
Caro Sergio, ho seguito da remoto l’incontro sulla GPA svoltosi ieri sera a cura di Francesco Capizzi, che conosco fin da quando, primi anni ’70, frequentava da giovane studente la mia stessa parrocchia.
L’incontro è stato molto interessante perchè ha permesso di considerare i tanti aspetti che la GPA presenta. Ho ascoltato Corrado Melega di cui sono stato compagno al liceo Galvani e, come ricorderai, collega in consiglio comunale di Bologna. Devo dire che le sue argomentazioni mi sono parse troppo “sbrigative” e condizionate dalla sua formazione medica: la stessa impressione avevo avuto in un altro incontro sulla legge 194/78.
Vorrei invece soffermarmi sul tuo intervento, che risente della tua esperienza diretta, e che ho apprezzato per la sua pacatezza ed onestà intellettuale, anche se non condivido l’argomentazione principale con la quale hai giustificato la scelta della GPA.
In sostanza tu dici: il divieto della GPA è un mezzo per negare alle coppie omosessuali la possibilità di essere genitori, che corrisponde ad un desiderio che diventa un diritto se la sua realizzazione non arreca danno o nocumento ad alcuno, principio questo di ispirazione liberale.
Devo dire che mi stupisce che una persona di sinistra e di ispirazione socialdemocratica o socialcomunista come te, faccia ricorso ad un principio liberale con il quale si può giustificare e legittimare praticamente qualsiasi diritto individuale (al netto del relativismo e del soggettivismo della valutazione del danno arrecato ad altri dalle proprie scelte). Questo tipo di ragionamento, tra l’altro, trascura ed ignora qualsiasi istanza di carattere etico condiviso (tra parentesi mi pare che la legislazione sociale e la stessa Costituzione abbiano una chiara ispirazione etica). Ma andando oltre questa riserva di principio sul tuo ragionamento mi confronto, come hai fatto tu, con i due soggetti chiamati in causa dalla GPA, il figlio/a e la madre surrogata. Riguardo al primo concordo pienamente con te: penso anch’io che un figlio/a nato/a dalla GPA per conto di una coppia omosessuale che lo ha fortemente voluto e che vive in armonia non riceva alcun danno dall’essere stato generato in questo modo. Sono convinto che due gay o lesbiche possano essere una coppia di buoni genitori, penso anzi che andrebbe rimosso per essi il divieto di accedere all’adozione, ovviamente, come per tutti, a seguito della necessaria istruttoria di valutazione. Per quanto riguarda la donna invece mantengo le mie riserve: non è possibile generalizzare l’esperienza particolarmente positiva tua e del tuo compagno. Anche nell’incontro sono emersi tanti ineliminabili aspetti critici e negativi legati a quello che è in ogni caso un fatto commerciale regolato da un contratto riguardante il corpo di una donna che per ragioni di bisogno (condivido le tue perplessità sui casi “altruistici”) affitta (per un compenso od un indeterminato rimborso spese) una parte del proprio corpo. Non vedo grandi differenze fra la GPA ed il commercio degli organi per il trapianto. Nè mi pare una giustificazione valida il fatto che in questo modo la donna può risolvere i propri problemi economici: il furto o l’abusivismo per necessità possono essere al massimo un’attenuante ma non la legittimazione di un comportamento sanzionato. In sintesi la GPA mi pare una scorciatoia inaccettabile per rispondere ad un comprensibile desiderio di genitorialità che andrebbe soddisfatto in altro modo, ad esempio con l’adozione in casi speciali. Detto ciò non credo che abbia alcun senso la proposta dei partiti al governo di una legge che renda “universale” il divieto di GPA. Con stima Paolo Natali
Caro Paolo, avevo messo da parte la tua mail per risponderti in un momento di quiete, ma questo ha tardato ad arrivare e poi mi è scappato di mente. Ma non voglio mancare di risponderti perchè coltivo un buon ricordo dei nostri confronti su temi etici in Consiglio comunale, che fossero i diritti di gay e lesbiche o il testamento biologico, su cui pur partendo da posizioni assai diverse, c’era uno scambio proficuo se non altro utile a comprendere ragioni diverse dalle proprie.
