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L’acquisto compulsivo di vestiti di cui, in fondo, non abbiamo bisogno

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L’inchiesta è stata svolta con un sistema molto furbo. In una giornata di gennaio sono stati consegnati dieci capi H&M nelle scatole di raccolta della catena per il riciclo, disponibili in alcuni punti vendita svedesi. I capi però erano dotati di AirTags, una sorta di tracker che utilizza la tecnologia blue-tooth, così che potevano essere sempre rintracciati. Ebbene in primavera alcuni di questi vestiti erano finiti dall’altra parte del mondo, in Africa o in Asia dove in teoria dovevano essere rivenduti e/o riutilizzati ma invece, alla fine del giro, risultavano dispersi in mare o probabilmente bruciati in discarica.

In questi Paesi, infatti, arriva di tutto e molti capi non sono affatto adatti ad essere indossati in quei luoghi, di conseguenza vengono gettati via.

In parole povere, dall’altra parte del mondo gli indumenti che noi non usiamo più vengono scaricati e, se non servono, bruciati o buttati in discariche senza controllo. La situazione sta quindi degenerando in un disastro ambientale (sembra però che l’importante sia solo che tutto ciò avvenga lontano dai nostri occhi!

I giornalisti svedesi definiscono questo:

Un sistema apparentemente incrollabile, dove noi occidentali inviamo enormi quantità di capi di abbigliamento di cui siamo stanchi ad alcuni dei paesi poveri della terra – che non hanno l’opportunità di prendersi cura dei rifiuti.

E ricordano anche:

H&M non è l’unico a collezionare abiti nei suoi negozi. E i concorrenti non sono certo migliori. Secondo l’organizzazione Changing Markets, le catene di moda non tengono quasi mai traccia di dove vanno i vestiti. (…) I mercati africani continuano ad essere sommersi dal fast fashion, mentre i clienti sono incoraggiati a scansionare i codici a barre per acquistare ancora più nuovi articoli.

La soluzione?

Fortunatamente, c’è sempre più consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dell’impatto ambientale dell’industria della moda. Di contro però, sfortunatamente, non tutte le aziende si impegnano davvero per migliorare la loro filiera. L’idea di rallentare il processo di produzione e di assumersi la responsabilità per il ciclo di vita completo di un capo d’abbigliamento è cruciale. Questo significa non solo considerare l’aspetto della produzione, ma anche capire cosa succede ai tessili dopo che sono stati indossati una prima volta.

È fondamentale riconoscere che gran parte degli abiti non sono facilmente riciclabili, soprattutto quelli realizzati con miscele di fibre miste economiche (che sono purtroppo anche le più diffuse e amate dalla moda usa e getta).

Attualmente, il riciclaggio di tessuti come cotone e lana è più fattibile, mentre il poliestere spesso finisce in Asia.  Purtroppo, il problema delle “montagne di spazzatura” nasce quando i tessuti vengono venduti all’ingrosso ai paesi in via di sviluppo, dove il riciclo è meno regolamentato.

Nonostante le difficoltà, non dobbiamo comunque rinunciare completamente all’idea del riciclo. Anche la separazione e il riciclo di una minima percentuale di tessuti possono fare la differenza, evitando che questi rifiuti finiscano in discariche o inceneritori.

Dobbiamo ricordarci che il problema di fondo resta però l’acquisto compulsivo di vestiti di cui, in fondo, non abbiamo bisogno.

L’abbigliamento “low cost” alimenta la domanda di produzione su larga scala che spesso è di bassa o bassissima qualità. Questo crea un circolo vizioso che porta a una quantità esorbitante di rifiuti tessili, alcuni dei quali finiscono in discariche o vengono bruciati. Pertanto, ogni volta che consideriamo un nuovo acquisto, è fondamentale riflettere sul suo impatto ambientale a lungo termine.

L’industria della moda deve fare i conti con la sua produzione smodata e insostenibile e noi, come consumatori, abbiamo il potere di guidare il cambiamento attraverso le nostre scelte. Che ognuno faccia la sua parte!

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