccare, e non si rendano
    ben conto di quanto sta accadendo. In realtà, basta dormire un
    94
    po’ più a lungo che quando ti svegli i tuoi diritti non ci sono più,
    qualcuno te li ha rubati, i ladri sono dappertutto.
    Detto questo, sono anche dell’opinione che è compito dello stato
    portare a compimento una vera campagna antiabortista,
    eliminando le motivazioni sociali che sono così spesso causa di
    aborto volontario, facendo promozione di cultura sui temi della
    pianificazione della famiglia, investendo nella ricerca scientifica
    sugli anticoncezionali, convincendo i giovani che l’esercizio
    della libertà sessuale, a proposito del quale non credo che
    esistano più riserve di sorta, non può essere dissociato da una
    assunzione di responsabilità nelle quali ogni persona deve
    cimentare la propria coscienza. Tutto questo, a mio personale
    avviso, si chiama prevenzione dell’aborto.
    Esiste, lo so bene, un altro concetto di prevenzione secondo il
    quale sarebbe necessario inserire nei consultori familiari gruppi
    di volontari che avrebbero l’unica funzione di dissuaderle dal
    portare a compimento la propria scelta. Questo concetto nasce
    dalla supposta presenza, nella legge 194, di una “preferenza per
    la nascita” dalla quale discenderebbe la legittimità di una
    prevenzione post-concezionale dell’aborto. Su questo concetto si
    basa il tentativo, del quale esistono già alcuni esempi, di ottenere
    un sistema di convenzione con il volontariato cattolico da parte
    degli enti locali, eventualmente in accordo con i consultori, una
    richiesta che in genere si accompagna a quella di riformare i
    consultori, secondo il modello proposto dalla Germania.
    Leggo queste proposte da molto tempo e ormai non mi
    sorprendono più: non mi ha particolarmente sorpreso neppure il
    fatto che nella Clinica Ostetrica dell’Università di Milano uno di
    questi ambulatori cattolici è stato aperto di fianco alla porta della
    segreteria alla quale le donne si rivolgono per mettersi in nota per
    una interruzione di gravidanza. E’ vergognoso, ma non mi
    stupisce. Non mi stupisce più il fatto che ci sia tanta gente che ha
    tanto poco rispetto per la capacità delle donne di pensare e di
    decidere con la propria testa e tanta diffidenza per le strutture
    95
    socio-sanitarie da ritenerle incapaci di svolgere il compito loro
    affidato. Non mi sorprende il fatto che esistano tanti cattolici che
    non si rassegnano a vivere in uno stato laico.
    Mi stupisce invece – invecchiare evidentemente non mi ha
    insegnato molto – l’idea che esista qualcuno che vuol costringere
    le donne a comportarsi secondo i propri principi morali
    sottoponendole al giudizio umiliante e intimidatorio di un
    tribunale religioso, sgradevole e dogmatico quanto è possibile
    esserlo, anche se mascherato da laboratorio di buoni consigli e di
    buone intenzioni. Credo di sapere perché mi stupisco: in fondo,
    l’idea che mi sono fatto dei cattolici è molto migliore.
    Testi consultati
    Autori diversi
    -Abortion in a changing world, a cura di R.E.Hall, Columbia
    University Press, New York, 1970
    —-Aborto, perché, a cura di E.Quintavalla, e E.Raimondi,
    Feltrinelli editore, Milano, 1989.
    —-Ethics and Law in Biological Research, a cura di
    C.M.Mazzoni, Martinus Nijhoff Publishers, L’Aja, 2002
    —-Il consultorio familiare, a cura di J.Baldaro Verde, CIC
    edizioni internazionali, Roma, 1998
    —-Progesterone Antagonists in Reproductive Medicine and
    Oncology, a cira di H.M.Beier e I.M.Spitz, Oxford University
    Press, 1994
    —-Per uno statuto del corpo, a cura di C.M.Mazzoni, Giuffrè
    editore, Milano, 2008
    A.Bompiani, Bioetica in Italia, lineamenti e tendenze, Edizioni
    Dehoniane Bologna, 1992
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    M.Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in
    una società liberale, Donzelli, Roma, 2003.
    C.Flamigni, Avere un Bambino, Mondadori, Milano, 2001
    C.Flamigni, Il Libro della Procreazione, Mondadori, Milano,
    2002
    C.Flamigni,Il controllo della Fertilità, UTET,Torino,2006
    G.Galeotti, Storia dell’aborto, Il Mulino, Bologna, 2003
    N.E-Himes. Il controllo delle nascite dalle origini ai giorni
    nostri, Sugar, Milano, 1965
    M.Iacup, L’Empire du Ventre,.Pour une autre Histoire de la
    mayìternité, Fayard, Parigi, 2004
    E.Lecaldano, Bioetica, Le Scelte Morali, Laterza, Bari, 2005
    —-Dizionario di Bioetica, Laterza,Bari,2002
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    Paucis, Varese, 1971
    G.M.Pace, L’embrione, una questione aperta, Sperling e Kupfer,
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    A.Pichot, Histoire de la notion de vie, Gallimard, Parigi, 1993
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    moderna e la Chiesa Cattolica. Garzanti, Milano, 1999
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    J.Vallin, La Popolazione Mondiale, Il Mulino, Bologna, 1994
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