Una prima osservazione riguarda il mio riferimento al pensiero liberale. Sono di certo una persona di sinistra e di ispirazione socialista (comunista lo sono stato a diciott’anni, e comunque di un comunismo libertario come quello dei movimenti studenteschi della fine degli anni ’70, mai realizzato, e mai realizzabile, storicamente). Oggi mi piace definirmi un socialista liberale, perchè credo fortemente che l’idea, in me radicale, della giustizia sociale debba essere coniugata con il rispetto di uno spazio intoccabile di libertà della persona che non è e non può essere a disposizione di un’etica maggioritaria o di Stato. Per questo sono fermamente convinto che alla persona debba essere lasciata la prima e l’ultima parola, laddove questo non entri in conflitto con i diritti di altri, ad esempio relativamente al proprio fine vita, fino alla decisione del suicidio, all’uso di sostanze stupefacenti, a partire da quelle meno dannose come le cosiddette droghe leggere, alla propria sessualità, alle posizioni religiose.
Se sul piano del diritto ad autodeterminarsi faccio mie le posizioni del liberalismo, in questo distinguendomi radicalmente dalla più ortodossa tradizione socialcomunista, penso anche che sul piano economico la libertà di impresa vada mitigata da forti misure sociali perchè non rappresenti una forma di sfruttamento economico: personalmente sarei d’accordo con una patrimoniale, un più marcato progressivismo fiscale, una forte tassa di successione, l’imposizione di un salario minimo alle aziende. Nè considero in alcun modo in contraddizione queste due posizioni, anzi credo che stiano insieme in modo per me indissolubile, cusi cine credo che diritti sociali e diritti civili siano due facce della stessa medaglia. Dissento radicalmente dalla consequenzialità che tu poni fra il principio liberale e l’assenza di un’istanza etica condivisa. Ma qui vedo un vizio della posizione cattolica, come di quella comunista, di considerare che extra ecclesia nulla salus, per cui si è tentati di individuare i fondamenti di un’etica condivisa nei fondamenti della propria visione del mondo. Io credo fortemente in un’etica laica, che vedo perfettamente incarnata nella nostra Costituzione, per cui il bene comune si persegue dando spazio alle diverse visioni del mondo che si riconoscono nei principi costituzionali.
Riguardo alla GPA mi limiterò a rispondere all’unica osservazione che poni: quello dei diritti delle donne coinvolte.
Anche qui, perdonami, vedo un tic culturale che conosco, quando dici che non è possibile generalizzare l’esperienza positiva che ho vissuto e raccontato. Troppo spesso da parte cattolica si risponde alla richiesta di spezzare un’univocità di lettura della realtà come se a un modello unico si volesse sostituire, imponendolo, un modello altrettanto unico. Da decenni mi tocca spiegare che la richiesta delle coppie dello stesso sesso di accedere al matrimonio civile, che è altra cosa dall’istituto religioso, non vuole in nessun modo sminuire o togliere valore al matrimonio fra persone di sesso diverso ( efficace lo slogan: “Sei contrario al matrimonio fra gay? Non sposare un gay”) o che accettare la realtà di un ragazzo o di una ragazza che non si riconosce nel proprio sesso biologico non significa mettere in discussione la possibilità che altri o altre vivano pienamente quell’identificazione. Nel merito, io NON voglio che venga generalizzata l’esperienza, assai positiva, mia e di altre centinaia di altre coppie italiane che conosco personalmente. So bene che in giro per il mondo ci sono situazioni di segno opposto, di sfruttamento e di assenza di libertà e di autonomia su decisioni delicate. Io, semplicemente chiedo che non venga generalizzata quest’altra situazione, travolgendo nella condanna e nel divieto relazioni fondate sulla condivisione, sulla libertà, sulla trasparenza, sulla costruzione di legami. Anche la questione economica si presta ad ambiguitá se non ben posta. Se un comportamento è da considerare in sé sbagliato e quindi da vietare, poco cambia che avvenga gratuitamente o a pagamento . Ma se si accetta che un’azione sia in sè eticamente accettabile allora diventa poco comprensibile che quell’azione diventa meno etica se chi la compie riceve un compenso per il tempo impiegato . Dall’operatore di un’organizzazione no profit, al missionario in Africa, dalla suora che insegna religione in una scuola a chi si prende cura di un bambino disabile, avere un compenso non inficia la bontà dell’atto e la dimensione del dono di sé che può fare parte di questa esperienza.
Se invece si considera quell’azione negativa allora il tema del compenso diventa una foglia di fico. . Ad ogni modo per me il dato forte è la libertá ( anche dal bisogno economico, che negli Stati Uniti viene verificata ) e la spontaneità con cui queste donne vivono questa esperienza . Come in tutto, ci sono diverse situazioni, e quando la risposta è la proibizione invece di una attenta regolamentazione che prenda atto della complessità non è mai quella più efficace nè quella più giusta. Un abbraccio Sergio Lo Giudice
pubblicazione autorizzata dai protagonisti